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«Ecco Fiorenze a tal termine condotta ch’a viva forza vi fia data in preda! voltate il vostro sdegno a quelle mura che chiuden dentro a sé tanto tesoro. Dentro a lor chiusi sono vostri nimici i quali omai non speran altro scampo se non che fra di voi naschin quistioni»

I prigioni di Plauto tradotti da l’Intronati, IV.II.48

Tra il 12 e il 14 ottobre 1529 le avanguardie degli imperiali comparvero davanti a Firenze occupando in pochi giorni tutte le alture a sud della città. Benedetto Varchi racconta, nella sua Storia Fiorentina, che i mercenari spagnoli, giunti all’Apparita, esultarono alla vista di quella ricca ed elegante città che speravano di saccheggiare. «Signora Fiorenza, apparecchia i broccati – si narra dicessero – ché noi venghiamo per comperargli a misura di picche», cioè con l’armi in pugno.1 L’ottimismo degli imperiali era però assolutamente ingiustificato, perché conquistare una città come Firenze non era davvero impresa facile. Complici anche i ritardi – più o meno volontari – con i quali le artiglierie promesse da Siena raggiunsero l’esercito cesareo, ci vollero ancora dodici giorni, secondo quanto racconta il Guicciardini, perché tutte le forze raccolte dall’Orange fossero concentrate nel piano di Ripoli, a due miglia da Firenze, e quindi dispiegate «in sui colli vicino ai ripari». In un primo momento l’Orange pose il suo quartier generale nella villa di Giovanni Bandini (nella località che poi prese il nome da quella famiglia e ancora oggi è conosciuta come “Il Bandino”). L’esercito imperiale, composto in quel momento da poco meno di dodicimila uomini (6mila italiani, 2500 lanzichenecchi tedeschi, 2000 spagnoli, oltre a 300 uomini d’arme e 500 cavalleggeri) si dispiegò invece a semicerchio a sud–est, senza tuttavia riuscire a controllare completamente l’ampio fronte collinare.

Lo schieramento dell’armata imperiale sotto le mura di Firenze è stato descritto con grande precisione dal Varchi. Partendo da est si incontravano le bandiere di Giovambattista Savelli, accampate sul colle di Rusciano. Alla Torre del Gallo aveva preso posizione il conte di San Secondo, mentre sul Giramonte si acquartierarono i reparti di Alessandro Vitelli (che però erano giunti sotto Firenze qualche giorno dopo il grosso dell’armata, perché impegnati nella conquista del Casentino). A Santa Margherita a Montici aveva stabilito la sua base Sciarra

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Colonna. Più indietro, verso il torrente Ema, si erano fermate le bande di Giovanni da Sassatello, detto “il Cagnaccio”, di Andrea Castaldi e di Monsignore d’Ascalino, detto “lo Scalino”. Proseguendo verso ovest si incontravano le truppe di Valerio Orsini, quelle di Pirro Colonna e del duca d’Amalfi, comandante il contingente senese. Più vicini alle mura verso Porta San Giorgio, dalla parte di San Leonardo, c’erano gli attendamenti del marchese di Vasto, vice–comandante dell’armata imperiale. Il principe d’Orange, lasciata la villa di Giovanni Bandini, si era stabilito dopo qualche giorno – insieme alla cavalleria napoletana e alla sua guardia del corpo personale – nelle case del Guicciardini al Pian de’ Giullari; nei pressi avevano trovato alloggio anche i fuorusciti fiorentini capeggiati da Baccio Valori, che poi sarebbe diventato commissario pontificio presso l’armata imperiale.2 Sul colle dietro Pian de’ Giullari e più in là verso Poggio Baroncelli (l’odierno Poggio Imperiale) si erano accampati parte dei lanzichenecchi tedeschi insieme alle fanterie spagnole, che poi si estendevano attraverso San Gaggio fino a Bellosguardo e a San Donato a Scopeto. Altri reparti spagnoli erano infine alloggiati a Marignolle, alle Campora e all’Oliveto.3

Nella totale passività dei difensori di Firenze, i primi giorni di assedio furono impiegati dagli imperiali per l’acquartieramento, per costruire ripari e per posizionare le artiglierie, che iniziarono infine a bersagliare la città con scarso successo. Consentire al nemico di stabilire il proprio accampamento in tutta tranquillità fu il primo grosso sbaglio dei fiorentini nella condotta della guerra. Nell’opinione di Aldo Valori,

«nessun dubbio che una sortita generale eseguita dalle porte San Giorgio e Romana puntando sul pian dei Giullari attraverso le strade incassate che separano le colline, avrebbe potuto in quei giorni rompere lo schieramento nemico in due o tre tronconi, ciascuno dei quali poteva essere facilmente sopraffatto, e il Quartier Generale dell’Orange, tagliato fuori dalle ali, si sarebbe trovato in serio pericolo».4

La sortita però non venne tentata, e fu solo il primo di una lunga serie di errori di valutazione che avrebbero pesato molto sull’esito finale del conflitto.

Contemporaneamente, dall’altra parte del fronte, anche Stefano Colonna si fortificava con i suoi veterani guasconi sul poggio di San Miniato – caposaldo di tutta la difesa – e su quello di San Francesco accanto alle milizie comandate da Mario Orsini, un altro dei comandanti agli ordini dei fiorentini. La guardia di porta San Giorgio era stata assegnata al reparto di Giovanni da Turino. Sul bastione che guardava verso porta Romana (che all’epoca si chiamava porta di San Piero Gattolino) stava la banda di Jacopo Tabussi, mentre la guardia della porta stessa era affidata agli uomini di Ottaviano Signorelli da Perugia. La cavalleria, al comando di Giorgio da Santa Croce e del fuoruscito senese Jacopo Bichi, aveva trovato alloggio in Borgognissanti. Il resto delle forze mercenarie assoldate da Firenze si distribuiva poi su tutto

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Il Valori fu nominato da Clemente VII commissario pontificio presso il campo imperiale soltanto il 20 novembre 1529, come si evince dal breve sub anulo piscatoris conservato sia in ASV, Arm. XLIV, 8, cc. 165v- 166r, che in ASV, A.A. Arm. I-XVIII, 6023. Una copia autenticata estratta dall'originale in ASF, Carte Strozziane. Prima serie, 12, cc. 194r-195r

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ARCHI, I, p. 678. 4 V

FIG. 2 – Disposizione delle forze imperiali e repubblicane durante l’assedio di Firenze - 1. Alloggiamenti di

Malatesta Baglioni 2. Bastioni di S. Miniato e S. Francesco (Stefano Colonna, Mario Orsini) 3. Porta di S. Miniato 4. Porta S. Giorgio 5. Bastioni di S. Giorgio (Giovanni da Turino, Amico da Venafro) 6. Porta di S. Piero Gattolino, o Romana (Ottaviano Signorelli) 7. Porta di S. Frediano 8. Alloggiamenti di Pasquino Còrso 9. Alloggiamenti della cavalleria leggera (Jacopo Bichi, Giorgio da Santa Croce) 10. Porta Faenza 11. Porta S. Gallo 12. Porta a Pinti 13. Porta alla Croce 14. Porta di S. Niccolò 15. Monastero di S. Salvi 16. Alloggiamenti del Principe d’Orange 17. Torre del Gallo (Pier Maria da San Secondo) 18. Giramonte (artiglieria imperiale) e San Leonardo (Marchese di Vasto) 19. Piazza del campo degli Italiani 20. Alloggiamenti di Alessandro Vitelli 21. Chiesa di S.ta Margherita a Montìci (Sciarra Colonna) 22. Alloggiamenti di Baccio Valori 23. Alloggiamenti di Giovanni da Sassatello (Cagnaccio), del Castaldo e di Monsignore d’Ascalino 24. Alloggiamenti di Pirro e Marzio Colonna 25. Piazza del campo dei Lanzichenecchi 26. Monastero di San Matteo (lanzichenecchi) 27. Palazzo dei Baroncelli 28. Palazzo dei Taddei (Duca d’Amalfi) 29. Le Campora (accampamento spagnolo) 30. S. Donato a Scopeto (Barracano da Nava) 31. Grande campo dei Lanzichenecchi presso la chiesa di S. Donato in Polverosa (Ludovico di Lodron) 32. Badia Fiesolana (Spagnoli) 33. Rusciano: accampamento di Giovan Battista Savelli.

il circuito delle mura. La città era invece controllata sia dalle Milizie dell’Ordinanza, sia dal colonnello di Pasquino Còrso, che si era comodamente acquartierato in case e palazzi del centro, da dove avrebbe potuto spostarsi più rapidamente verso qualunque parte della cinta muraria fosse stata attaccata. Il comando generale, cioè l’alloggio di Malatesta Baglioni, si trovava nelle case dei Serristori, lungo l’Arno: solo qualche mese dopo, come vedremo, il condottiero perugino avrebbe deciso di trasferirsi più vicino a porta Romana, nelle case dei Bini.

Intanto il 19 ottobre la Repubblica aveva stabilito di fare terra bruciata intorno alla città.5 Per decisione del Consiglio degli Ottanta tutti gli edifici dei sobborghi, nel raggio di un miglio dalle mura, dovevano essere rasi al suolo, per evitare che i nemici potessero impiegarli come basi o come riparo. Si trattava di un sacrificio non da poco, dal punto di vista economico, essendo i sobborghi di Firenze «altrettante città», come ebbe a scrivere Benedetto Varchi. La provvisione stabiliva che

«tutti gli edifici d’intorno a un miglio, o piccoli o grandi, così sacri come profani, che potessero recare o comodità alcuna a quei di fuori, o scomodità a quei di dentro, si spianassono e si mandassono a terra, ordinato prima che dovesse giustamente stimare la valuta loro, e porre i padroni in sur un libro a questo effetto ordinato, secondo la detta stima, creditori. Né si potrebbe a gran pena immaginare il danno, il quale ne risultò, sì al pubblico, essendo i borghi altrettante città, e sì al privato».6

Un esempio per tutti quello riportato dallo stesso Varchi: la famiglia Baccelli, che possedeva numerosi immobili nel borgo di San Gallo, subì per questa decisione danni per oltre ventimila fiorini d’oro. L’operazione fu condotta in tutta fretta, ma con grande efficacia, anche perché a quanto sembra vi collaborarono alacremente i cittadini, soprattutto i più giovani. Spesso anzi le demolizioni erano partecipate dagli stessi proprietari degli edifici da abbattere. Caddero sotto il piccone repubblicano anche complessi interessanti per arte e storia, come i monasteri delle monache di Faenza e di San Martino, o la chiesa quattrocentesca di San Gallo, che aveva dato il nome a quella celebre famiglia di scultori e architetti il cui rampollo Francesco collaborava con Michelangelo alla fortificazione di Firenze. Si salvò invece il cenacolo dipinto da Andrea Del Sarto alla Badia di San Salvi, e non si capisce bene perché ma fu certo una fortuna per la storia dell’arte.

L’intera operazione di abbattimento avvenne sotto gli occhi degli imperiali, che impegnati com’erano nella costruzione delle proprie fortificazioni, non poterono che assistere all’opera di demolizione.

«Ed io prendo maggior maraviglia ora nello scrivere, ch’io non presi allora nel vedere ricordandomi delle frotte de’ giovani, e tra essi bene spessi i propri padroni, andare a questa villa e a quella, e non solo rovinar le case con ogni gran furia, ma guastare gl’orti e i giardini, o sbarbando dalle radici, o tagliando colle scuri, non che le viti e i rosai, ma gli ulivi e i cedri e i melaranci, per farne fascine e portarle ne’ bastioni. Gli edifici si rovinavano con uno strumento

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In realtà già il 19 marzo una provvisione aveva dato autorità ai Nove della Milizia di gettare a terra gli edifici che ostacolavano la difesa della città. Si veda ASF, Provvisioni. Registri, 207, c. 82rv.

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così fatto: era una trave legata in bilico colle funi, nel mezzo d’un’altra per traverso, la quale molte opere dall’una e dall’altra parte concordevolmente dimenavano, e a guisa d’un ariete antico spignevano con tanta forza, e battevano con ella, spesseggiando quanto più potevano, ed inanimando colle voci l’un l’altro, come fanno i marinai, il muro che rovinar si doveva».7

Compiuto il grosso, usando questi improvvisati arieti o scalzando il suolo sotto i muri per provocarne il crollo, l’opera di rifinitura veniva poi terminata dalle maestranze assoldate dalla magistratura dei Nove della Milizia. Si recuperavano gli alberi abbattuti, le travi delle abitazioni e altri materiali che potevano servire alla difesa, che venivano trasportati sulle mura per rinforzare i bastioni cittadini; poi veniva dato fuoco a tutto impiegando olio di morchia. A conclusione dell’opera, ciò che rimaneva di case, botteghe ed edifici sacri era solo un cumulo di macerie fumanti.