Alla fine di ottobre, mentre l’esercito nemico continuava praticamente indisturbato a fortificare le proprie posizioni, Firenze si sentiva ormai pronta a lanciare la propria sfida. La città vantava una delle più lunghe cinte murarie d’Europa, ed era stata così fortificata che nel giudizio dell’ambasciatore veneto Carlo Cappello «il nemico deve piuttosto di lei temere, che sperar vittoria».8 Al mattino del 27 ottobre, per espressa richiesta della Signoria, Malatesta Baglioni si portò sui bastioni di San Miniato, seguito da un rumoroso corteggio composto da musici e trombettieri. Tutta la pittoresca banda messa insieme dalla Repubblica suonò a lungo inni e marcette, senza tuttavia provocare alcuna reazione nel campo avversario. Malatesta inviò all’Orange anche un araldo, un “trombetto” come si diceva allora, per sfidare il condottiero imperiale al combattimento. Il principe non rispose; e probabilmente non si preoccupò nemmeno più di tanto, visto che la rumorosa operazione non aveva niente di pericoloso. Come ultima provocazione, gli oltre 150 pezzi d’artiglieria che si trovavano sulle mura della città furono fatti sparare contemporaneamente, in una gigantesca salva la cui eco fu udita probabilmente in tutta la piana fiorentina. «Al quale romore rimbombando d’ogn’intorno tutte l’acque, e tutti i colli vicini, e ricoprendo ogni cosa più che foltissima nebbia per li fumi della polvere, si rallegrò e si spaventò insiememente con disusata letizia e paura tutta Firenze», scrisse il Varchi narrando l’episodio.9 Il rombo dei cannoni annunciava ufficialmente, con un gesto simbolico che ancora risentiva di una mentalità medievale e cavalleresca, che l’assedio di Firenze era iniziato.
Negli stessi giorni iniziavano anche le prime schermaglie tra le forze in campo, mentre il principe d’Orange, scrisse il Guicciardini,
7 Ibidem. Un anno dopo la conclusione dell’assedio, con una provvisione del 22 maggio 1531, la ricostruzione dei borghi fuori delle mura venne limitata, in maniera che non fossero più di ostacolo alla difesa. Cfr. MANETTI- POZZANA, p. 95.
8 Carlo Cappello ad Andrea Gritti, 29 ottobre 1529, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 124r-126v. 9 V
«avuti guastatori e alcuni pezzi piccoli di artiglieria da’ lucchesi, fece lavorare uno riparo, credevasi per dare uno assalto al bastione di Saminiato; e all’incontro, per offenderlo, furono piantati nell’orto di Saminiato quattro cannoni in su uno cavaliere».10
I bombardamenti imperiali contro le fortificazioni di San Miniato non diedero grande frutto, anche perché nelle guerre della prima metà del Cinquecento non era infrequente vedersi scoppiare un cannone tra le mani durante l’uso. Come accadde il 29 ottobre, nel campo cesareo, mentre gli artiglieri stavano cercando di neutralizzare un sagro, un pezzo di medio calibro posizionato dai fiorentini sul campanile di San Miniato, e che sparava palle di ferro da 3 libbre. Sul campanile era stata installata una batteria di due sagri affidata a uno specialista, un artigliere fiorentino che il Varchi ci dice essere già stato in servizio nella Fortezza Nuova di Pisa: il bombardiere Giovanni di Antonio da Firenze, detto “il Lupo”. Occupandosi direttamente del puntamento, dall’alto del campanile Lupo molestava gli spostamenti e gli alloggiamenti dell’esercito nemico, facendo il possibile per ritardarne l’opera di fortificazione sul colle di Giramonte; e secondo il racconto del Varchi «faceva danno incredibile al campo: perché, scoprendo egli tutto’l paese d’intorno, ogni volta che vedeva alcuna frotta di nimici, tirava loro, e, sempre che entravano in guardia e uscivano, ne sfracellava alcuno, e talvolta parecchi».11 A partire dal 29 ottobre tre giorni ininterrotti di bombardamento imperiale sulle postazioni del Lupo non riuscirono a rendere inoffensiva la batteria, e anzi nell’impresa gli imperiali persero due cannoni, che scoppiarono per l’eccessivo caricamento; il campanile era stato interamente rivestito di materassi, per attutire eventuali colpi ricevuti, e nel suo racconto il Varchi osserva ironico, e certo doveva essere voce di popolo, che «chi era venuto sì baldanzosamente per pigliare tutto Firenze, non pigliasse né anco una delle sue torri».12
Dal campo cesareo furono sparati anche otto colpi all’ora contro San Miniato, senza ottenere alcun risultato. Quando gli imperiali desistettero, dopo quasi 150 colpi di cannone, ventidue palle cadute all’interno delle mura cittadine furono “riciclate” e impiegate dai Nove della Milizia per approvvigionare le artiglierie fiorentine.13 Miglior fortuna non ebbe il tentativo di bombardare direttamente la città. Il 4 novembre gli artiglieri imperiali puntarono una colubrina direttamente su Palazzo Vecchio: il pezzo anche in questo caso si spaccò, mentre la palla cadde in un vicolo dietro il palazzo e colpì soltanto la casa del boia. Durante l’assedio non furono comunque molti i bombardamenti che interessarono il centro cittadino, anche quando maggiore fu la disponibilità di artiglieria: da un lato infatti papa Clemente VII aveva chiesto di limitare al massimo i danni alla città; dall’altro l’esercito dell’Orange scarseggiava sia di cannoni sia di munizionamento. Non mancarono, in alcune occasioni, i colpi diretti verso la città assediata: ma furono occasionali, sparati come gesto di sfida o come esperimento, o tiri “sbagliati” diretti contro le fortificazioni fiorentine.14
10
F. GUICCIARDINI, Storia…, III, pp. 2027-2028. 11 V
ARCHI, I, pp. 687-688. 12 Ibidem.
13
MANETTI, p. 73.
14 Uno di questi, sparato da una colubrina, fu quello che nella primavera seguente atterrò e uccise il cavallo dell’ambasciatore veneto, quel Carlo Cappello che abbiamo già ricordato più volte. L’ambasciatore seppellì il
Gli scarsi risultati ottenuti fino a quel momento dall’esercito imperiale contribuivano a rinvigorire gli spiriti dei fiorentini. In una lettera indirizzata al commissario fiorentino di Borgo San Sepolcro, i Dieci scrivevano:
«(…) Li nimici sono alloggiati tra Giramonte, Santa Margherita a Montici et San Donato a Scopeto, et da qualche dì in qua non hanno atteso ad altro che a tirare al campanile di San Miniato, el quale non havendo potuto rovinare hanno restato di tirarvi. Patiscono assai di vectovaglie et maxime di strami et alloggiano molto larghi et noi qui stiamo di buona voglia et senza paura alcuna che ci habbiano a forzare».15
Il principe d’Orange dovette rendersi presto conto che le forze di cui disponeva non potevano bastare per prendere una città munita come Firenze, e anche agli occhi di osservatori esperti l’esercito imperiale appariva decisamente sottodimensionato per riuscire nell’impresa. Il 4 novembre, appena giunto al campo imperiale dopo aver condotto le operazioni militari sul confine senese, il duca d’Amalfi16 informò Carlo V della situazione che vi aveva trovato:
«anchorche queste genti animosissimamente si portino ogni giorno in le factioni chui occorreno, non dimeno se Vostra Altezza non puederà con più gente, et artigliarie, questi non mi pareno esser à bastanza di expugnare Firenze, stando si muniti di bastioni, et gente, et artigliarie, e denari ad sufficientia, del che in questo exercito felicissimo è penuria».17
A mancare, soprattutto, erano i guastatori (come l’Orange continuamente ripeteva), che sarebbero dovuti essere forniti da Siena. Per completare le opere di assedio, scavare trincee e tunnel di mina ne servivano almeno mille (il cui stipendio fosse già pagato, «perche altramenti non se poriano tenire», oltre a picconi, pale, «pignate per mectere dentro fuoco artificiale» e artiglieri esperti. 18
Di fronte a un esercito che sembrava mancare di tutto, i fiorentini – come ebbe modo di scrivere l’agente imperiale Juan Antonio Muscetula sollecitando all’imperatore l’invio di rinforzi – «stanno ostinati», nella «speranza che per falta di denari questo exercito non possi molto noiarli».19
Il 31 ottobre, in una lettera inviata all’imperatore, anche il principe era tornato a manifestare tutta la sua preoccupazione per il successo dell’impresa: «Je n’ay pas ung sou, comme vous savés, ny nul moyen d’en recouvrere». Il timore era che le truppe mercenarie tedesche non volessero più servire, come quotidianamente gli prospettavano i capitani ai suoi ordini, se non c’era la garanzia della paga.
proprio cavallo come un eroe, con tutti gli onori e persino il monumento. Lo ricorda una lapide ancora visibile sul Lungarno, all’altezza di piazza dei Giudici: «Ossa equii Caroli Capelli / legati veneti / non ingrata heros sonipes / memorande sepulcrum / hoc tibi pro meritis haec / movimenta dedit / obsessa urbs / MDXXX Id. mart.».
15 I Dieci a Bernardo Giachinotti, 3 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balia. Missive, 105, c. 37v 16
Il senese Alfonso Piccolomini, la cui condotta era pagata da Siena pur rispondendo agli ordini del Principe d’Orange.
17 Il duca d’Amalfi a Carlo V, 4 novembre 1529, in AGS, Estado, 1454, f. 194.
18 La questione dei guastatori era già stata affrontata dal principe nelle istruzioni al Montbardon del 5 ottobre 1529, cit. Per le richieste ai senesi, cui abbiamo già accennato, cfr. la lettera di Filiberto di Chalon alla Balìa di Siena del 7 ottobre 1529 (2), cit.
«Les Espagnolx tous les jours sont après moy, me disant sy je pense feyre myracle de les fere vivre sans manger et quy ne peulent manger sans argent et que je ne le vous fayt pas savoyr, et sont tant mal contens et a tant grant raison que je ne leur say que dire sinon que de jour a autre j’atens argent de vous et qu’yl ayent ung petit de pacyence, et ainsy se pase ung jour a autre».
Con le milizie italiane non andava meglio: «Les Italiens ont esté payé se moys, mès a ceste heure il fault et dient quy veullent estre payés». In questa situazione, aggiungeva il principe, «je tiens la mutinacyon generale pour toute sertayne».20
Arrivato sotto le mura di Firenze, ma pressato dalla necessità di denaro per sostenere la sua armata, il viceré di Napoli fu costretto a prendere tempo in attesa di rinforzi e di denari, cercando nel mentre di chiudere le vie di rifornimento della città. D’altra parte l’Orange, come molti altri generali dell’epoca, aveva fatto arte e dottrina della guerra di logoramento, anche per non rimetterci quello che era il principale mezzo di lavoro di un soldato di mestiere, cioè l’esercito.
Nelle prime settimane d’assedio le forze in campo erano tutto sommato alla pari, e anzi pendevano forse dalla parte di Firenze: un’uscita in forze dalle mura cittadine, o il convergere delle rimanenti guarnigioni fiorentine sulla città avrebbero potuto benissimo spezzare l’assedio sul nascere e sconfiggere l’armata imperiale in campo aperto. Lo capiva l’Orange, che scriveva «yl sont autant de gens dedans que nous sumes deors»;21 e dall’altra parte delle mura lo capiva probabilmente anche il Baglioni. Non lo capirono però i vertici della Repubblica, che scelsero invece una strategia attendista, forse confidando nelle trattative ancora in corso, nella robustezza delle mura cittadine e magari in un soccorso del re di Francia. Scrisse il Guicciardini:
«Considerandosi per tutti la oppugnazione di Firenze, massime da uno esercito solo, essere difficillima cominciorono le fazioni a procedere lentamente, piú tosto con scaramuccie che con maniera di oppugnazione. Fecesi, a’ due di novembre, una grossa scaramuccia al bastione di San Giorgio e a quello di San Niccolò e della strada Romana; e a’ quattro fu piantata in su il Giramonte una colubrina al palazzo de’ Signori, che al primo colpo si aperse».22
I giorni passavano tra bombardamenti infruttuosi e qualche scaramuccia, come ricordò Ferrante Gonzaga scrivendo a Mantova al fratello, il marchese Federico.23
Il primo vero assalto contro Firenze fu portato nella notte tra il 9 e il 10 novembre, quando già il malumore cominciava a serpeggiare tra le truppe imperiali. Era la vigilia di San Martino. Si trattava di una festività particolarmente cara ai fiorentini, che tradizionalmente la festeggiavano con una fiera, grandi banchetti e memorabili sbronze. Credendo di prendere la città di sorpresa e approfittando di un forte temporale, il principe d’Orange, utilizzando 400 scale fornite dai senesi, ordinò l’assalto a quel tratto di mura che va dalla porta di San Niccolò a quella di San Frediano. Il principe sperava forse di replicare il successo dell’attacco che due
20 Filiberto di Chalon a Carlo V, 30-31 ottobre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 68.3, cc. 50r-53r. 21
Filiberto di Chalon a Carlo V, 25 ottobre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 68.3, cc. 46rv e 49rv. 22 F. G
UICCIARDINI, Storia…, III, p. 2028.
anni prima aveva portato alla presa di Roma. La sorpresa tuttavia non ci fu: le solide mura cittadine – rinforzate dalle fortificazioni apprestate su progetto di Michelangelo – garantivano un’eccellente protezione, e le sentinelle sui camminamenti facevano buona guardia. Al primo allarme accorsero sollecite le milizie cittadine dell’Ordinanza, così in gran numero che i ponti sull’Arno furono intasati dalla ressa dei soldati: «La città in un momento fu tutta in arme, e ciascuno alli luoghi suoi senza alcun rumore, sebbene era pioggia grande e l’aere scurissimo; i nemici fuorno forzati a ritirarsi con loro vergogna, né si sa ancora il danno loro, ma si giudica ne siano morti assai dall’artiglieria».24
La sconfitta convinse ulteriormente l’Orange della necessità di ricevere rinforzi, per chiudere l’accerchiamento della città.25 Già nella lettera inviata all’imperatore il 25 ottobre, il principe aveva suggerito di mettere in piedi una seconda armata, per attuare un blocco con un campo di dieci-dodicimila uomini «du costé de dela l’eau», cioè sull’altra sponda dell’Arno.26 Il 12 novembre il principe partì per Bologna, dove già si erano incontrati l’imperatore e il papa, per supplicare l’invio di altre truppe. Prima ancora che l’Orange partisse, tuttavia, Carlo V e Clemente VII avevano già discusso l’argomento, ipotizzando «d’envoyer encoires gens pour mectre ung autre siege devant ledit Florence, de Xm hommes du moings, Allemans et Espaignolz, et aussi du moings XIII pieces d’artillerie, cannons et couleuvrines avec la municion neccessaire».27 Gli ambasciatori fiorentini a Bologna, venuti a conoscenza della notizia, avvisarono immediatamente i Dieci, spiegando che «già è inviato Bernardino dalla Barba a levar di Lombardia li fanti spagnoli».28
Nel frattempo, per venire incontro alle richieste dell’Orange, l’imperatore inviò verso Firenze parte dell’armata che costituiva la sua scorta personale:
«considéré que ma gendarmerie ne se sauroit employer en ce temps et saison en chose pour faire grant effect mieulx que a l’emprinse contre ledit Florence, j’ay advisé et deliberé d’y envoyer ung bon nombre de gens de guerre et de pied, ensemble artillerie et munition».29
In breve l’accordo con Clemente VII fu trovato: i rinforzi sarebbero stati inviati dall’imperatore, ma pagati con i soldi del papa. Sessantamila ducati al mese, fu la somma promessa all’Orange, che il pontefice concesse in cambio della possibilità di scegliere la forma di governo della città quando fosse stata riconquistata.
24 Carlo Cappello ad Andrea Gritti, 10 novembre 1529, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 129v- 131v.
25
Il legame tra la sconfitta di San Martino e la partenza del principe d’Orange per Bologna è sostenuto da ROBERT, I, p. 330. Sull’episodio vedi ancheBAGLIONI, 290.
26 Filiberto di Chalon a Carlo V, 25 ottobre 1529, cit.
27 Carlo V a Filiberto di Chalon, 8 novembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 67.5, c. 97rv. 28
Gli oratori fiorentini presso Clemente VII ai Dieci, 10 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 151, c. 51rv.