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L’incursione in Mugello e il massacro della Lastra

Intanto le operazioni dell’esercito imperiale in Toscana proseguivano con alterne vicende. A metà di novembre i fiorentini avevano tentato di riprendere il controllo del Mugello, e in particolare di Borgo San Lorenzo, posizione che avrebbe reso difficile all’Orange mantenere le comunicazioni con Bologna (dove, va ricordato, si trovavano in quel momento sia il papa sia l’imperatore). «A questi giorni – scrisse il 17 novembre il nuovo ambasciatore senese al campo imperiale, Alfonso Faleri – uscirono di Firenze 2 mila fanti e 50 cavalli e andarno alla volta de la montagna per pigliare una bicochetta che si dice Santo Lorenzo, per aver lì ricetto o posser serrare il passo a la Excellentia del principe».39 Borgo era controllato dalle bande di predoni del condottiero faentino Balasso de’ Naldi e da quelle di Cesare da Cavina, che nelle settimane precedenti, con 2000 fanti, avevano scorazzato tra Ronta, Pulicciano e Gattaia, disturbati nelle loro azioni soltanto dal pugno di uomini agli ordini di Albizzo da Fortuna, e dai trecento fanti di Filippo Parenti di stanza a Vicchio. Giunti nei pressi di Borgo San Lorenzo i fiorentini, al comando di Pasquino Còrso, cercarono subito di “guastare” e penetrare le fortificazioni avversarie. Ma non ci riuscirono, perché gli archibugieri nemici li accolsero con un intenso fuoco di fucileria, mentre sia il Naldi sia il Cavina uscivano dal paese alla testa dei propri uomini. I fiorentini, che nello scontro ebbero una quindicina di morti e numerosi feriti, dovettero riconoscere il valore del nemico, ammettendo che Borgo era difeso non da predoni, come si era detto, ma «da paladini». Avvertito dei movimenti dei fiorentini, il marchese di Vasto aveva intanto lasciato il campo sotto Firenze, muovendo rapidamente sul Mugello per cogliere il nemico alle spalle. L’assalto a Borgo San Lorenzo fu così respinto: nel tentativo, i fiorentini avevano perso un centinaio di soldati.

Fu forse durante questa azione che si svolse un episodio dai contorni piuttosto oscuri. Sembra infatti che il capitano Otto Barbolani di Montauto – lo stesso che aveva già efficacemente contrastato le scorrerie del Ramazzotto e del conte Pepoli – fosse stato spedito dai Dieci in Mugello con un manipolo di uomini, per quella che oggi chiameremmo una “operazione riservata”. L’incarico era quello di puntare sul castello del Trebbio, dove si era rifugiata Maria Salviati, insieme col figlio dodicenne Cosimo de’ Medici (che di lì a qualche anno sarebbe diventato il secondo duca di Firenze e più tardi il primo granduca di Toscana). Maria era la figlia di Jacopo Salviati – esponente di un’importante famiglia tradizionalmente filomedicea – e da quattro anni vedova di Giovanni de’ Medici, il condottiero di quelle Bande Nere che erano state il vanto militare di Firenze. La missione affidata al Barbolani prevedeva la cattura sia di Maria sia del piccolo Cosimo, per portarli in ostaggio in città. Se non fosse stato possibile, avrebbe dovuto ucciderli. Non sono riuscito a trovare documentazione archivistica per questo episodio: ma questo non significa gran che, perché è certo, e certificato da diverse fonti, che molti documenti (probabilmente quelli più compromettenti) furono fatti sparire dagli archivi repubblicani già al termine della guerra; e tra questi un grosso sacco di carte relative alle operazioni fuori Firenze fu prelevato da Silvestro Aldobrandini, che dopo quasi

vent’anni d’esilio ancora le conservava a Pesaro.40

Sembra però che Otto di Montauto, che nelle Bande Nere aveva militato ricevendo molti onori da Giovanni de’ Medici, giunto nei pressi del Trebbio avesse preferito rinunciare alla missione, che riteneva poco onorevole, riferendo poi alla Signoria che il castello era guardato da contadini armati e non era stato possibile passare all’azione senza rischiare tutta la compagnia.41 Di lì a poco il “rifiuto” del Montauto sarebbe stato severamente punito; ma per il momento l’insuccesso delle incursioni in Mugello non sembrava preoccupare più di tanto i Signori. Il centro della resistenza fiorentina nella zona rimaneva ancora Vicchio. I fanti di Filippo Parenti continuavano a compiere imboscate ai danni dei convogli imperial-papalini, obbligandoli a compiere percorsi più lunghi e ritardando quindi l’approvvigionamento del campo imperiale sotto Firenze. Allo stesso tempo il Parenti, che ormai era così odiato dai filo-medicei da essere impiccato in effigie, riusciva con i suoi sforzi a fare di Vicchio la «scala di tutta la Romagna», come fu scritto in una lettera: cioè a mantenere aperte le difficili vie di comunicazione tra la città e quei territori della Romagna toscana dove si trovava impegnato Lorenzo Carnesecchi.

Dopo l’incursione in Mugello, il commissario di Vicchio ricevette finalmente un piccolo rinforzo; e soprattutto, preziosissimi, quattro piccoli pezzi di artiglieria che furono subito messi in batteria ai lati delle porte castellane. Impiegando bene quei piccoli cannoni, i convogli nemici furono in ancor maggior pericolo. Lo riconobbe anche il marchese di Vasto, che il 25 novembre scriveva da Scarperia al principe d’Orange, sulla via del ritorno da Bologna. Il marchese annunciava allo Chalon che gli sarebbe andato incontro per la Val di Bisenzio, perché

«la via de Ponte a Sieve è stata impossibile a far, perché quelli che sono in Vichi hanno guasto tucto el camino, e di più hanno quattro pezzi di bronzo che battono il passo, sopra il quale per adobarlo ci bisognerìa perder tempo e uomini»42.

Dopo esser tornato a Firenze il principe d’Orange aveva ripreso a temporeggiare, sapendo che le trattative di pace tra l’Impero e i collegati italiani avrebbero condotto ben presto all’isolamento (politico, ma anche fisico) della città. Da parte loro invece, «i fiorentini – scriveva a fine mese l’ambasciatore veneziano Carlo Cappello – si confermano in volere,

40 G.M

ILANESI, p. 100. Altri documenti, come vedremo più avanti, furono invece sottratti da uno degli inviati pontifici, il vescovo di Assisi Angiolo Marzi, che nelle fasi più calde della repressione medicea salvò in tal modo molti repubblicani facendo sparire le prove della loro compromissione col regime degli Arrabbiati.

41 A

MMIRATO,VI, p.139.VARCHI,I, pp. 741-742 fa risalire i fatti ai giorni seguenti al 6 dicembre, quando il Montauto stava tornando dalla fallita missione di Lastra a Signa di cui parliamo più avanti. Uno dei primi biografi di Cosimo, Baccio Baldini, ridimensionò la responsabilità del Montauto nella mancata cattura di Maria Salviati, attribuendo la salvezza del futuro Granduca alla previdenza della madre, informata (non si sa da chi) dei piani fiorentini e dell’arrivo del signor Otto: B.BALDINI, Vita di Cosimo Medici primo granduca di Toscana, Firenze, Stamperia di Bartolomeo Sermartelli, 1578, p. 10. Anche Giovan Battista Cini sollevò da ogni colpa il Montauto, sostenendo che ad aiutare il giovane Cosimo nella fuga fu il concorso di alcuni ex compagni del padre, che abitavano in Mugello: G.B.CINI, Vita del Serenissimo Signor Cosimo de’ Medici primo Gran Duca

di Toscana, Firenze, Giunti, 1611, p. 15.

42 Il marchese di Vasto a Filiberto di Chalon, 25 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 148, c. 281r.

ovvero conseguir la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la perdono, speso e consumato tutto l’avere loro, non vi sopravviva alcuno, e solamente si dica qui fu Firenze».43

Nella loro volontà di resistenza a oltranza i vertici politici fiorentini confidavano nello sfinimento dell’esercito nemico e nella robustezza delle proprie mura, che dava buone garanzie di fronte agli assalti diretti. Ben più minaccioso appariva piuttosto agli occhi dei Dieci di Libertà lo spettro della fame, qualora non fosse stato possibile far giungere i rifornimenti dal contado. Non per nulla, proprio per assicurare una migliore protezione del castello di Lastra a Signa, caposaldo fino allora lasciato sguarnito lungo l’importante strada per Empoli e Pisa, alla fine di novembre era stato ordinato a Michelangelo da Parrano e agli uomini sotto il suo comando di lasciare il castello di Campi, dove erano acquartierati da poco più di un mese, per trasferirsi a guardia della Lastra; al Parrano si unirono inoltre due insegne (oggi diremmo due compagnie) inviate da Empoli, sotto il comando dei capitani Fioravante da Pistoia e Ottaviano da Bertinoro. «El mettere fanterie nella Lastra – commentava il 30 novembre Francesco Ferrucci, che nelle stesse ore stava facendo rafforzare le mura di Montelupo – servirà (…) a tenere più istretto el nimico; et le grascie (…) potranno essere porte loro dalli luoghi circumstanti di là d’Arno; et quando questo non si potesse fare, le ispigneremo di qui, senza essere impediti dalli nimici».44

Il pericolo che poteva derivare da un’occupazione fiorentina del castello di Lastra a Signa fu però immediatamente intuito dal principe d’Orange, che inviò sul posto un corpo di spedizione di 1500 uomini al comando di Roderigo Ripalta. Ai tre capitani fiorentini (che disponevano di appena 300 fanti, pochissimi viveri e munizioni) il Ripalta inviò un messo con la richiesta di resa. Sperando però in un rapido soccorso, e confidando nella buona tenuta delle mura lastrigiane, la richiesta fu respinta, e iniziò la battaglia: era il 5 dicembre 1529. «Gli spagnuoli – racconta il Varchi nella sua Storia Fiorentina – senza battere il castello non avendo condotto seco artiglieria, appoggiarono arditamente le scale alle mura, e cominciarono un feroce assalto» che durò fino a notte fonda e fu respinto con pesanti perdite tra gli aggressori. Quella stessa notte, durante la quale «quei della Lastra non si cavarono mai l’arme da dosso, e stettero sempre su per le mura», l’Orange inviò al Ripalta un rinforzo composto da 1000 lanzichenecchi, altrettanti spagnoli, 400 cavalieri e 4 cannoni; mentre da Firenze veniva mandato alle guarnigioni di Prato e di Empoli l’ordine di correre in difesa del castello. Dalla porta di San Giorgio uscì una colonna di soccorso, guidata da Giorgio da Santa Croce, da Pasquino Còrso e da Amico Passamonti da Arsoli. Da Prato uscì invece Otto Barbolani di Montauto insieme a quattro bandiere di fanteria, circa quattrocento uomini. Da Empoli furono inviati 300 fanti e 90 cavalli.45 Ma partirono tardi, perché la richiesta di soccorso sorprese gli

43

Carlo Cappello ad Andrea Gritti, 26-30 novembre 1529, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 134v-136v.

44 Francesco Ferrucci ai Dieci, 30 novembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 148, c. 324rv. L’ordine al Parrano di trasferirsi «alla guardia della Lastra», del 30 novembre, è in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 105, c. 88rv.

45 Cfr. i documenti in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 104, cc. 109r; 109v; 110r, contenenti le disposizioni inviate rispettivamente al Ferrucci a Empoli, a Lottieri Gherardi a Prato e a Giuliano Vespucci a Signa.

uomini del Ferrucci mentre stavano tornando da una scorreria a Montespertoli; e solo nella notte tra il 5 e 6 dicembre riuscirono a congiungersi, a Montelupo, con il corpo di spedizione di Giorgio da Santa Croce che giunto a Signa era stato costretto a ritirarsi nell’impossibilità di affrontare il nemico.

Per non battersi con gli imperiali in campo aperto anche la seconda colonna di soccorso, quella in arrivo da Prato sotto il comando del Montauto, giunta al Ponte a Signa non poté che ripiegare a sua volta. Realizzato il concentramento delle forze, da Montelupo i fiorentini tornarono quindi verso la Lastra, attestandosi nel castello di Malmantile: da lì, mandando in avanscoperta un reparto di cavalleria, ebbero la certezza che il castello lastrigiano era già caduto, e furono quindi costretti a ripiegare nuovamente su Montelupo, rientrando infine a Empoli.46

Era successo che dopo una preparazione condotta a colpi d’artiglieria, gli imperiali erano tornati all’assalto in forze, e i temutissimi lanzichenecchi erano infine riusciti a infrangere le difese penetrando all’interno del castello. A questo punto, secondo il Varchi, i lastrigiani,

«conoscendo di non poter lungamente resistere, non avendo né vettovaglie né munizione, e non veggendo comparir soccorso da parte nessuna, vennero, difendendosi sempre coraggiosamente dai lanzi, i quali avevano cominciato ad entrar dentro, ad accordo cogli Spagnuoli, i quali promissero loro e giurarono di dovergli lasciare andare, salve le persone e le robe, dove più gli piacesse; ma non sì tosto fu loro aperta la porta, che eglino la richiusero, e fatti contra il giuramento e la fede data, prigioni i tre capitani, tutti gli altri, i quali furono poco meno di dugento, mandarono a fil di spada».47

Quello di Lastra a Signa fu un massacro, condotto contro le pur elementari leggi di guerra dell’epoca, ma nel campo imperiale nessuno se ne dolse troppo: lo stesso principe d’Orange, solitamente attento alle questioni dell’onore, nella lettera scritta il 7 dicembre a Carlo V liquidò la faccenda in poche righe, spiegando che i suoi uomini avevano sopraffatto i difensori lastrigiani e li avevano «tretous tués qoy n’en est pas eschapé ung»; aggiungendo soltanto che «sy ont essayé les ennemys de les secourre, mès il vindrent tard».48

Un simile comportamento era in effetti contrario alle regole di bona guerra, e anzi andava nella direzione opposta, quella della mala guerra.49 Si tratta di due concetti, questi, che si trovano frequentemente espressi nelle fonti relative ai numerosi conflitti tra XV e XVI secolo.

46

Lettere di Giorgio da Santa Croce ai Dieci del 5 e 6 dicembre 1529 : in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 149, c. 51r; 50bis r; 143r. I fatti della Lastra destarono molti sospetti nei confronti di Otto Barbolani di Montauto, che già aveva disobbedito agli ordini durante la “missione segreta” in Mugello. Accusato dal commissario pratese Lottieri Gherardi di voler disertare nel campo avversario, il Barbolani fu imprigionato e portato a Firenze. Torturato, non fece alcuna ammissione, e venne quindi scarcerato. Ma di lì a poco fu nuovamente imprigionato per aver ucciso con lo stocco un soldato insubordinato, tale Jacopo Arrighi. Processato, il Montauto venne condannato a morte. Solo l’intervento in suo favore di numerosi notabili, tra i quali Alfonso Strozzi, convinse la Signoria a commutargli la pena: mille ducati da pagarsi subito (pena il taglio di una mano) e un anno di carcere nelle Stinche.

47

VARCHI, I, pp. 700-701. Cfr. SEGNI, pp. 158-159, secondo il quale invece gli spagnoli salvarono «la vita alla più parte de’ soldati, e si contentassimo delle loro taglie». L’episodio della Lastra è solo fuggevolmente accennato in F.GUICCIARDINI, Storia..., III, pp. 2037-2038.

48

Filiberto di Chalon a Carlo V, 7 dicembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 68.3, c. 65r-67v. 49 Su questo argomento cfr. A.M

ONTI, Bona guerra, mala guerra. Il massacro di Lastra a Signa del 1529: una

“Fare bona guerra” significava rispettare nei confronti del nemico quell’insieme di riguardi, correttezze e cortesie che stavano alla base dell’elementare diritto bellico di quei tempi: una sorta di codice deontologico guerresco, non scritto ma non per questo meno vincolante. Possiamo elencarne alcune norme: onorare le tregue d’armi e gli impegni presi col nemico; rispettare le chiese e i luoghi santi; lasciar libero movimento ad ambasciatori, araldi e trombetti; salvare la vita ai prigionieri; e permettere a quest’ultimi di riscattare la propria libertà, pagando una somma che veniva indicata col nome di “quartiere” e che corrispondeva solitamente a un mese di paga.50 Chi rispettava queste regole, poteva legittimamente aspettarsi che il nemico le osservasse a sua volta, e che in caso di sconfitta le condizioni di resa non fossero troppo pesanti, secondo la massima per cui “bona guerra fa bona pace”. Il contrario di tutto questo era invece la mala guerra, cioè la guerra senza quartiere, senza regole.

Documenti conservati nell’Archivio di Stato di Firenze gettano una luce diversa sui fatti di Lastra, tanto da indurre a ritenere che la decisione di attuare il massacro fosse stata presa a tavolino, forse come esempio per i centri minori della resistenza fiorentina, o forse come mezzo di pressione nei confronti della Signoria fiorentina.

Pochi giorni prima del massacro di Lastra a Signa, la questione di come dovessero essere trattati i combattenti nemici era stata al centro di una trattativa tra i vertici repubblicani e quelli dell’esercito cesareo. Il principe d’Orange si trovava in quel momento a Bologna, a rapporto dall’imperatore, e durante la sua assenza dal campo il marchese di Vasto – rimasto al comando in sua vece – scrisse ai Dieci lamentando i trattamenti inumani che erano stati riservati ad alcuni prigionieri spagnoli.51

Il 23 novembre, i Dieci replicarono negando tutto:

«Noi non habbiamo usato verso loro alcuna crudeltà, ne habbiamo in animo usarla mai (...) ma gli habbiamo messi in una carcere, che il non vi è altra incomodità che il non potere andare fuori a loro piacere, et il vitto li habbiamo sempre subministrato tale che se ne hanno da contentar».

Al contrario, sostenevano i fiorentini, erano gli imperiali a trattare in modo inumano i loro prigionieri, ricorrendo anche alla tortura, tanto che alcuni fiorentini rilasciati erano tornati

50

L’espressione “dare quartiere” ha appunto il significato di salvare la vita ai vinti. Cioè, come scrisse nei suoi

Diarii il cronista veneto Marino Sanuto, che «piando sacomani e famigli, si voglion lassar andar, poi che i

saranno sta spogliati; e piando arzeri e homeni d’arme, si scambia un per l’altro, che si hanno a scambiar, si paga el quartiron, zoè farli pagar e poi lassarli andar perché anche lhoro farian el simile»: SANUTO, XII, col. 552. Sugli usi di guerra cinquecenteschi rimane fondamentale il secondo libro del De iure belli libri tres, di Alberico Gentili, che scrivendo alla fine del Cinquecento riunì in un solo trattato la cultura militare che si era accumulata durante le guerre del XVI secolo: A.GENTILI, Del diritto di guerra, a cura di A.FIORINI, Livorno, Vigo, 1877. 51 Il trattamento riservato dai fiorentini ai propri prigionieri è al centro di una commedia senese coeva, a lungo rimasta inedita e pubblicata integralmente solo qualche anno fa da N.NEWBIGIN, I Prigioni di Plauto tradotti da

l’Intronati di Siena, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2006. Ignota alla storiografia ottocentesca, si tratta

della prima opera letteraria che abbia per sfondo l’assedio di Firenze, composta quando le operazioni militari erano ancora in corso. Scritta tra il dicembre 1529 e il gennaio 1530, in vista di un possibile arrivo a Siena di Carlo V, è un adattamento dei Captivi di Plauto: l’azione, anziché essere ambientata al tempo della guerra tra Etoli ed Elei, come nell’originale latino, si svolge infatti a Siena, nei primi giorni del dicembre 1529, dopo la conquista imperiale di Peccioli. Per un inquadramento del testo teatrale nella cultura del tempo rimando a M. PIERI, La memoria dello spettacolo come autobiografia collettiva: il caso della Siena rinascimentale, in E. MATTIODA (a cura di), Nascita della storiografia e organizzazione dei saperi, Firenze, Olschki, 2010, pp. 259- 278.

«non solo extenuati per il poco cibo, ma ancora tutti guasti, et tormentati le persone loro».52 Dalla lettera dei Dieci si evince che in precedenza il principe d’Orange aveva già fatto sapere che avrebbe adottato la bona guerra nei confronti dei mercenari agli ordini dei fiorentini, ma non nei riguardi dei militi dell’Ordinanza, cioè i cittadini fiorentini in armi: una risoluzione che i Dieci non si spiegavano, perché «detti giovani non solamente siano soldati, ma valenti soldati», e dal canto loro i fiorentini erano assolutamente disposti, purché vi fosse reciprocità, «a fare buona guerra con tutti li vostri».53 Due giorni dopo il Marchese di Vasto tornava ad affrontare l’argomento, rispondendo che le richieste dei fiorentini a suo avviso costituivano un eccessivo vantaggio per gli assediati.

«Quanto sia tra soldati et soldati non fo’ dubio ch’el signor Principe se contenta che se facia bona guerra: vero è che quanto alli fiorentini non mi par conveniente che siano compresi in tal mutua et reciproca conventione perché in loro cessano li respecti li quali fanno honesta et ragionevole ogni cortesia che fra soldati se possa usar et non bisogna dir che sia crudeltà non trattar li cittadini come soldati perché chiaro le Signorie Vostre comprendeno quanta diversità sia tra luno et laltro et quanto più hano provocato la indignatione del Exercito essi cittadini che li altri soldati et saria molta inequalità tra noi et molto pregiuditio a nostri soldati quando detti Cittadini fossero inclusi in tal conventione poiché dal canto mio non sono Cittadini ne altri genti che se possano far pregioni, si non quelli del exercito».54

Lo scambio epistolare proseguì il giorno seguente, quando i Dieci tornarono a scrivere al