Firenze si preparava a combattere non solo fortificandosi, ma anche acquistando armi e assoldando mercenari e compagnie di ventura. Gli armamenti, almeno quelli leggeri, venivano fatti arrivare dal territorio di Brescia, zona che già allora era famosa per la qualità delle proprie armi.19 Per ottenere «archibugi e schioppi» la Repubblica non disdegnava nemmeno il contrabbando. «In questi mesi – scrisse nella sua già citata relazione l’ex ambasciatore veneto in città, Antonio Surian – dapoi introduta la nova milizia in Firenze, è sta’ cavato dal Bressano, per via de Asula venendo a Mantoa, un numero infinito de archibusi e schioppi, oltra quella quantità la quale hanno estracto cum licenzia».20 Per ingaggiare mercenari e finanziare la propria difesa la Repubblica aveva bisogno di soldi. Lo stesso Surian aveva fatto in un certo senso i “conti in tasca” ai fiorentini, arrivando a stabilire che le finanze pubbliche potessero contare su un’entrata annua compresa tra i 210.000 e i 260.000 ducati annui; mentre l’uscita, a cose normali si aggirava sui 220–230mila ducati. A cose normali, appunto: ma i tempi di guerra non erano tempi normali, e il Surian aggiungeva che un duro colpo all’economia fiorentina era stato assestato dai conflitti degli ultimi due anni, che avevano allungato le vie commerciali dirette verso le Fiandre e i mercati francesi, annullando per di più il commercio con Roma e con il regno di Napoli. I rapporti con il dominio pontificio, prima del sacco, venivano stimati in 8000 ducati la settimana, «e dapoi il sacco, nulla o poco più finora ha fatto, essendo massime stato proibito a’ fiorentini, per decreto publico, lo andar a Roma, per le dependenzie del papa». La piazza napoletana valeva invece per la città toscana altri 3000 ducati alla settimana: «ed ora nulla si fa per la crudelità delle guerre e ruine de quel
novembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 151, c. 91r. La lettera, scritta dall’ambasciatore fiorentino a Ferrara, precede e accompagna il ritorno di Michelangelo, «quale viene per ripresentarsi a piedi di V. S. et iusto el posser suo non manchare alla sua ciptà». La commutazione della pena per il Buonarroti è in ASF, Signori e Collegi. Deliberazioni in forza di ordinaria autorità, 132, c. 30r, 23 novembre 1529.
18
A.VALORI, La difesa…, pp. 138-139, nota 1.
19 Per alcune sommarie informazioni sull’antichità della fabbricazione delle armi da fuoco nel bresciano si veda E. MALATESTA, Armi ed armaioli, Milano, Tosi, s. d. (ma 1939), pp. 48-50. Cfr. anche F. ROSSI, Armi e
armaioli bresciani del ‘400, Brescia, Ateneo di Brescia, 1971.
20 Patenti concesse a mercanti lombardi, come un certo Martino di Lorenzo da Bergamo in data 27 agosto 1528 dimostrano l’attività della Repubblica nel reperimento di armi : ASF, Dieci di Balìa. Missive, 108, c. 74v.
Regno». Lo stato endemico di guerra aveva portato con sé, come sempre succede, una crisi economica. A dispetto di questo, avvertiva però l’ambasciatore veneziano, Firenze aveva numerose risorse finanziarie, a partire dalle enormi ricchezze dei privati: otto famiglie con patrimoni superiori ai 100mila ducati, un’ottantina tra i 50mila e i 100mila ducati, e al di sotto dei cinquantamila «un’infinità».21
Questa disponibilità economica dissimulava completamente una gestione degli affari militari del tutto inadeguata ai tempi, soprattutto in vista della sfida portata dall’alleanza imperial- papalina. Come ha avuto modo di osservare Michael Mallett, rispetto agli altri stati italiani (e in primo luogo a Venezia) la Repubblica Fiorentina era decisamente in ritardo nell’amministrazione delle proprie forze armate. Già nel secolo precedente, mentre gli stati italiani erano andati verso la creazione di eserciti semi-permanenti con l’assunzione in servizio stabile dei condottieri, Firenze era rimasta ancorata a una gestione della cosa militare di tipo trecentesco, dimostrandosi incapace di risolvere i problemi circa i rapporti funzionali tra stato e condottieri. Questa incapacità appare evidente nei confronti di Malatesta Baglioni, il quale oltretutto rientrava in una categoria particolare di mercenario, quella del condottiero- principe. Oltre che un rapporto militare, in questo caso tra il capitano e lo stato che lo assoldava esisteva o veniva a formarsi anche un rapporto politico, attraverso il quale l’assoldato si aspettava di essere protetto, sia a livello familiare (nei mantenimenti dei propri diritti sulla sua signoria), sia statuale (e la condotta si trasformava così in una vera alleanza militare tra i due stati).22 Le osservazioni di Mallett si riferiscono alla Firenze del XV secolo, e si concludono con il fallimento della milizia machiavelliana nel 1512, al momento della seconda restaurazione medicea. Gli oltre tre lustri che separano questa data dal periodo che ci interessa non sembrano però aver cambiato di molto la situazione. Per quanto riguarda l’organizzazione militare, la Repubblica del ’27 pare essere in stretta continuità con quella soderiniana del ’12 e con il suo retaggio tre-quattrocentesco: la carenza di continuità nella gestione delle cose militari, unita al radicato sospetto per i soldati, aveva come risultato «un’amministrazione militare discontinua e squilibrata».23
La sera del 16 settembre 1529 il Baglioni aveva intanto fatto il suo ingresso in Firenze, andando a prendere alloggio nello splendido palazzo Serristori, lungo l’Arno, dove venne anche stabilito il quartier generale della difesa fiorentina. I primi giorni dopo il suo arrivo in città furono impiegati dal condottiero per rendersi conto della situazione in cui si trovavano le difese e gli approvvigionamenti. Quello che vide non lo soddisfece appieno. I lavori di fortificazione condotti da Michelangelo erano ancora in corso, le provviste di cibo e di polveri insufficienti a sostenere un assedio: la strategia attendista seguita dai vertici fiorentini aveva in parte trascurato i preparativi militari, che procedevano troppo lentamente rispetto alla rapida avanzata nemica. Per questo, appena giunto in città, il Baglioni si dedicò alacremente a metter ordine nelle forze e nei mezzi, aiutato in questo incarico dal nuovo commissario
21
Relazione di Antonio Surian al Senato di Venezia, in SEGARIZZI, p. 113.
22 Non è difficile osservare come in realtà Firenze non assicurò al Baglioni nessuna delle due protezioni. 23 M.M
generale della guerra, quello stesso Zanobi Bartolini che fino a una decina di giorni prima si trovava ad Arezzo. Dello sforzo compiuto in quei giorni rimane un interessante documento, una Lista delle genti e provvisioni che bisognano alla difesa di Firenze, nel quale il condottiero perugino chiedeva alla Signoria tutti i provvedimenti necessari: «Al Monte, fanti num. 3000 – Alle bocche d’Arno, 600 – A San Giorgio, 500 – A San Pier Gattolini, 200 – Alla porta de’ Camaldoli, 150 – A San Friano, 200», e via elencando. E ancora
«far venire quei bovi (…) e far provvisione di vettovaglie, di carne e di strami più che possibil sia, e mandar fuori le bocche inutili, e sopratutto che s’abbiano munizioni per l’artiglieria, cioè polvere e palle. E tutte queste cose si dimandano a vostre eccelse Signorie; le quali facendosi prometto sicuramente difender la città dal nemico esercito (…) e veramente a me pare che per sicurezza d’una città di Firenze non si debba in alcun modo mancare di queste provvisioni».24
Dopo alcuni giorni di febbrili preparativi, il 28 settembre Malatesta scrisse in Francia, al Gran Maestro Montmorency, una lunga lettera per ringraziarlo degli interessamenti presso il re Francesco I. Il generale comunicava all’alto dignitario francese l’abbandono di Perugia, esponendo allo stesso tempo lo stato precario nel quale aveva trovato le difese fiorentine: «intrai in Firenze, dove trovai la città mal rasettata, et subito deti opera a’ bastioni, trincere et altre cose necessarie per defension di essa; la qual al presente è rasettata di sorte che mi penso cum la gratia di Dio la potremo diffensar».25
Il 13 settembre era arrivato in città anche Stefano IV Colonna, un valido condottiero già al servizio del re di Francia, e da questi “licenziato” proprio perché potesse recarsi in soccorso dei fiorentini. Alto e robusto, di carnagione chiara, con barba e capelli neri, Stefano Colonna – ottimo stratega e coraggioso soldato – aveva al suo attivo un lungo palmarès di battaglie, combattute tutte al servizio della Francia contro l’Impero. Signore di Palestrina e di Gallicano, nel Lazio, il Colonna, come altri capitani che parteciparono all’assedio di Firenze sull’uno e sull’altro fronte, non era affatto un barbaro guerriero: fu anzi membro dell’Accademia Fiorentina, e un fine studioso dell’opera del Petrarca, di cui pubblicò alcune liriche inedite ritrovate. Il Colonna condusse con sé dalla Francia appena 300 fanti, ma il suo valore militare non poteva essere messo in discussione, tanto che gli venne affidato il comando delle Ordinanze, cioè il «battaglione delle genti fiorentine»: tremila cittadini tra i 18 e i 50 anni, riconoscibili per la fascia verde portata a tracolla. Con i suoi uomini il Colonna si fortificò sul colle di San Miniato, che sarebbe diventato la prima linea dello scontro;26 su quello vicino di San Francesco stavano invece le bande di Mario Orsini, anche lui nel frattempo arrivato in città dopo aver partecipato alla difesa di Spello prima e di Cortona poi.
24
ASF, Carte strozziane. Prima serie, 14, c. 33r. 25
Malatesta Baglioni al Montmorency, 28 settembre 1529, in BNF, Collection Béthune, Français 8607, f. 114, pubblicata in MOLINI, II, pp. 253-254.
26 La lettera di Stefano Colonna al Gran Maestro di Francia Anne de Montmorency, inviata il 26 settembre 1530, conferma il giudizio del Baglioni sulla non completa preparazione militare dei fiorentini, che poté completarsi – osservò il Colonna – soltanto grazie alla sosta del principe d’Orange in Valdarno. Cfr. BNF, Collection Béthune, Français 8530, f. 170, pubblicata in MOLINI, II, pp. 249-252
Destinati alla guardia della porta di San Giorgio furono invece i mercenari còrsi di Pasquino di Sia, detto appunto Pasquino Còrso: già ufficiale nelle Bande Nere di Giovanni de’ Medici, Pasquino aveva dovuto abbandonare la difesa di Cortona insieme ad Amico da Venafro, perché il loro campo all’Ossaia, ai piedi della collina cortonese, era stato colpito da un’epidemia.27 Oltre a questi, e ai 3000 fanti tornati da Perugia insieme al Baglioni (che portava con sé anche un centinaio di uomini d’arme e 200 cavalleggeri) Firenze poteva poi disporre di 22 reparti di fanteria (comprese le sei bandiere che avevano già militato nelle vecchie “Bande Nere”). La cavalleria leggera poteva contare su altri 5 reparti, per un totale di circa 400 uomini. Era comandata, scriveva ancora il Surian, dal
«signor Mario Ursino e Georgio Santa Croce cum cavalli in tutto 150 tra tutti due; item el signor Ieronimo da Piumbino, cavalli 100; capitanio Mucchio, cavalli 30; capitanio Musachino, cavalli 30; e questi due sono capitani antiqui, fino de quelli che alla guerra de Pisa erano con Vostra Serenità (cioè al servizio dei veneziani), e sono albanesi».28
Due brani tratti da altrettanti documenti, scritti a distanza di un paio di settimane, ci danno una preziosa testimonianza di come venissero pagati i soldati al servizio della Repubblica in quella estate del 1529. Il primo brano è tratto dalla lettera di istruzioni che i Dieci scrissero a Jacopo Guicciardini, inviato a Ferrara per andare a prelevare Ercole d’Este e le fanterie che questi doveva aver preparato per venire a Firenze. Poiché, rilevavano i Dieci, negli accordi intercorsi con don Ercole non si indicavano le modalità di pagamento dei mille fanti che dovevano seguirlo in battaglia, si presumeva che essi dovessero essere pagati
«nel modo siamo soliti pagare le altre nostre fanterie et mostrar le bande nostre, el qual modo è questo: giuli 28 per fante et X paghe per cento aggiunta ragionevol per li capisoldi, et giulj quattro et dua terzi per augumento a qualunque archibusier si troverrà in decta compagnia non passando però il terzo di tutto il numero de fanti».29
Il secondo brano è tratto invece dalle istruzioni che vennero inviate intorno alla metà d’agosto a Bartolomeo Gondi, «official di condocta deputato a rassegnar le fanterie destinate al poggio imperiale»:
«Rassegnerali diligentemente veggendo di non passar homo che non sia sufficiente et da potersene valer et li pagherai secondo modo cioè: scudi dieci d’oro di provvisione a Mariotto Gondi et a Stefanno da Figline; et scudi quindici d’oro per uno alli altri capitani predecti; e fanti a ragion di lire XX et soldi 4 per uno, et a ragion di X paghe per cento per li Capisoldi; da distribuirsi fra loro decti capisoldi per li detti capitani secondo la qualità e condition loro. Et nelle Compagnie predecte passeraj dalli 9 alli X pagati per cento per li luoghi tenenti, banderaj,
27 Le condotte e gli arruolamenti di mercenari (sia come singoli, sia a livello di compagnia) per il periodo che ci interessa sono accuratamente annotati in ASF, Dieci di Balìa. Deliberazioni, condotte e stanziamenti, 66 e 67, interessanti registri d’arruolamento che contengono i nomi dei soldati e dei capitani, la data della “presa di servizio” e la durata del servizio stesso, che inizialmente era stabilito in un mese dal giorno della registrazione. A questi si aggiunge ASF, Signori e collegi. Condotte e stanziamenti, 29, un registro mutilo attualmente composto di appena 25 carte (più le bianche) che copre parzialmente gli anni 1529 e 1530.
28
SEGARIZZI, p. 116.
29 I Dieci a Jacopo Guicciardini inviato a Ferrara, 29 luglio 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 102, cc. 68v- 69r.
sergenti, forrieri et capi di squadra secondo el consueto, et nel pagamento predetto riterraj dalla intera paga a ciascuna compagnia tanti scudi quanti sono fanti in condocta».30
Il quadro si completa con un’interessante lettera scritta dall’oratore senese a Firenze, Beniamino Boninsegni, che analizza la situazione delle forze fiorentine alla fine dell’agosto 1529:
«Qui tengono openione di resistere e sono veramente bene armati, e fra sei giorni, come ho scritto, saranno nella città 7000 fanti (…) Fra Pisa e Arezzo medesimamente è gran banda di gente, a talché all’arrivo de li 7000 fanti nella città, haveranno questi signori al loro stipendio in circa sedicimilia fanti, che portono sessanta milia scudi el mese».31
Constatando che Carlo V si era portato in Italia con forze non grandissime, l’ambasciatore senese riferiva, in un brano in cifra della stessa lettera, di una possibile nuova lega tra Venezia, Ferrara e Firenze, cosa che non pareva impossibile, per essere tutti stati ricchi e per esserci ancora disponibili sul mercato buone fanterie capaci di stare alla pari con gli imperiali.