Prima dell’inizio del conflitto, Firenze dominava su sei città, 400 terre murate e 12mila popoli, suddivise in 17 capitanati, 12 vicariati e numerose podesterie, per un totale calcolabile in circa 700mila abitanti. Alla fine di dicembre, praticamente tutto questo dominio – con l’esclusione di pochi centri che ancora resistevano – era caduto nelle mani degli eserciti nemici. La città resisteva, e certamente il sopraggiungere dell’inverno avrebbe portato enormi difficoltà per l’esercito assediante: dal punto di vista del controllo territoriale, tuttavia, il bilancio dei primi mesi di guerra era fallimentare. Se si considerano i numeri, diventa evidente come a pesare sull’andamento del conflitto non furono soltanto gli errori strategici commessi dai vertici della Repubblica, o l’effettivo strapotere dell’esercito nemico, che di fatto iniziò a concretizzarsi soltanto da dicembre in poi. Pur con qualche eccezione, è facile osservare che in quasi tutto il dominio lo spirito combattivo dei centri minori e delle
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guarnigioni locali fu sempre molto limitato. Castelli, borghi fortificati, città, si arresero uno dopo l’altra praticamente senza combattere: agli imperiali, ai papalini, o come osservò lo stesso Ferrucci in diverse sue lettere, anche soltanto “alle grida”. Tutto, pur di evitare le devastazioni che derivavano dalla guerra.
Firenze subiva gli effetti del distacco, nel Cinquecento ancora più avvertibile che nei secoli precedenti, della città dal proprio dominio: un problema che gran parte della dirigenza fiorentina sembrava non tenere in alcun conto.55 Secondo le antiche abitudini medievali ci si aspettava che il dominio si adeguasse supinamente alle scelte fiorentine; e in quest’ottica va letta anche la scelta di concentrare l’intera difesa militare a Firenze, abbandonando al proprio destino città di primaria importanza come Arezzo, Pistoia e Prato.
Nelle campagne, e nelle città sottomesse alla Dominante come Volterra, Pisa, Arezzo, Prato, Pistoia, l’attaccamento a Firenze era tiepidissimo, se non del tutto assente: d’altra parte, governare Pisa con le tasse, Pistoia con le fazioni e Volterra con le fortezze era stata da sempre la politica fiorentina. Come ha notato Anna Maria Pult Quaglia, in quelle parti d’Italia dove il rapporto tra città e contado si era andato caratterizzando per una relazione di mutuo beneficio, gli abitanti si sentivano appartenenti alla città, e fedeli a essa.56 Pensiamo in particolare al caso veneziano, e alle insurrezioni popolari contro i francesi (e in favore di San Marco) negli anni successivi alla battaglia di Agnadello: come per esempio a Bergamo, nel 1512.57
A Firenze questa fedeltà del dominio verso la città dominante non si avvertiva, perché semplicemente non esisteva. Se Venezia aveva avuto la sapienza politica di estendere la “nazione” e la cittadinanza veneziana oltre la laguna e il mare, la città toscana non era riuscita a fare altrettanto, nemmeno con quei borghi della piana fiorentina che da sempre facevano parte del suo contado. Né lo ius soli, né lo ius sanguinis bastavano da soli per accedere alle magistrature. Nella Firenze degli inizi del Cinquecento, è stato calcolato, solo un maschio adulto su 7 era “cittadino”:58 poco più di 3000 persone su un totale di quasi 90.000 abitanti. Logico quindi che alla stragrande maggioranza dei sudditi extra-urbani, considerati utili soltanto al pagamento di tributi e gravezze, poco importasse chi dominasse Firenze: se una famiglia appoggiata da un’oligarchia o un’oligarchia senza una famiglia. Naturalmente in ogni centro, grande o piccolo che fosse, esisteva almeno una corrente o fazione favorevole al
55 Solo gli osservatori più attenti se ne preoccupavano, come abbiamo visto nel caso dell’intervento di Anton Francesco Albizi nella Pratica del 19 luglio 1529, quando la Signoria era stata invitata a non farsi illusioni sulla voglia di resistere delle città del Dominio.
56 A.M. P
ULT QUAGLIA, Early Modern Tuscany: Regional Borders and Internal Boundaries, in S.G.ELLIS,R. ESSER ET AL.(a cura di), Frontiers, Regions and Identities in Europe, Pisa, Plus University Press, 2009, p. 134. Sull’argomento anche G.CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado, Torino, Einaudi, 1979.
57
L.ARCANGELI, Note su Milano e le città lombarde nelle guerre di Luigi XII (1499-1515), in Città in guerra.
Esperienze e riflessioni nel primo Cinquecento. Bologna nelle guerre d’Italia, a cura di G.M.ANSELMI e A.DE
BENEDICTIS, Bologna, Minerva, 2008. pp. 135-142 : p. 139. 58 A. M. P
ULT QUAGLIA, Citizenship in Medieval and Early Modern Italian Cities, in S. ELLIS – G. HÁLFDANARSON –A.K.ISAACS (a cura di), Citizenship in Historical Perspective, Pisa, Plus University Press, 2006, p. 109. Più tardi, durante il principato mediceo, la cittadinanza venne elargita ai membri più autorevoli dei centri del contado, per garantirsi la fedeltà delle classi dirigenti locali.
Marzocco: ma la maggioranza delle popolazione era, nella migliore delle ipotesi, indifferente o estranea ai destini della Dominante. Del resto, come ebbe modo di osservare Aldo Valori, il partito mediceo era stato per più generazioni un vero partito di governo, e dunque « il tentativo di ricondurre i Medici al potere, sia pure con le armi straniere, non appariva a molti un atto diretto contro la patria, ma anzi un omaggio ai principii dell’ordine, della pace sociale, turbati (così si diceva) dall’ira settaria degli Arrabbiati repubblicani».59
In più di una località, le plebi rurali e cittadine fecero causa comune con l’invasore, aiutandolo nel cacciare o nel catturare le piccole guarnigioni fiorentine. È vero che non mancarono casi come quello di Grezzano, nel settembre 1529, che commosse gli stessi cittadini di Firenze. Nel piccolo villaggio mugellano gli abitanti si opposero spontaneamente all’invasione imperial-papalina, aggredendo e sterminando una colonna nemica: salvo poi pagarne pochi giorni dopo le conseguenze quando il paese fu attaccato per rappresaglia, incendiato e raso al suolo, e molti dei contadini passati per le armi.60 In Mugello, del resto, non mancavano nemmeno gli atteggiamenti indifferenti, o anche palesemente ostili alla Repubblica. Come quello degli abitanti del villaggio di Mangona, ai quali il commissario pontificio Baccio Valori chiese in un’occasione a chi fossero fedeli, se al papa o al Marzocco. Risposero: «Noi di Mangona stiamo sempre dalla parte di chi vince».61
Lo scarso attaccamento alla Repubblica fu forse più palese nei casi di Arezzo e di Volterra, città dove – in tempi diversi – guarnigioni fiorentine rimasero a lungo assediate all’interno delle fortezze da quegli stessi cittadini che fino a poco tempo primo avevano difeso dagli imperiali, e che poi avevano cambiato bandiera. Di Volterra parleremo a tempo debito. Qui conviene però affrontare i fatti di Arezzo, dove alla metà di novembre 1529, dopo quasi due mesi di tregua, si era intanto riaccesa la guerra.
La piccola guarnigione fiorentina, rimasta assediata nella cittadella sul colle di San Donato, assisteva praticamente impotente a quanto avveniva in città, che dal momento della resa, sotto il governatorato del Conte Rosso, si era trasformata in una base logistica per l’esercito imperiale. Il 12 novembre, come si evince da un preciso riferimento contenuto in un memoriale dell’epoca, «la roccha contra i patti fermati con il conte et capitani spagnuoli incominciò a mostrarsi inimica alla città et (…) piantate le loro artiglierie verso la terra incominciorno a tirare no’ restando mai né giorno et notte».62
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ALORI, La difesa…, pag. 153. Per il Valori, a minare l’attaccamento al Marzocco c’era anche l’influenza culturale che esercitavano i grandi poteri universali del papa e dell’imperatore, questa volta miracolosamente uniti nell’impresa contro Firenze.
60
UGHI, p. 149.
61 La lettera di Lottieri Gherardi ai Dieci, 21 settembre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 144, c. 161rv segnala la presenza di Baccio Valori in Mugello: «A meza note capitò ad Manghona ad casa el prete di Sancta Margherita che è bolognese, et quivi bevve et mangiò, et domando uno contadino se gli erano palleschi, risposte che tenevano da chi vinceva; et andò ad la volta di Castiglione ad trovare el conte Alexandro de Peppoli». Cfr. BACCINI, p. 13.
62 Gli avvenimenti aretini di quei mesi sono dettagliatamente descritti nel Ragguaglio del seguìto nella Città
d’Arezzo nel tempo dell’Assedio della Città di Firenze, un memoriale di autore anonimo conservato nella
Biblioteca Nazionale di Firenze, Fondo Nazionale, II.IV.404, tra le carte strozziane già appartenute a Benedetto Varchi. Il documento è a stampa in MONTI, I fatti di Arezzo...,cit.
I bombardamenti proseguirono per giorni e giorni, «rovinando molto delle case con gran morte et dannj delli habitanti», senza che il contingente imperiale comandato dal Conte Rosso reagisse in maniera significativa. Di fronte all’inazione degli aretini, che non disponendo di artiglierie potevano soltanto limitarsi a fare buona guardia contro eventuali incursioni nemiche, il capitano fiorentino Jacopo Altoviti decise di passare all’offensiva. Con staffette fatte uscire nottetempo dalla cittadella, furono chiesti rinforzi a Borgo San Sepolcro e Anghiari, centri ancora fedeli alla Repubblica.
In una notte «piovosa et oscura» di metà novembre, che limitava la visibilità delle vedette aretine, diverse bande di fanteria furono fatte entrare in silenzio all’interno della cittadella fiorentina. Sul fare dell’alba, dopo che un piccolo contingente repubblicano aveva attirato gli imperiali di stanza ad Arezzo fuori dalla città, i fiorentini tentarono una sortita. «Le fanterie intrate la notte nella fortezza – racconta la cronaca dell’anonimo aretino - visto il populo fuora della città messosi in ordinanza usciti dalla fortezza à solirno la terra correndo per molte strade: et preso la Piazza grande, cominciorno à sachegiare le case intorno alla piazza». Pur disponendo del vantaggio della sorpresa, i fanti repubblicani non portarono però a termine l’operazione, che avrebbe potuto condurre alla riconquista della città: e si sbandarono nel saccheggio delle abitazioni, permettendo agli imperiali e alle milizie cittadine di tornare sui propri passi. La sortita fiorentina si concluse così con una precipitosa ritirata all’interno della cittadella; nei giorni seguenti gli aretini, imparata la lezione, rinforzarono le proprie difese e condussero direttamente cinque compagnie di fanti,63 e mandando anche a chiedere nuove truppe al campo imperiale sotto Firenze. L’Orange inviò a questo scopo le bandiere di fanteria comandate dallo spagnolo don Diego di Mendoza: questi, constatato al suo arrivo che Arezzo era ormai al sicuro da ogni possibile incursione, decise per maggior sicurezza di «torre dalla devotione de’ Fiorentini le castella convicine no’ venute ancora sotto la obedientia dello exercito imperiale».
Il primo obiettivo del Mendoza fu il castello di Monterchi, presidiato dalle bande di Napoleone Orsini. Nella notte del 6 dicembre, il Mendoza – appena arrivato sotto le mura di Monterchi – ordinò immediatamente l’assalto. «Don Diegho forse troppo animoso assalì da una banda il castello con gli sua spagnuoli et combattendo animosamente fu con uno archibuso da quelli di drento ferito nella testa, e subito morto». La morte del capitano, e il dubbio che in soccorso di Monterchi fosse in arrivo un reparto di cavalleria dell’abate di Farfa, indussero gli imperiali a ritirarsi.64 Ma fu una tregua di breve durata. Contro l’Orsini, le cui azioni molestavano continuamente le retrovie imperiali, il principe d’Orange aveva inviato anche la cavalleria di Alessandro Vitelli, con parte delle bande agli ordini del conte Rosso di Bivignano, che formavano il contingente lasciato a presidiare Arezzo. Con un esercito di quasi 6000 uomini, il 16 dicembre il Vitelli investì Monterchi, che si diede a patti.65 Il giorno seguente a soccorrere il castello arrivarono le bande dell’Orsini, che però poteva contare su
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CATANI, p. 228.
64 BNCF, Fondo Nazionale, II.IV.404, cc. 55v-57r.
65 I Ricordi del Catani anticipano la dedizione del castello al 15 dicembre. Cfr. C
appena 500 fanti e 100 cavalli. E fu una disfatta. La fanteria, che si componeva di circa 300 picchieri e di 200 archibugieri, venne completamente annientata. Andò meglio alla cavalleria, che riuscì a sganciarsi lasciando sul terreno solo 12 uomini (tra cui alcuni luogotenenti dell’Orsini).
Scrivendo da Anghiari, così il conte Rosso riferì a Siena dello scontro avvenuto:
«havendo noi preso Monterchi, castello assai forte per accordo; hoggi questo dì 17 del presente circa ad hore 18 l’abbatino di Farfaro ne era venuto con 800 fanti et la maggior parte archibusieri, et 150 cavalli per veder di deviarci da tale impresa, non sapendo l’accordo; et noi essendo in sul partir per andar a la volta di Anghiari, delli nostri fanti li investirno di modo che li havemo rotti; et 5 bande che gli havevono gli havemo tolte (…) et presi li tamburrini et fatti prigioni più di 200 archibusieri».66
Complice il totale controllo del territorio da parte degli imperiali, la notizia della sconfitta dell’Orsini diventò di pubblico dominio a Firenze soltanto il 26 dicembre. In quel giorno l’oratore senese presso il campo imperiale, Agostino Bardi, ne informava il suo governo; all’interno delle mura era invece l’ambasciatore veneziano, Carlo Cappello, a scrivere al suo Doge. I vertici politici fiorentini lo scoprirono soltanto il giorno seguente. «Questi medesimi giorni – scriveva dunque il Cappello – l’abate di Farfa presso il Borgo San Sepolcro è stato rotto dalle genti del Vitelli, ed ha perduto più di fanti trecento. Esso e la maggior parte della cavalleria si sono salvati nel detto luogo del Borgo».67 Costretto a ritirarsi in San Sepolcro con pochissimi superstiti, l’abate poté resistere solo pochi giorni prima di abbandonare la lotta: dopo la partenza dell’Orsini, che si ritirò nei suoi feudi laziali, Anghiari e Borgo San Sepolcro si arresero agli imperiali.68 Nella sua lettera successiva, del 3 gennaio, il Cappello ricordava che «a’ 27 del passato questi Signori ebbero nuova, il Borgo San Sepolcro e Anghiari essersi dati ai nemici, né ancora si sa dove sia ridotto l’abate di Farfa, e si dubita che se ne sia andato a Bracciano».69 Tra le condizioni di resa l’Orsini aveva anche promesso al Vitelli di uscire dal conflitto, e mantenersi neutrale fino alla fine della guerra: salvo giustificarsi per lettera con la Signoria fiorentina – invocando anche il pagamento degli arretrati – sostenendo di aver dovuto lasciare Borgo San Sepolcro per i «mali portamenti» degli abitanti, che non davano ospitalità alla sua cavalleria.70
Alla fine di dicembre, la resistenza fiorentina nei centri minori si era praticamente conclusa. La fortezza di Arezzo, del tutto isolata, era sostanzialmente inutile. Il castello di Vicchio, in Mugello, sarebbe stato abbandonato di lì a qualche giorno. In Romagna combatteva ancora brillantemente Castrocaro, dove però si conducevano operazioni marginali che non influivano sull’esito generale della campagna militare. Così, agli inizi del 1530, l’autorità della
66 Francesco Aldobrandini alla Balìa di Siena, 17 dicembre 1529, in ASS, Balìa, 599, n. 67. La vittoria del Vitelli, con la conquista di 6 insegne del nemico, è brevemente ricordata anche nella lettera di Filiberto di Chalon a Carlo V del 20 dicembre 1529, cit.
67 Carlo Cappello al doge Andrea Gritti, 26 dicembre 1529, cit. 68 S
EGNI, p. 160. CATANI, p. 229, data la resa di Anghiari al 24 dicembre. 69
Carlo Cappello al doge Andrea Gritti, 3 gennaio 1530, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 141v- 144r.
Repubblica di Firenze non era più riconosciuta che a Empoli, Volterra, Pisa e Livorno. Borgo San Sepolcro, tornato un mese dopo nelle mani dei fiorentini, si sarebbe arreso definitivamente agli inizi di giugno. Il resto del dominio era completamente perduto.