A metà di settembre, nel corso di una travagliata doppia seduta che si era svolta tra il 15 e il 16 di quel mese, la Pratica aveva deciso l’invio di ambasciatori anche a Clemente VII. La risoluzione aveva però fatto emergere la spaccatura tra le diverse anime del repubblicanesimo fiorentino. Erano i giorni dell’assalto imperiale a Cortona e Arezzo, e mentre il panico si diffondeva in città, come ricordò Filippo de’ Nerli, «cominciavano molti a parlare molto liberamente, e di tal maniera sopra il volere accordare, che quelli della parte del Gonfaloniere e delli più stretti della sua setta erano molto avviliti».26
La volontà di scendere a patti – contro l’opinione del Carducci e degli Arrabbiati - era apparsa chiaramente durante la seduta della Pratica del 15 settembre. Dopo aver letto le informative arrivate dal territorio, e quelle degli oratori inviati a Carlo V, la proposta di mandare o meno un’ambasciata al papa aveva infatti diviso la Pratica tra quelli che si dicevano disponibili a trattare (i Dieci, gli Otto, i Sei di Mercanzia e i Conservatori, oltre ai quartieri di Santo Spirito, Santa Croce e San Giovanni) e una minoranza di oltranzisti contrari a ogni possibilità
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Da questo punto di vista l’imperatore era stato avvertito che la strategia fiorentina consisteva nel prender tempo fino all’arrivo dell’inverno, quando l’esercito imperiale non avrebbe potuto fare nulla di serio sul piano militare: questo sembrava essere anche l’obiettivo delle ambasciate all’imperatore e all’Orange (quest’ultime, in particolare, servivano anche per accertarsi delle dimensioni e delle forze dell’armata cesarea). Cfr. la lettera degli ambasciatori imperiali Loys de Praët e Miçer Mai a Carlo V, 15 settembre 1529, in AGS, Estado, 848, ff. 89-90. 22 Carlo V a Filiberto di Chalon, 19 settembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 67.5, cc. 72r-73v.
23 Carlo V a Filiberto di Chalon, 23 settembre 1529, ivi, c. 75rv. 24
Carlo V a Filiberto di Chalon, 8 ottobre 1529, ivi, cc. 78r e 79v.
25 Carlo V a Filiberto di Chalon, 9 ottobre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 67.5, c. 84r. 26 D
d’accordo (i Sedici Gonfalonieri, i Dodici Buonomini e i Capitani di Parte), che facevano notare, come sintetizzò Luigi Cappelli parlando a nome dei Capitani, che «già il ragionarne mette disunione nella città». La spaccatura era ancor più evidente per lo schieramento dei Dieci e degli Otto (le due magistrature più importanti dopo la Signoria) tra coloro che si opponevano alla politica del gonfaloniere. Tra gli incerti vi erano invece i Nove della Milizia e gli Ufficiali di Monte, che chiedevano di attendere l’evoluzione degli eventi, e – su posizioni comunque vicine a quelle degli Arrabbiati - il quartiere di Santa Maria Novella, rappresentato nella Pratica da un estremista come Bernardo da Castiglione.27
Il giorno seguente, dopo l’arrivo di ulteriori informazioni (forse contenute nella lettera di Rosso Buondelmonti dal campo nemico vicino a Cortona, o in quella degli oratori a Carlo V da Piacenza),28 la decisione di inviare gli ambasciatori al papa fu invece assunta all’unanimità, con voto a favore anche dei Sedici, dei Dodici e dei Capitani di Parte. Evidentemente la constatazione di essere minoranza aveva spinto i più intransigenti a cercare una convergenza, sfruttando le nuove lettere in arrivo come occasione per giustificare il proprio ripensamento. Il fronte del no, ben rappresentato da Filippo del Migliore per i Sedici Gonfalonieri, e da Giovan Battista Cei per i Capitani di Parte, aveva comunque massimizzato il risultato condizionando il proprio assenso alla limitazione dei poteri delegati agli oratori; ottenendo anche che la nuova missione diplomatica (che in tal modo, privata del mandato a trattare, nasceva già zoppa) non rallentasse i preparativi per la guerra.29
Dello svolgimento dell’ambasceria furono incaricati Pier Francesco Portinari (che fu il primo ad arrivare a Roma) e Luigi de’ Pazzi. Quest’ultimo, per ragioni di salute, venne sostituito da Andreolo Niccolini, e alla delegazione si unirono poi Jacopo Guicciardini e Francesco Vettori.30 Fu presto chiaro, comunque, che esisteva soltanto un limitato margine di manovra nella trattativa con il papa, che restava fermo sulle sue posizioni e si rifiutava di ricevere gli oratori. Alcune lettere inviate da Roma dal Portinari, il 22 settembre, descrivevano l’ostinazione del pontefice nel riottenere il dominio su Firenze, e indispettirono la Signoria. «Per le quali lettere ho ritrovato tutti questi signori molto alterati – scrisse a Venezia l’ambasciatore Cappello – affermandomi più presto che venire a queste, volere con le mani proprie abbruciare questa città e poi morire».31
Ricevendo dopo molte insistenze gli oratori fiorentini, Clemente VII mantenne un atteggiamento risoluto che non lasciava spazio a nessuna conciliazione. Il papa confermò infatti di voler essere rimesso in Firenze con «la medesima autoritade, prioritade et bailìa che havea prima», ed inveendo contro gli ambasciatori che gli stavano di fronte rivolse loro
27 ASF, Consulte e pratiche, 71, cc. 82r-83r, 15 settembre 1529.
28 Oratori presso Carlo V ai Dieci, 13 settembre 1529 , BNCF, Fondo Ginori-Conti, 29, 98, cc. 9r-11v; si veda anche la già citata lettera del Buondelmonti del 15 settembre.
29
ASF, Consulte e pratiche, 71, cc. 83v-84r, 16 settembre 1529. 30 La lettera credenziale del gruppo di ambasciatori in A
RCHIVIO DI STATO DI MASSA (d’ora in poi ASMs), Diplomatico, 552/597. Le istruzioni del Portinari sono in ASF, Dieci di Balìa. Legazioni e commissarìe, 48, cc. 44r-45r.
31 Carlo Cappello ad Andrea Gritti, 24 settembre 1529, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 109v- 112v.
«molte parole iniuriose e minatorie; la conclusione delle quali fue, che se dovesse impegnare et vendere la mitria, che totalmente deliberato volere che Firenze sia expugnata».32
La missione diplomatica si concluse senza risultati concreti, e Francesco Vettori – uno dei massimi esponenti dell’aristocrazia filo-medicea, che pure aveva collaborato in un primo momento con il regime repubblicano sotto il gonfalonierato del Capponi – colse l’occasione per rimanere presso Clemente VII.33 Ma non tutto era perduto. L’ultima settimana di settembre aveva coinciso con il massimo sforzo diplomatico di Firenze per evitare la guerra, con il contemporaneo invio delle missioni diplomatiche al Papa e al principe d’Orange, di cui abbiamo già detto, e l’ipotesi di una nuova ambasciata a Carlo V:34 in quei giorni, l’opinione più diffusa tra esponenti dell’uno e dell’altro schieramento (e condivisa come abbiamo visto anche dal pontefice e dall’imperatore) era che si sarebbe giunti in breve tempo a un accordo tra la Repubblica e Clemente VII.
Le speranze in particolare erano riposte nella missione dell’arcivescovo di Capua Nicholas Schönberg, appena rientrato da Cambrai, che il papa aveva inviato all’Orange perché potesse affiancarlo e consigliarlo nella stesura degli accordi con Firenze.35 Ferrante Gonzaga, comandante della cavalleria leggera imperiale, scrivendo da San Giovanni alla madre Isabella d’Este, a Mantova, spiegava:
«Delle occurrentie di qua non ho altro che dire se no che questo accordo che si maneggia tra fiorentini e’l Papa si stringe forte, et penso che alla venuta di questo archivescovo di Capua, il quale si aspetta qui d’hora in hora, si concluderà senza manco, et questa è la cagione che questo exercito è fermo qui in questi confini et non si spinge più avanti».36
Lo Schönberg – che si mise in viaggio già il 23 settembre – era stato incaricato di concludere, se fosse stato possibile, un componimento pacifico: ma anche la sua missione si risolse di lì a qualche giorno in un nulla di fatto. Giunto al campo, l’alto prelato non dovette tardare a rendersi conto della situazione. Con l’Orange non mancarono nemmeno i motivi di attrito, a causa del disaccordo sugli obiettivi della guerra e sulla conduzione delle operazioni. L’arcivescovo aveva infatti fermamente richiesto il rispetto letterale degli accordi di Barcellona, e dunque la restaurazione dei Medici in Firenze; ma pretendeva anche che la vicenda si concludesse in tempi brevi, dati gli alti costi dell’operazione. Da parte sua il principe mirava piuttosto al raggiungimento di un accordo: sia la situazione militare sul
32 Alessandro Guarini al duca Alfonso I d’Este, 7 ottobre 1529, in ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 14, fasc. 8, ad datam.
33 Secondo Busini, se il Vettori fosse rientrato a Firenze avrebbe avuto buone possibilità di divenire gonfaloniere come successore del Carducci, che era riuscito ad attirare la disapprovazione anche dei padri nobili della sua fazione, come Alfonso Strozzi e Tommaso Soderini: cfr. G.MILANESI, p. 76 e DE’NERLI, II, p. 87. Condivide questa lettura la recente analisi di S.LO RE, p. 85.
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L’idea di una nuova missione all’imperatore è ricordata nella lettera di Cappello a Gritti del 29 settembre 1529, in ASF, Carte Strozziane. Seconda serie, 31, cc. 114r-116v.
35 Loys de Praët e Miçer Mai a Carlo V, 24 settembre 1529, in AGS, Estado, 848, ff. 91-92. Nella stessa lettera i due ambasciatori imperiali spiegavano che il Papa intendeva partire da Roma il 4 o il 6 di ottobre al massimo, per essere a Bologna quattro o cinque giorni prima di Ognissanti; ma che se fosse arrivata la notizia della resa di Firenze, avrebbe potuto anticipare la partenza.
campo (un’armata ancora troppo debole, in uomini e artiglierie, per attaccare una città fortificata come Firenze), sia la mancanza di denaro (necessario per mantenere a lungo in efficienza l’esercito, anche in vista dell’ormai prossimo arrivo dell’inverno), suggerivano infatti questa soluzione. L’Orange si era anche inalberato, affermando che nella questione fiorentina non avrebbe accettato di disonorarsi, venendo meno ai suoi obblighi di fedeltà verso l’imperatore o alla parola data ai fiorentini, che si aspettavano l’apertura di una trattativa.37
Lettere firmate congiuntamente dal principe e dall’arcivescovo, inviate a Roma, spiegavano in dettaglio le difficoltà dell’esercito e avvertivano il pontefice che l’impresa di Firenze sarebbe stata più difficile del previsto. Alcuni giorni dopo un’altra lettera del principe, inviata questa volta agli ambasciatori imperiali a Roma Loys de Praët e Miçer Mai, annunciava che erano state aperte trattative con la delegazione fiorentina arrivata al campo imperiale (quella di cui faceva parte Rosso de’ Buondelmonti, e poi affidata a Bernardo da Castiglione), per la composizione delle differenze tra Firenze e il papa. Se si fosse raggiunto un accordo, aveva scritto il principe, l’imperatore avrebbe potuto assumere in questo modo il ruolo di mediatore e pacificatore. «Y tiene razon – commentavano i due ambasciatori riferendo a Carlo V della lettera del principe - porque mas terná V. M. que hacer deste manera, como juez, que no como parte y con las armas en la mano».38 Secondo gli ambasciatori cesarei bisognava pensare seriamente a un compromesso con i fiorentini, sia perché l’inverno era ormai alle porte, e i fiorentini avrebbero potuto essere indotti a ostinarsi nella difesa, sia perché i soldi e i viveri scarseggiavano e le diserzioni erano già iniziate tra i ranghi imperiali.
In realtà gli ostacoli a una composizione non erano da poco. L’arcivescovo di Capua si trovò «sconcertato» dall’opposizione che i fiorentini – soprattutto quelli di parte popolare – facevano a ogni proposta di pace, nel timore che si ripetessero gli errori e le situazioni già vissute nel 1512.39 Occorre notare a questo proposito come il Da Castiglione fosse personalmente ostile al raggiungimento di un accordo: nel suo pensiero, secondo l’intervento che tenne nella Pratica del 26 settembre, poco prima di lasciare Firenze, la perdita della libertà «per via di questo accordo, è certa: per via della difesa, incerta».40 Secondo quanto scrisse Andrea Doria in una lettera all’imperatore, questo atteggiamento di ostilità a un accordo era dovuto agli incoraggiamenti a resistere che arrivavano dalla Francia e da Venezia:
«sono avisato da bona banda che havendo mandato el papa l’arcivescovo di Capua a Firenze per pigliare qualche bona conclusione de le cose di sua santità con quella citade, si ne sia ritornato disconcertado non già per mancamento di voluntà de li homini da bene et principali d’essa terra ma per colpa et mala dispositione de populari, che non li hano voluto assentire, de che volunteri per servicio et utile di sua beatitudine harei voluto fosse seguito altramenti, et che sua santità, se non in tutto como la vuole, almanco con quella più dolce via fosse possibile havesse una volta
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ROBERT, I, p. 316.
38 Loys de Praët e Miçer Mai a Carlo V, 5 ottobre 1529, in AGS, Estado, 848, ff. 94-95.
39 Per lo svolgimento delle trattative presso il campo imperiale si veda anche la lettera di Bernardo da Castiglione, Rosso de’ Buondelmonti e Leonardo Ginori ai Dieci, 29 settembre 1529, a stampa in CAPPONI, III, pp. 374-378.
pigliato el posesso et intrato in casa sua, che con el tempo non li saria per mancare forma di humiliare coloro che adesso col favore de le gente che si trovano introdutte vogliano fare del insolente, et oltra di questo intendo anche da la medesma banda di sopra et per cosa certa como detti fiorentini dal canto di Franza e di Venetia sonno solicitati et instigati a tenerse forte, con offerirli gente e denari».41
Nella notte del 2 ottobre i Dieci di Libertà e Pace scrivevano al commissario di Pisa Ceccotto Tosinghi, informandolo della situazione, e ammettevano che «benché vada atorno qualche praticha pure vi si ha poca speranza respecto alle dure conditioni che ci sono proposte, essendo noi disposti a mantenerci la libertà, o perderla con la propria vita, le qual cose si è facto intendere et a Roma et al principe».42
I colloqui dovettero interrompersi immediatamente dopo, forse quella stessa notte, probabilmente perché entrambe le parti rimanevano ferme sulle proprie posizioni: da parte dei fiorentini, il desiderio di mantenere la forma di governo repubblicana, il “governo largo” di tipo popolare; da parte dei pontifici, la richiesta che i Medici fossero riammessi in città non solo come privati cittadini, ma nella stessa dignità di prima della cacciata del 1527, e che i fiorentini si rimettessero alla generosità del papa per quanto riguardava la definizione della forma di governo. Fu in questa occasione che Bernardo da Castiglione, parlando al principe in una maniera così arrogante che sarebbe bastata ad affievolire qualsiasi desiderio di conciliazione, disse che i fiorentini erano disposti a ridurre la città in cenere piuttosto che riconsegnarla a papa Clemente:43 parole che pronunciò togliendosi il cappello, entro il quale tale cenere avrebbe potuto essere raccolta per offrirla al pontefice.
Rotte le trattative, il principe d’Orange – sapendo che a giorni sarebbero arrivate le tanto attese artiglierie senesi – si risolse a non mettere ancora tempo in mezzo, e già il 3 ottobre iniziò a esplorare i dintorni di Firenze, per scegliere il luogo più adatto a stabilire il campo. Quello stesso giorno l’oratore ferrarese a Siena, Girolamo Naselli, scrisse al duca di Ferrara Alfonso I informandolo degli sviluppi dell’impresa:
«Questa mattina per tempo il Signor Principe, et il signor Marchese accompagnati di buon numero di cavalli, et da 3 mila fanti italiani, thodeschi, et spagnoli, cioè mille de ciascuna natione, se spinsero verso le mura di Firenze per riconoscere el paese. Et dimatina il campo deve marchiare più oltre verso la cittade, che per ancora si trova a Lancisa, e Figlino, lochi presso la Terra a 14, e 16 miglia».44
Preso tra le trattative in corso, le istruzioni ricevute per lettera e quelle inviate per scritto o “a bocca” tramite agenti fiduciari, l’Orange doveva trovarsi incerto sulla strategia da adottare per risolvere la questione fiorentina. Con un lungo documento scritto da Figline il 5 ottobre, e affidato al signore di Montbardon perché lo trasmettesse a Carlo V, il principe supplicava l’imperatore di avere chiarimenti, da lui o dal papa, su quelle che oggi chiameremmo le
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Andrea Doria a Carlo V, 1 ottobre 1529, in AGS, Estado, 1362, ff. 128-129.
42 Lettera dei Dieci a Ceccotto Tosinghi, 2 ottobre 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Missive, 102, c. 171v. 43 D
E’NERLI, II, p. 96. 44
Girolamo Naselli ad Alfonso I d’Este, 3 ottobre 1529, in ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 15, ins. 7, ad datam. L’attività esplorativa della cavalleria imperiale è confermata anche dalla lettera di Alessandro Guarini ad Alfonso I d’Este, 3 ottobre 1529, ivi, ins. 8, ad datam.
“regole d’ingaggio” prima di intraprendere l’assedio vero e proprio, per evitare il duplice rischio di un fallimento dell’impresa (con ricadute sulla reputazione dell’imperatore stesso e del suo esercito) o che pur avendo successo si arrivasse a «detruyre unne des melleures villes d’Itallie et le lieu ou Sa Santité a esté né».45
Nello stesso documento il principe suggeriva inoltre tre possibili strategie belliche: bombardare la città e cercare di prenderla con la forza; assediarla da lontano e compiere continue scorrerie contro i villaggi del contado; saccheggiare e mettere a ferro e fuoco tutto il dominio. Per i primi due modi di fare la guerra sarebbero state necessarie maggiori risorse economiche, sottolineava l’Orange lamentando inoltre di essere totalmente sfornito di guastatori. Il principe portava inoltre a conoscenza dell’imperatore anche la scarsa collaborazione dimostrata fino a quel momento dai senesi, e la sua convinzione che i fiorentini non sarebbero scesi a patti fino a che non fossero stati sicuri che gli accordi presi sarabbero stati rispettati.46
Il temporeggiamento dell’esercito imperiale durò ancora qualche giorno, forse per dar tempo ai sospirati cannoni senesi di raggiungere l’armata o forse per attendere le risposte alle missive inviate al papa e all’imperatore. Il 9 ottobre, i Dieci tornavano a scrivere al commissario Tosinghi a Pisa, spiegando come «li nimici per ancora si trovono con la massa dello exercito a Figline et benché per ancora non si possa sapere il disegno loro, pure le diciture et inditi che habbiamo delli andamenti loro ci dimostrano che sieno per risolversi di venire ad accamparsi alla Città».47 Il giorno seguente, il solito ambasciatore veneziano, Carlo Cappello, scriveva al suo doge che «li nemici sono per alquanto venuti innanzi, e l’antiguardia si ritrova a miglia quattro dalla città. Il principe è a Lancisa. L’artiglieria sono pezzi sei tra Filline e Lancisa, e sei tra Lancisa e Troghi. Questi signori li aspettano a questa città tra dua giorni, ed ognuno è di ottimo animo».48