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«Gli instrumenti co’ quali gli antichi difendevano le terre erano molti come baliste, onagri, scorpioni, arcubaliste, fustibali, funde; ed ancora erano molti quegli co’ quali le assaltavano, come arieti, torri, musculi, plutei, vinee, falci, testudini. In cambio delle quali cose sono oggi l’artiglierie, le quali servono a chi offende e a chi si difende».

Niccolò Machiavelli, L’arte della guerra

Mentre l’Orange risaliva la penisola per poi fermarsi ad indugiare in Valdarno, Firenze si preparava a resistere, e per difendersi contava non solo sui mercenari, ma soprattutto sulla garanzia offerta dalle proprie mura. Secondo un’idea diffusa, del resto, per assediare una città delle dimensioni di Firenze occorreva un esercito di dimensioni altrettanto grandi, tanto che se anche fosse riuscito ad arrivare fin sotto le mura cittadine non avrebbe avuto il modo di rimanervi a lungo, a causa delle difficoltà di approvvigionamenti in un territorio angusto come quello della conca fiorentina. Un brano tratto dal codice Rustici del Seminario Arcivescovile Maggiore di Firenze dà ampiamente conto di questa convinzione:

«Sempre dicevano gli antichi fiorentini che il detto piano era la ciptà elle montagne e i poggi erano le mura (...) in tale forma che chi entra in detto piano entra in una gabbia in tale modo che rinchiuso sarebbe chi venissi per offendere il detto luogo. Inperciochella pocha brigata di gente d’arme sarebbe perduta. E l’assai che v’entrassi non potrebbe vivere. E di ciò più volte s’è veduto la sperienza».1

Nell’opinione comune, poi riferita anche dal Varchi, era dunque il territorio stesso la prima difesa della città.2 La Repubblica aveva comunque chiamato a dirigere le opere di fortificazione uno dei suoi più valenti architetti: Michelangelo Buonarroti, con l’incarico di adeguare le imponenti mura della sesta cerchia, che risalivano ai primi decenni del Trecento, alle esigenze della guerra moderna.3

Alla necessità di un ammodernamento delle mura il governo fiorentino aveva iniziato a pensare già nella primavera 1526, quando ancora si trovava sotto il regime mediceo, e della programmazione degli interventi furono incaricati il conte Pedro Navarro e Niccolò

1

SEMINARIO ARCIVESCOVILE MAGGIORE DI FIRENZE, Dimostrazione dell’andata o viaggio al Santo Sepolcro e

al monte Sion di Marco di Bartolomeo Rustichi, cc. 6v-7r. Tutto il primo libro del codice Rustici, che risale al

1425, è dedicato a una descrizione di Firenze e del suo territorio. 2

VARCHI, II, p. 146.

3 La condotta di Michelangelo, come «governator e provveditor sopra la fortificazione delle mura», in ASF, Dieci di Balìa. Deliberazioni, condotte stanziamenti, 67, c. 27r, 22 aprile 1529.

Machiavelli, che per aver scritto nel 1520 la sua Arte della guerra appariva come un “tecnico” di cose militari. Nel rapporto che il Machiavelli scrisse per l’occasione, intitolato Relazione di una visita per fortificare Firenze, venivano suggeriti tre modi diversi per trasformare la città in una fortezza in grado di resistere ai colpi dell’artiglieria. I primi due modi, partendo da zero, suggerivano o di abbattere le mura esistenti per costruire un nuovo sistema difensivo più ampio (abbattendo i borghi circostanti e quelle strutture che potessero essere impiegate dal nemico), o in alternativa ridurle a un circuito più piccolo, abbandonando e spianando tutte le aree giudicate indifendibili.

Il terzo metodo (che fu poi quello adottato) era forse meno efficace ma più rapido ed economico: consisteva in una drastica modificazione delle fortificazioni esistenti, riducendo l’altezza delle porte e delle torri e costruendo terrapieni provvisori e bastionature, per rendere la skyline delle fortificazioni fiorentine più sfuggente ai tiri d’artiglieria.4 Si trattava cioè di passare da un sistema difensivo verticale, che poteva essere facilmente cannoneggiato e demolito, a una trace italienne sia pure estemporanea.5

Adattare ai nuovi tempi le vecchie mura non era comunque impresa da poco: il circuito murario contava una settantina di torri, alte più di 20 metri, inframmezzate da 16 tra porte e postierle fortificate, alcune delle quali superavano i 40 metri.6 Michelangelo, come dimostrano alcuni disegni ancora oggi conservati nel museo di Casa Buonarroti, cominciò a occuparsi dello studio delle fortificazioni fiorentine già nel 1527.7 Nel giugno 1528 gli era stato conferito un incarico ufficiale da parte dell’allora gonfaloniere, Niccolò Capponi, e sei mesi dopo – il 10 gennaio 1529 – il Buonarroti fu chiamato a far parte dei Nove della Milizia, la magistratura deputata alla difesa della città: tra i compiti dei Nove rientrava infatti anche quello di riassettare e riadattare le mura, che avevano subìto ben poche modifiche da quando erano state completate, nel 1334, per difendersi da un altro tipo di guerra.

Nei mesi successivi alla sua nomina Michelangelo si dedicò con assiduità all’incarico ricevuto, anche perché la Signoria riteneva giustamente di avere ben poco tempo per mettere

4N.M

ACHIAVELLI, Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S.BERTELLI, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 295.

Nei primi decenni del Cinquecento molte altre città italiane sentirono la necessità di ristrutturare e adattare le proprie fortificazioni: lo ricorda anche TAYLOR, pp. 153-154, che nelle stesse pagine sottolinea anche l’importante ruolo dello stesso Pedro Navarro nella diffusione delle nuove tecniche di difesa statica.

5

Per i mutamenti intervenuti nell’architettura militare in seguito alla “rivoluzione” provocata dalla diffusione dell’artiglieria pesante si vedano I. HOGG, Storia delle fortificazioni, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1982, pp. 96-112, in particolare per quel che riguarda le fortificazioni “alla moderna” o come si diceva anche, “all’italiana”; e G.PARKER, La rivoluzione militare, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 23-35.

6 All’operazione di cimatura delle torri sfuggì soltanto quella di San Niccolò, di là d’Arno: nelle intenzioni originali avrebbe dovuto essere abbattuta per ridurre il perimetro murario, ed è per questo che è sopravvissuta fino ai nostri giorni nelle sue forme originarie. La riduzione definitiva delle porte alle dimensioni e alle forme attuali fu poi portata a termine sotto Cosimo I. Per la storia e le caratteristiche delle mura fiorentine si veda R. MANETTI-M.C.POZZANA, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura, Firenze, Clusf, 1979.

7

I 20 fogli recanti disegni di Michelangelo come architetto militare sono stati studiati prima da C.DE TOLNAY,

Michelangelo Studies II: Michelangelo’s Projects for the Fortifications of Florence in 1529, «Art Bulletin»,

XXII, September, 1940, pp. 128-137; e poi da V.SCULLY JR, Michelangelo’s Fortification Drawings: A Study in

the Reflex Diagonal, «Perspecta», vol. 1, 1952, pp. 38-45. Sull’argomento ancheW.E.WALLACE, “Dal disegno

allo spazio”: Michelangelo’s Drawings for the Fortifications of Florence, «Journal of the Society of

in stato di difesa mura e fortezze. Per far presto enormi masse di manodopera non qualificata venivano reclutate di continuo col sistema delle comandate, sia fra i popoli del contado che fra quelli di città.8

Renzo Manetti, che sulle fortificazioni di Michelangelo ha realizzato uno dei pochi studi sistematici esistenti, ha scritto a questo proposito che

«Michelangelo immagina grandi e complessi bastioni, di fronte alle porte e nei punti delicati delle cortine, non interagenti fra loro, ma ciascuno fine a se stesso come macchina bellica offensivo–difensiva, da studiare come caso singolo e non come parte di un sistema più vasto».9

Dai disegni michelangioleschi si deduce l’attenzione che il grande artista dedicò allo studio delle possibili traiettorie di tiro, sia di quello nemico che di quello difensivo: proprio dal calcolo balistico, e dall’ossessione di non avere angoli morti dove eventuali attaccanti potessero nascondersi al fuoco dei difensori, nacquero le forme sfuggenti delle sue fortificazioni, che l’ungherese De Tolnay definì «zoomorfiche» per la loro somiglianze con le chele di un possente crostaceo.10

Tutti i punti più delicati del circuito murario, a cominciare dalle porte, furono rinforzati con bastioni che circondavano e inglobavano le antiche porte, e dove le mura trecentesche erano troppo a ridosso dei colli, o suscettibili di sfondamento, vennero costruiti fossati e fronti bastionati al loro interno: tra la porta di San Giorgio e quella di San Piero Gattolino (oggi nota come porta Romana), oltre al bastione esterno ne venne costruito anche uno interno, sormontato da un cavaliere11 che permetteva di tenere sotto il tiro delle artiglierie i colli circostanti.12 Quest’opera, che fu una delle ultime, fu iniziata soltanto alla fine di settembre, e non era ancora compiuta che già gli imperiali si accampavano intorno alla città. Fu proprio sul terrapieno di quel cavaliere che avrebbe trovato posto la più famosa arma di tutto l’assedio: una grande colubrina del peso di diciottomila libbre, fusa dal maestro senese Vannuccio Biringucci alla fine di gennaio 1530, che fu ribattezzata dai fiorentini «l’archibugio di Malatesta».13 Sparò pochi colpi, nei mesi dell’assedio: ma ogni volta il rombo della sua “voce” contribuiva a ridare coraggio e speranza ai difensori della città.14

8 I comandati erano generalmente costretti a svolgere la funzione di marraiuoli, cioè di zappatori, per i pesantissimi movimenti di terra da effettuare. Senza alcun salario si provvedeva semplicemente al loro mantenimento, con distribuzioni di pane e vino. Al contrario era retribuita la manodopera specializzata: muratori, legnaioli, scalpellini e fabbri.

9 R. M

ANETTI, Michelangiolo: le fortificazioni per l’assedio di Firenze, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1980, p. 38.

10

SCULLY, pp. 40-43.

11 “Cavaliere” è un termine dell’architettura militare per indicare un terrapieno o un’elevazione di terreno costruita sopra un bastione, allo scopo di ampliarlo e rinforzarlo, e dirigere il tiro delle artiglierie.

12

Le principali opere di fortificazione furono erette, oltre che intorno alla posizione avanzata di San Miniato, e tra le porte di San Giorgio e San Piero (Romana), davanti alla porta della Giustizia fino alla torre del Tempio, tra porta Faenza e porta San Gallo, nei pressi della porta al Prato (dietro la quale correva anche un lungo fossato) e tra la porta San Frediano e porta San Piero. Sull’argomento MANETTI-POZZANA, pp. 92-95.

13

SEGNI, p. 157.

14 Un Diario di anonimo fiorentino conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze racconta come «Adì 25 di gennaio 1529 gittò m. vannoccio l’artiglieria grossa che ha nella culatta la testa di leofante pesò lb.

Tra le opere di fortificazione realizzate lungo tutta l’antica cinta muraria il capolavoro michelangiolesco, solo in parte arrivato fino a noi a causa delle modifiche subite nei secoli successivi, fu comunque il bastione di San Miniato, sul quale l’artista aveva insistito a lungo individuandolo come uno dei punti forti dell’intero circuito difensivo. Riutilizzando in parte le opere progettate qualche anno prima da Giovanfrancesco da Sangallo, e poi portate avanti da Antonio da Sangallo

«egli concepì un sistema di difese simmetriche che dalle mura medievali scalavano il colle per attestarsi sulla sommità, attorno alla basilica monumentale, con una poderosa testa di ponte proiettata come un cuneo nel cuore delle possibili difese nemiche. (...) Un formidabile complesso di baluardi, assecondando l’andamento orografico del colle, ne avvolgeva la sommità per restringersi subito in un invalicabile fronte a tenaglia, dove questo digradava formando un’ondulata selletta di crinale che gradualmente ricominciava a salire verso Giramonte (...) In San Miniato prevale una concezione dinamica e offensiva delle fortificazioni, intese non più come semplici barriere, bensì come centri di attacco, in grado di offendere pesantemente il nemico».15

Con un ulteriore colpo di genio, Michelangelo aveva poi fatto rivestire i bastioni – non solo quelli di San Miniato – con speciali mattoni da lui stessi ideati, che furono per le fortificazioni fiorentine una vera “arma segreta”: mattoni non cotti, ma crudi, seccati al sole, ottenuti impastando con l’acqua rena e fibre di lino. L’uso di semplice terra e non di argilla, e soprattutto la mancanza di cottura facevano sì che il mattone rimanesse elastico; per quanto precari, e soggetti alle intemperie, questi rivestimenti erano adattissimi ad assorbire l’impatto dirompente delle artiglierie da breccia nemiche, i cui colpi sui normali mattoni di argilla cotta si trasformavano invece in una pioggia di micidiali schegge.16

A metà di settembre, mentre l’esercito di Filiberto d’Orange conquistava Perugia e risaliva verso Arezzo, anche Michelangelo, impegnato nei lavori di fortificazione, fu persuaso da un amico ad abbandonare segretamente Firenze per riparare in Francia. La sua fuga fu rocambolesca. Uscito di soppiatto da una porta secondaria, insieme agli amici Rinaldo Corsini e Antonio Mini, Michelangelo riuscì a portare con sé tre giacconi imbottiti di denaro: ben dodicimila fiorini d’oro, un’autentica fortuna. Attraverso Ferrara, l’artista raggiunse Venezia, mentre il 30 settembre – scoperta la sua fuga – la Repubblica lo dichiarava ribelle; salvo poi, dopo averlo rintracciato nella città lagunare e convinto a rientrare, commutare la condanna in tre anni di esclusione dalla lista dei cittadini nominabili al Consiglio Maggiore. Michelangelo riuscì a rientrare in città solo nella seconda metà di novembre, quando le truppe imperiali già si erano acquartierate sui colli: avrebbe poi collaborato alla difesa fino alla conclusione dell’assedio.17

17700 pesata adì 24 di marzo 1529 l’archibuso di Malatesta», dove le date sono da intendersi secondo lo stile fiorentino. Cfr. BNCF, Magliabechiano, XXV, 555, c. 138r.

15

MANETTI, p. 59. 16 Ivi, p. 61. Cfr. L.P

IGNOTTI, Storia della Toscana sino al Principato, Firenze, Gaetano Ducci, 1826, vol. 11, p. 41.

17

Il salvacondotto rilasciato dalla Signoria a Michelangelo, per poter rientrare in città entro la fine di novembre «senza alcuno preiudicio» nonostante lo status di ribelle è in ASF, Signori e Collegi. Deliberazioni in forza di ordinaria autorità, 131, c. 220r, del 20 ottobre 1529. Si veda anche la lettera di Galeotto Giugni ai Dieci del 9

Alla fine del mese si era intanto riunito il Consiglio Grande del governo fiorentino per decidere sul da farsi. Il consiglio era diviso sulla strategia da seguire, anche perché al suo interno si era rafforzata la presenza dei palleschi, i partigiani medicei: c’era chi voleva misurare le forze in campo e chi invece propendeva per un’apertura delle trattative con il principe d’Orange. Negli stessi giorni, Firenze adottava anche la propria bandiera di guerra: una croce bianca in campo rosso, che ogni soldato doveva portare cucita sulla propria veste «sotto pena d’essere svaligiato e amazato (…) volendo che detta croce bianca sia cucita e applicata in buona forma che non si possa levare».18 L’insegna usava gli stessi colori di quella dell’armata imperiale: che invece impiegava una croce di Sant’Andrea rossa in campo bianco.