«Io ‘ l pur dirò, nemica d’ogni fede sinistra di veleni, e tradimenti Dio ti distrugga, fin da’ fondamenti».
Claudio Tolomei, Novello Marte, a cui le stelle amiche
Mentre a Firenze il confronto militare si faceva ogni giorno più duro, nella vicina Bologna si svolgevano le trattative tra Clemente VII e Carlo V per arrivare alla conclusione di una pace generale. Pochi mesi prima, quando ancora si trovava a Genova, l’imperatore aveva rivolto al papa la richiesta che la cerimonia d’incoronazione si svolgesse nella città emiliana. Dalla Germania giungevano notizie minacciose sui preparativi di rivolta dei luterani; Vienna era in quel momento minacciata dai turchi; e non pareva opportuno ritardare ulteriormente la partenza dell’imperatore per le terre ereditarie degli Asburgo facendolo arrivare fino a Roma. Per andare incontro a Carlo, papa Clemente aveva lasciato la città eterna il 7 ottobre, non prima di aver firmato una bolla che assicurava la libertà dell’elezione pontificia nel caso che la sua vita si fosse conclusa a Bologna. Dopo un viaggio che si svolse interamente all’interno dei possedimenti papali – più lungo, ma più sicuro del percorso che passava attraverso la Toscana – il vicario di Cristo giunse il 20 ottobre a Cesena, dove ricevette una missione diplomatica fiorentina alla quale fu spiegato che, poiché in ballo era il suo onore, la città avrebbe potuto evitare il peggio sottomettendosi spontaneamente. Quattro giorni dopo questo infruttuoso tentativo di composizione, accolto dal suono di tutte le campane cittadine, il papa faceva il suo solenne ingresso in Bologna. Portato a spalla sulla sedia gestatoria, e seguito da un corteggio di sedici cardinali, Clemente VII fu accompagnato fino a San Petronio, dove impartì la benedizione solenne prima di ritirarsi negli appartamenti che erano stati preparati per lui nel palazzo civico.1
Il 29 ottobre, nel corso di un concistoro segreto, il papa diede incarico a sei cardinali di preparare tutto l’occorrente per l’incoronazione dell’imperatore; e si decise, nel caso che essa si fosse effettivamente svolta a Bologna, di dichiarare per mezzo di un’apposita bolla, che la
1 Una dettagliata cronaca di quanto avvenne in Bologna durante i mesi della compresenza del papa e dell’imperatore si trova in G.GIORDANI, Della venuta e dimora in Bologna del Sommo Pontefice Clemente VII
per la coronazione di Carlo V imperatore celebrata l’anno 1530. Cronaca con note, documenti e incisioni,
funzione doveva essere giudicata valida come se avesse avuto luogo in Roma.2 La città felsinea si stava preparando con grande cura all’arrivo dell’imperatore, che partì da Piacenza il 25 ottobre3 e passando per Parma, Reggio e Modena fece poi il suo ingresso a Bologna nel pomeriggio del 5 novembre, insieme ai migliaia di armati del suo seguito: lancieri a cavallo, artiglieria, fanterie tedesche e spagnole precedevano e seguivano Carlo, che circondato dai Grandi di Spagna, sfarzosamente vestiti, avanzava su un cavallo bianco in un’armatura splendente d’oro, tenendo nella destra lo scettro imperiale; mentre i valletti del suo seguito distribuivano alla popolazione acclamante monete d’oro e d’argento.
La seconda capitale dello stato pontificio, per l’occasione, era stata completamente parata a festa. Le cronache dell’epoca raccontano di come architetti, scultori e pittori avessero gareggiato nel creare le più magnifiche decorazioni. Verdi ghirlande addobbavano tutte le strade, panni colorati erano stati messi a ogni finestra, stucchi e archi trionfali, così come sontuosi apparati scenici, erano stati realizzati per l’occasione. Al rivellino della porta di San Felice, per la quale era previsto l’ingresso del corteo, si vedeva da un lato il trionfo di Nettuno circondato da tritoni, sirene e centauri, dall’altro Bacco attorniato da satiri, ninfe e fauni, con l’iscrizione latina Ave Caesar Imperator Invicte.
Il richiamo alla romanità era ovunque: archi di trionfo, medaglioni raffiguranti Augusto, Tito e Traiano, statue equestri, stucchi e false architetture erano stati allestiti in tutta la città. L’occasione era del resto quasi unica. Il papa e l’imperatore – le due massime cariche della cristianità – si sarebbero trovati uniti in pace e comunione nello stesso posto, dopo essersi per tanti anni combattuti.
Mentre i bolognesi festanti accoglievano Carlo V, al grido di Cesare, Imperio! il pomposo corteo si muoveva verso Piazza Maggiore, dove il papa lo attendeva con un seguito altrettanto sontuoso per ricevere l’omaggio dell’Imperatore e farsi baciare i piedi e le mani.4 Dopo i saluti di rito, i baci della pace e le celebrazioni, sia il papa sia l’imperatore si ritirarono infine nelle loro stanze, che erano state allestite contigue e unite da una porta di comunicazione in modo da potersi vedere, parlarsi e trattare indisturbati a qualsiasi ora del giorno e della notte. Se inizialmente, come scrisse l’oratore senese a Bologna, c’era «nel parlare poca confidentia tra Cesar e il Papa»5, in quelle stanze, con il passare dei giorni, venne a stabilirsi una grande familiarità tra i due regnanti ex-nemici, che sorprendendo tutti si trattavano tra loro con l’affetto e la confidenza di un padre e un figlio: un clima che certo agevolò il raggiungimento di un’intesa complessiva.
2 V
ON PASTOR, p. 353. 3
L’Itinerario di Carlo V, pubblicata nell’Ottocento dal Bradford, anticipa sia la partenza da Piacenza, sia l’arrivo a Bologna di un mese (l’imperatore viene fatto partire il 25 settembre e arrivare il 5 ottobre): si tratta evidentemente di un errore di trascrizione. Cfr. W.BRADFORD, Correspondence of the Emperor Charles V and
his ambassadors at the Courts of England and France, London, Bentley, 1850, p. 495.
4
Vale la pena di ricordare come i codici di comportamento nei rapporti tra principi prevedessero per occasioni simili che la dignità maggiore si recasse prima nella città sede del convegno (come aveva fatto il Papa) per poi ricevere l’omaggio formale della dignità minore. Cfr. E.CUTINELLI RENDINA, Sovrani a convegno nella "Storia
d'Italia": Carlo V e Clemente VII a Bologna, in E. PASQUINI – P. PRODI, Bologna nell’età di Carlo V e
Guicciardini, Bologna, Il Mulino, 2002.
«Parlasi adesso de la incoronatione – scrisse l’arcivescovo senese Francesco Bandini Piccolomini, in una lettera alla Balìa – e non è anchora determinato el giorno, et benché molti habbino decto che si habbi ad fare a Roma niente di mancho per la più parte si tiene che si habbi da fare qua».6
I negoziati erano resi più facili dall’esistenza di due trattati appena firmati, quello di Barcellona e quello di Cambrai, che davano la cornice entro la quale comporre una pace generale che interessasse tutta la penisola: preludio di un nuovo equilibrio italiano che avrebbe permesso all’imperatore prima di normalizzare la Germania spaccata dall’eresia luterana e poi di contrastare l’avanzata turca. Concilio e Crociata erano gli obiettivi dichiarati dell’imperatore, e la pacificazione dell’Italia doveva essere il primo passo in quella direzione.7 Su questi temi comunque i punti di disaccordo con la Santa Sede non mancavano. Da un lato Clemente rimaneva fermo sul punto che venissero seguiti esattamente i termini a lui favorevoli del trattato di Barcellona. Da parte sua Carlo, considerando il pericolo turco e quello luterano, oltreché l’esaurimento delle sue risorse finanziarie, puntava a mantenere sì l’amicizia del papa, ma anche a risolvere definitivamente le questioni di Milano e Ferrara. Milano, soprattutto, era per Carlo la chiave di volta di un accordo generale, di quella pace che gli avrebbe consentito di non pensar più alle questioni italiane e dedicarsi soltanto a quelle tedesche. Nei trent’anni precedenti Milano era stata la polveriera d’Italia, il problema che aveva dato origine a tutte le guerre tra Francia, Impero e Spagna.
Durante il suo soggiorno a Piacenza, l’imperatore aveva avuto lunghe conversazioni su Milano con il De Leyva, che a quanto sembra era contrario a una cessione del Ducato dopo tutto ciò che era stato fatto per ottenerlo. Tra i potenti dell’impero, anche il marchese di Vasto si collocava tra i “falchi”; mentre invece si diceva favorevole a concedere il perdono imperiale allo Sforza – come richiesto dal papa e dagli stati italiani – il neo-cardinale Mercurino da Gattinara.8
Nei mesi precedenti il loro incontro, l’imperatore aveva pensato di offrire al papa il ducato milanese, per affidarlo ad Alessandro de’ Medici: il pontefice si sarebbe messo l’animo in pace per quanto riguardava le proprie aspirazioni dinastiche, e Firenze avrebbe mantenuto la libertà. Clemente VII aveva però rifiutato, ritenendo che sarebbe stato difficile, se non impossibile, conservare a lungo quel dominio così problematico. A Bologna, la proposta fu avanzata di nuovo, e nuovamente rifiutata. Poi Carlo V pensò di conferire il ducato ai Gonzaga, che già avevano Mantova. Solo l’insistenza del pontefice – unita a quella del Gattinara – convinsero l’imperatore a investire del ducato colui che ne era in fondo il legittimo proprietario, cioè Francesco Sforza: nella considerazione che qualsiasi altra
6
Francesco Bandini Piccolomini alla Balìa di Siena, 6 novembre 1529, in ASS, Balìa, 598, n. 69. Fratello di Mario Bandini, l’arcivescovo era stato nominato nel 1529 ambasciatore della Repubblica presso Carlo V, ufficio che ricoprirà fino al 1532. Cfr. D.BANDINI, Francesco Bandini arcivescovo di Siena (1505-1588), «Bullettino senese di storia patria», nuova serie, 1931, II, p. 106.
7 Sui negoziati di Bologna cfr. B
RANDI, pp. 272 e segg. 8 F.R
soluzione avrebbe scatenato immediatamente una nuova guerra in Italia.9 Una ripresa delle ostilità sul suolo italiano non era nemmeno da prendere in considerazione, se si voleva intervenire rapidamente in Germania. Carlo V decise quindi di adottare una linea morbida per Milano, una strategia, come lui stesso scrisse al fratello Ferdinando, che mirava a «laisser l’Italie en paix, pour estre plus libre» di agire contro i luterani e contro il Turco, ed evitare così che in Italia si continuasse a combattere una guerra senza fine.10 Lo Sforza fu così ricevuto in udienza il 23 novembre. Il suo atteggiamento, e la mediazione del papa, permisero di raggiungere rapidamente un accordo, e già il 3 dicembre fu stabilito che l’investitura del ducato di Milano sarebbe stata assegnata a lui, dietro il pagamento di un’indennità enorme: 500.000 scudi subito, altri 400.000 a rate, accettando inoltre la custodia delle principali piazzeforti lombarde da parte di truppe spagnole.11
Il primo passo di una pace generale era fatto, e con quello si ipotecava anche la soluzione del problema veneziano. Con la Serenissima la trattativa procedeva in parallelo. Alla fine di ottobre il governo veneto – che nel frattempo aveva sollecitato anche la mediazione di Federico Gonzaga – aveva dato al proprio ambasciatore, Gaspare Contarini, ampio mandato per restituire al papa Ravenna e Cervia, e per trattare sul resto, chiedendo però che nell’accordo generale fosse inclusa anche la questione di Francesco Maria I Della Rovere e del ducato d’Urbino.12
Alla fine del mese successivo la Repubblica di San Marco decise di non opporsi più nemmeno all’idea di una lega difensiva italiana, uno dei punti richiesti dall’imperatore, e acconsentì a promettere quindici galere che in caso di bisogno avrebbero partecipato alla difesa del Regno di Napoli;13 mentre da parte sua il papa cedette sulla richiesta veneziana di rimettere il duca d’Urbino nel possesso di tutte le sue terre e su una serie di punti di minore importanza.14 Nessun appoggio diplomatico fu invece dato da Venezia alla causa fiorentina, sebbene questo fosse stato richiesto da Firenze e promesso. Per quanto persino un autore attento come Roth abbia giudicato i comportamenti della Serenissima nei confronti di Firenze come un tipico esempio di quella malafede veneziana proverbiale fin dai tempi del Boccaccio,15 banalizzando in tal modo la questione, è facile
9
Il Gattinara aveva condotto personalmente la mediazione con lo Sforza, incontrandolo a Cremona: frutto di quell’incontro la richiesta formale di perdono scritta dal duca di Milano all’imperatore. Cfr. AGS, Estado, 1454, f. 192 (Francesco Sforza a Carlo V, 25 ottobre 1529) e ff. 168-169 (Mercurino da Gattinara a Carlo V, 26 ottobre).
10 Cfr. la lettera di Carlo V al fratello Ferdinando di Boemia, 11 gennaio 1530, pubblicata in L
ANZ, pp. 360-372 : con particolare riferimento alle pp. 367-368. Gli stessi concetti sono espressi nella lettera dell’imperatore a Margherita d’Austria del 22 gennaio, pubblicata in BARDI, pp. 33-35, nella quale si ammette che «pour riens du monde» le potenze italiane avrebbero «consenti que l’eusse retenue» (il ducato di Milano) «nij pour moi, nij pour le Roi mon frère». Sull’argomento anche P.PRODI, Carlo V e Clemente VII: l’incontro di Bologna nella storia italiana ed europea, in PASQUINI–PRODI, p. 335.
11 G.G
ALASSO, Carlo V..., p. 8. Le capitolazioni tra Carlo V e Francesco II Sforza furono firmate a Bologna il 23 dicembre, come atto preliminare ai trattati di pace. Cfr. RAH, Colleción Salazar y Castro, A44, ff. 154r-158v. 12
Senato di Venezia a Gaspare Contarini, 22 ottobre 1529, in ASVe, Senato. Secreti, 53, c. 220rv. L’istruzione prevedeva di cedere sulla restituzione a Carlo delle terre di Puglia (cercando il perdono dei fuorusciti); e con questa offa cercare la mediazione imperiale con il Pontefice su Ravenna e Cervia. Cfr. GATTONI, p. 281.
13
MALLETT-SHAW, p. 220. 14 F.G
UICCIARDINI, Storia..., III, pp. 2033-2034. 15 R
capire come – parlando in termini di realpolitik – un’impegno convinto a favore di Firenze avrebbe avuto come unico risultato quello di escludere la stessa Venezia dalla pace generale, con il rischio di un prolungamento della guerra contro i dominii della Terraferma veneta. Era del resto convinzione del papa, espressa in un colloquio con l’arcivescovo di Bari qualche tempo prima di arrivare a Bologna, che Firenze e Ferrara si sarebbero adeguate alle scelte politiche (di pace o di guerra) di Milano e Venezia. Se a Firenze la parola era già passata alle armi, per Ferrara il papa era disponibile ad affidarsi interamente alle decisioni imperiali; avvisando tuttavia che non ci fosse da aspettarsi grandi somme di denaro dal duca Alfonso, pur essendo tra i principi italiani quello che disponeva sul momento di maggiori risorse.16 Su un punto sia Clemente VII sia Carlo V si trovarono pienamente concordi, ed era proprio sulla necessità di sottomettere Firenze. Le uniche difficoltà in merito erano semmai quelle economiche, chi dovesse pagare e quanto; anche perché il principe d’Orange – come abbiamo visto – era arrivato fino a Bologna per sollecitare personalmente denaro e rinforzi.
Prima ancora del suo arrivo, comunque, era già stato deciso di completare con un secondo esercito il blocco intorno a Firenze:
«la determinacion a esté d’envoyer encoires gens pour mectre ung autre siege devant ledit Florence, de Xm hommes du moings, Allemans et Espaignolz, et aussi du moings XIII pieces d’artillerie, cannons et couleuvrines avec la municion neccessaire, et desja est l’on après pour faire venir et assembler lesdits gens, artillerie et municion et pourveoir de gastadors et autres choses que sera besoing».17
L’imperatore riteneva che la storica alleanza fiorentina con la Francia fosse a questo punto un pericolo al suo dominio su un’Italia pacificata. Di più: Carlo si era anche convinto della legittimità morale dell’impresa contro Firenze. Su quest’ultimo punto aveva consultato anche i più valenti esperti di diritto (forse anche quelli della stessa Università di Bologna), per averne un parere. Francesco Vettori, che in quei giorni si trovava proprio a Bologna, spiegò in una sua lettera a Bartolomeo Lanfredini le argomentazioni che erano state sollevate dai giuristi a favore dell’impresa fiorentina. Scrisse il Vettori:
«La spesa, parte fa il Papa et parte lo Imperatore, el quale constrigne il Papa quasi contro a sua vogla a entrare di nuovo in questa guerra, perché allo Imperatore pare ne vadi l’honore suo et ha consultato nel suo consiglio et con dottori et maestri in theologia se la guerra contro e Fiorentini mossa per lui era iusta. Et hanno resoluto che per tre cause è iustissima, et che quando esso mancassi del farla mancherebbe al’honore suo et alla iustitia: la prima, perché tenendo e Fiorentini Firenze et l’altro loro dominio in vicariato da Cesare, havendoli facto contro, sono caduti delle loro ragioni, et la città et il dominio ritorna a lui. Secondo, perché non havendo voluto dare e benefici secondo ha dichiarato la sede apostolica, et havendo posto decime et altre impositioni al clero senza licentia del Papa, et havendo banditi e Vescovi publicamente et gravati in havere et in persona, sono di ragione excomunicati et ciascuno principe cristiano li debbe perseguitare. La terza, perché non è la maggiore tirannide né piú crudele che quella del popolo quando diventa tiranno; et che si vede chiaramente essere diventato per molte iniustitie che ha facto, et in ultimo che non si cura, per mantenersi, di ruinare il piú bel paese d’Italia et
16 L’arcivescovo di Bari Esteban Gabriel Merino a Carlo V, 16 ottobre 1529, in AGS, Estado, 848, f. 109. 17 Carlo V a Filiberto di Chalon, 8 novembre 1529, in HHStA, LA Belgien, PA 67.5, c. 97rv.
fare morire di fame centomila anime et mandare al bordello infinite vergini; et afferma che, quando bixogni, vuole ire in persona a questa impresa».18
Per i fiorentini non si trattava di buone notizie, ma le peggiori dovevano ancora venire. Dopo aver concluso anche la trattativa con Venezia, Carlo V decise di metter fine ai negoziati. Le questioni secondarie, come la riappacificazione del duca di Ferrara con Clemente VII furono rimandate a un secondo momento, e l’imperatore se ne sarebbe occupato qualche mese dopo, per poi arrivare a una decisione definitiva soltanto nel dicembre 1530.19
Carlo decise inoltre che anche sulle pretese territoriali di suo fratello si poteva glissare, e gli ambasciatori di Ferdinando I furono costretti a concedere forzatamente il proprio assenso. Prioritario diveniva raccogliere i frutti dell’accordo raggiunto, per poi dedicarsi ad altre importanti questioni, come la conclusione di una lega contro i turchi, e l’indizione di un concilio per tentare di limitare l’espansione luterana nei territori tedeschi.
Il 23 dicembre 1529 vennero firmati i due trattati di Bologna, che sancivano la pace e l’alleanza tra Clemente VII, Carlo V, Ferdinando I d’Austria, Venezia, Francesco Sforza, Mantova, Savoia, Monferrato, Urbino, Siena e Lucca.20 La pace, promulgata nella cattedrale bolognese il primo dell’anno, fu poi confermata con giuramento solenne delle parti il 6 gennaio.21 Per Firenze era come udire una campana suonare a morto, perché – come avrebbe poi scritto il Guicciardini - «la pace degli altri aggravava la guerra loro».22 Tutte le potenze italiane, comprese quelle ex-alleate, erano ormai in pace con l’imperatore. Rimaneva aperta, almeno formalmente, la questione di Ferrara, comunque in via di risoluzione: alla fine di marzo, come segno di buona volontà, era stato richiamato anche l’ambasciatore ferrarese a Firenze, Alessandro Guarini, che di fatto avrebbe però lasciato la città gigliata soltanto alla metà d’aprile.23
La migliore sintesi della situazione si trova in una lettera non firmata proveniente da Lucca, scritta il 20 dicembre 1529 e oggi conservata nell’Archivio di Stato
18 Francesco Vettori a Bartolomeo Lanfredini, 19 novembre 1529, in BNCF, Fondo Nazionale, II.V.23, c. 61 e segg.
19
Nella primavera seguente, fermatosi a Mantova lungo il cammino per la Germania, l’imperatore ricevette da Alfonso d’Este sessantamila ducati e la promessa dell’adesione di Ferrara alla pace generale, concedendogli in cambio il feudo di Carpi. Con il successivo lodo di Colonia (21 dicembre 1530) l’Este fu confermato feudatario imperiale per Ferrara, e al duca fu riconosciuto anche il possesso di Modena, per la cui cessione – che andava a diminuire i possedimenti dello stato pontificio – fu comunque riconosciuta a Clemente VII un’indennità di centomila ducati una tantum e un censo annuo di settemila. Ma nel frattempo il papa aveva recuperato Firenze, e il sacrificio di Modena non dovette forse sembrare così importante.
20 Copia del trattato di pace e del trattato «per mutua difesa degl’interessi dell’Italia», entrambi in data 23 dicembre 1529, in ASVe, Miscellanea atti diplomatici e privati, busta 55, ai numeri 1788 e 1790.
21 «Questa sira con gran festa et fuochi si è pubblicata la pace et lega difensiva fra li potentati de Italia (...)»: Girolamo Massaini alla Balìa di Siena, 31 dicembre 1529, in ASS, Balìa, 599, n. 96. Cfr. [L.GONZAGA], p. 129. Copia delle ratifiche da parte di Carlo V (5 gennaio 1530) e di Clemente VII (6 gennaio) in ASVe, Miscellanea atti diplomatici e privati, busta 55, ai numeri 1793 e 1791.
22 F.G
UICCIARDINI, Storia..., III, p. 2037.
23 L’ultima lettera di Alessandro Guarini al duca Alfonso I d’Este è quella del 17 aprile 1530, giorno di Pasqua (ASMo, Cancelleria Ducale. Estero. Carteggi ambasciatori. Firenze, 15, ins. 9, ad datam): la sua partenza