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Nello stesso giorno in cui Carlo V veniva incoronato da Clemente VII, Volterra si ribellava contro Firenze e si arrendeva poi agli imperiali senza combattere. Era un esito che sorprese i Dieci. Negli ultimi due mesi le tensioni con i volterrani si erano stemperate, grazie all’arrivo del Tedaldi che – per esserne stato in passato capitano – conosceva bene la città e i suoi abitanti.

La resa di Pomarance (9 febbraio) agli imperiali del Vitelli fece comunque ritenere al Tedaldi che presto la situazione in Volterra non sarebbe più stata sicura, e forse nemmeno difendibile, visto che la Val di Cecina era ormai in mano al nemico.15 Per di più, il Tedaldi si trovava privo dei denari necessari a pagare le sue bande, e senza nessuna possibilità di farne: il commissario fiorentino si trovava così costretto ad assistere passivamente agli eventi.

11 ASF, Manoscritti, 740, c. 130rv, Cerimonie usate da Papa Clemente Settimo, nel coronare Carlo V nella città

di Bologna.

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Si veda il già citato avviso del 2 di marzo da Bologna pubblicato dal Molini, dove si spiega che il prolungamento del soggiorno dell’imperatore è «solo per satisfare al papa et per vedere se con tentare questo assalto a Firenze se havesse per menar seco parte delle genti, et se Firenze non se piglia, pur decrevit abire et lasserà questo exercito».

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PRODI, pp. 329-335. 14 B

RANDI, pag. 278.

Il 15 febbraio il commissario pontificio Taddeo Guiducci, che affiancava il Vitelli nella campagna, chiese la resa di Volterra. La proposta del Guiducci tentava i Volterrani, che comunque cercarono di guadagnare tempo e informarono Firenze di quanto stava accadendo. Il giorno seguente la questione fu discussa in un lungo e animato consiglio cittadino. Da una parte si sosteneva che resistere agli imperiali fosse inutile, perché anche ammettendo che non conquistassero la città, avrebbero devastato irrimediabilmente il territorio, provocando comunque danni enormi; dall’altra si obiettava che cambiando bandiera il nuovo nemico – cioè i fiorentini – si sarebbe trovato già dentro casa, all’interno della cittadella. Il consiglio cittadino si concluse con la sostituzione integrale dei membri dei “Quattro della Guerra”, nominando al loro posto Paolo Maffei, Ludovico Incontri, Giovanni Gotti, Mariotto Lisci, tutti filo–medicei; e il 18 febbraio furono intavolate le trattative con il Guiducci.16 La decisione formale di arrendersi non era stata presa, ma era ormai nell’aria. Per evitare sorprese il commissario fiorentino, Bartolomeo Tedaldi, che a Volterra si trovava dagli ultimi giorni di novembre, il 22 febbraio si chiuse all’interno della fortezza insieme a 130 soldati e a quasi 400 civili di fede repubblicana: due giorni dopo, i manipoli imperiali occupavano la cittadina senza colpo ferire.

Gli accordi di resa erano stati firmati da Taddeo Guiducci e da una delegazione volterrana composta da Agostino Falconi, Giovanni Marchi e Mariotto Lisci, e sarebbero poi stati ratificati il 17 marzo dal rappresentante pontificio Baccio Valori e il 26 di quello stesso mese dal papa. Le condizioni furono particolarmente favorevoli: nessuna contribuzione di guerra, nessuna rappresaglia, tutela del commercio del sale.17 Commissario pontificio di Volterra divenne Taddeo Guiducci, mentre in rappresentanza dell’impero furono nominati i fuorusciti filo–medicei Roberto Acciaioli e Luigi Ridolfi: «gente abituata a sollevar li popoli a partito salvo», li avrebbe definiti il Ferrucci in una sua lettera.

Le condizioni di resa prevedevano tra l’altro la possibilità per le forze repubblicane di abbandonare indisturbate la città. Di fatto, il Tedaldi aveva ritirato le sue forze nelle fortezze ancor prima delle capitolazioni, e già il 25 febbraio il commissario fiorentino faceva aprire il fuoco dalla cittadella contro Volterra: «dannandola con le artiglierie», secondo quanto scrisse il Ferrucci. I bombardamenti, ripetuti, non avevano in realtà grande effetto, perché come ricordò l’Incontri, «in cittadella non era artiglieria grossa, che per la guerra d’Urbino, cavorno quanta artiglieria vi era, e mai vi ritornò»18. Il Tedaldi disponeva soltanto di alcuni pezzi di piccolo calibro, che comunque cercò di sfruttare al meglio.19 Il 28 febbraio, dopo un fuoco di preparazione durato 16 ore, i fiorentini tentarono la prima sortita. A limitare l’azione del Tedaldi era soprattutto la scarsità di forze, che poteva permettere al più di condurre qualche

16 I NCONTRI, p. 28. 17 LODOLINI, p. 151. 18 INCONTRI, p. 33.

19 Da un inventario realizzato nell’estate del 1529 sappiamo che in Fortezza Vecchia c’erano 4 mezzi cannoni, 5 mortai, 24 archibugi da mura, 5 moschette e un falconetto. Nella Fortezza Nuova 5 mezzi cannoni, 4 falconetti, una moschetta; in Cittadella, oltre ai magazzini contenenti le derrate alimentari, anche 150 picche e 50 archibugi. Cfr. la lettera di Niccolò de’ Nobili ai Dieci, 22 luglio 1529, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 140, cc. 251r- 252v.

azione di disturbo. In ogni caso il commissario fiorentino non faceva passar giorno senza tentare un colpo di mano. Dopo varie scaramucce, il 7 marzo tra i fiorentini e i volterrani fu sottoscritta una tregua di 60 giorni, che prevedeva anche la possibilità per i repubblicani di inviare ogni giorno una squadra di uomini in città per provvedere i viveri necessari, pagandoli.

A Firenze si apprese della capitolazione di Volterra soltanto ai primi di marzo, grazie alle informazioni raccolte dal Ferrucci.20 Apparve immediatamente evidente che la perdita non era di poco conto, perché il papa, come ebbe modo di osservare l’ambasciatore ferrarese Alessandro Guarini, «in un subito si può prevalere di buona summa de’ denari per conto del sale», cioè sfruttare i giacimenti di salgemma che costituivano la principale risorsa economica volterrana.21