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«Ecco Fortuna come cangia voglie Sin qui a’ Francesi sì propizia stata Che di febbre li uccide, e non di lancia Sì che di mille un non ne torna in Francia». Ludovico Ariosto, L’Orlando furioso

Nel dicembre 1527 il visconte di Lautrec aveva posto il suo campo tra Parma e Piacenza, dove rimase acquartierato per l’inverno preparandosi ad attaccare Napoli. Il piano del Lautrec era infatti quello di obbligare gli imperiali sulla difensiva nel Regno, in modo da costringere gli eserciti di Carlo V a uscire da Roma, senza però che per questo la guerra si riaccendesse in Lombardia. In prospettiva, il ducato milanese doveva riconquistarsi al tavolo della pace, dove l’imperatore si sarebbe trovato a barattare le sue pretese su Milano con un recupero di Napoli. Facendo leva sugli ultimi successi militari, fino a pochi mesi prima insperati, nella primavera 1528 – mentre la corte papale si trovava in esilio a Orvieto, e il papato non appariva più come una potenza militare – Clemente VII venne più volte invitato dagli ambasciatori dei collegati a unirsi nuovamente alla Lega. Il pontefice tuttavia si rifiutò di farlo: Ferrara e Venezia continuavano ad occupare illecitamente i possedimenti pontifici di Modena, Reggio, Ravenna e Cervia, e non volevano in alcun modo restituirli. La Francia, da parte sua, proteggeva sia la ribelle Firenze, sia l’odiata Ferrara, con la quale proprio in quei mesi realizzava il fidanzamento e il matrimonio di Renata di Valois con Ercole II d’Este.1 Il rifiuto da parte del papa di tornare ad appoggiare attivamente la Lega segnò (e così fu percepito dall’ambasciatore veneto in Curia, Gaspare Contarini) un primo passo nel riavvicinamento tra Clemente VII e Carlo V:2 ma la sua posizione di temporanea neutralità fu comunque rispettata dalle potenze collegate, nella speranza di riuscire in un secondo momento a riportare il pontefice dalla propria parte.

A gennaio l’esercito del Lautrec, rinforzato da tremila lanzichenecchi, lasciava la pianura emiliana per attraversare la Romagna e poi seguire la costa fino in Puglia. Il 10 febbraio l’armata francese raggiunse il fiume Tronto, confine tra gli stati papali e il Regno, iniziando l’invasione. Il corpo di spedizione del Lautrec ammontava in quel momento a ventiduemila

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Renata di Valois-Orleans (1510-1575), secondogenita di Luigi XII di Francia, andò sposa a Parigi il 28 giugno 1528 a Ercole II d’Este, portando in dote il ducato di Chartres, la contea di Gisors e il castello di Montargis. 2 V

uomini, e il condottiero francese attendeva la ricongiunzione con quanto rimaneva dell’esercito collegato, da qualche mese inoperoso in Umbria.3

Il 17 febbraio il grosso dell’esercito imperiale lasciava Roma puntando su Napoli, mentre un contingente di quattromila spagnoli al comando di Juan de Urbina andava incontro all’invasore francese per ritardarne l’avanzata, senza tuttavia riuscire a stabilire un contatto col nemico e finendo per ritirarsi. Ansioso di giungere a uno scontro aperto, il 12 marzo il Lautrec mosse su Troia, dove aveva saputo che si trovava il principe d’Orange, e la raggiunse il giorno seguente. Nei pressi della città pugliese, gli imperiali si erano già preparati a ricevere il nemico, disponendosi a battaglia sulla cima di una collina che sovrastava la pianura: con una brillante manovra l’esercito della Lega riuscì a occupare una collina vicina, e da lì l’artiglieria dei collegati iniziò a martellare le posizioni avversarie, mentre nella pianura la cavalleria imperiale veniva messa in fuga. Vedendo sfumare il proprio vantaggio, il principe d’Orange riuscì tuttavia a disimpegnare le proprie truppe, evitando la battaglia campale e ripiegando su posizioni più sicure. Per oltre una settimana, tra continue schermaglie, i due eserciti rimasero accampati a breve distanza.

Nel frattempo le Bande Nere fiorentine avevano lasciato il campo in Umbria il 6 marzo, per raggiungere l’armata del Lautrec. Durante il cammino Cascia venne saccheggiata, e qualche giorno dopo fu il turno dell’Aquila, che venne attaccata e parzialmente messa a sacco prima che Orazio Baglioni riuscisse a riprendere il controllo dei suoi uomini, sull’orlo dell’ammutinamento.4 Il 21 marzo le Bande Nere raggiungevano l’esercito francese a Troia.5 Con l’arrivo del corpo d’élite fiorentino, forte di 4500 homini da guerra, il rapporto di forze tra collegati e imperiali era di due contro uno. Quella notte stessa l’Orange fece smantellare il campo, e l’esercito imperiale iniziò una rapida ritirata verso la capitale del Regno, a dispetto dell’opinione di don Hugo de Moncada – il luogotenente imperiale che dopo la morte del viceré Charles de Lannoy ne aveva preso il posto – il quale avrebbe voluto piuttosto giungere a uno scontro con gli imperiali lontano dalle mura di Napoli.

Anziché mettersi all’inseguimento del nemico in fuga, il Lautrec preferì rimanere in Puglia, per consolidare la conquista di un territorio che per Napoli costituiva un’importante fonte di entrate fiscali. Il 22 marzo diecimila francesi, insieme alle Bande Nere e ai Guasconi del colonnello Pedro Navarro (uno spagnolo che da più di dieci anni si era messo al servizio della Francia), attaccarono Melfi, le cui difese furono sorpassate dopo due giorni di scontri: la popolazione civile fu massacrata, e sul terreno rimasero oltre tremila civili. Il sanguinoso esempio convinse i più importanti centri pugliesi ad aprire le porte agli eserciti collegati senza

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In particolare il Lautrec chiese esplicitamente il supporto delle Bande Nere al servizio di Firenze, veterani su cui si poteva fare affidamento. Cfr. Marco del Nero ai Dieci, 31 gennaio 1528, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 121, c. 167rv.

4 Il condottiero perugino aveva dovuto consentire l’attacco a L’Aquila sotto la minaccia delle armi. Per i dettagli della vicenda Orazio Baglioni ai Dieci, 30 marzo 1528, in ASF, Dieci di Balìa. Responsive, 128, c. 175rv. 5 Lodovico Ceresara a Federico marchese di Mantova, 21 marzo 1528, in ASM, Archivio Gonzaga, 876, c. 181rv.

combattere. In pochi giorni tutta la Puglia, tranne Brindisi e Manfredonia, finì sotto il controllo dei francesi e dei loro alleati, che si trovarono così aperta la via per Napoli.

L’11 aprile l’esercito della Lega si trovava a sette miglia dal capoluogo campano, e il 25 dello stesso mese i francesi posero il campo a Poggioreale, dando inizio all’assedio di Napoli. Avendo lasciato alcuni reparti a presidio delle città conquistate, il Lautrec poteva contare a quel punto su circa ventimila uomini, comprese le Bande Nere fiorentine e i due contingenti veneziani, (800 corsi e 1200 lanzi) arrivati alla fine di marzo. Dietro le mura di Napoli si trovavano invece dodicimila imperiali: 5000 lanzichenecchi, altrettanti spagnoli e 2000 italiani.6

Sulle modalità di conduzione della difesa, il consiglio di guerra imperiale non si trovava in sintonia, diviso tra una fazione capeggiata dal viceré di Sicilia Moncada, luogotenente imperiale di Napoli, al cui fianco si trovavano Alfonso d’Ávalos marchese di Vasto e Ascanio Colonna; e un’altra formata dal principe d’Orange e da due dei suoi generali, Fernando D’Alarcon e Juan de Urbina. Il Moncada, che era anche capitano generale della flotta spagnola, tentò subito di affermare il proprio punto di vista facendo uscire dal porto lo squadrone napoletano, sul quale si imbarcò insieme ai suoi capitani muovendo contro la flotta di Andrea Doria. Nella battaglia che ne seguì, combattuta il 28 aprile a Capo d’Orso, le forze navali napoletane furono completamente annientate: nello scontro lo stesso Moncada trovò la morte affondando con la nave sulla quale si trovava, mentre molti dei più valenti capitani imperiali, tra i quali il D’Ávalos e Ascanio Colonna, furono catturati. A Napoli, la conduzione della difesa rimase così tutta nelle mani dell’Orange, che di fatto divenne – in attesa di una conferma da parte di Carlo V – anche il nuovo viceré.

In Lombardia, la partenza del Lautrec per Napoli aveva intanto lasciato i collegati con forze troppo deboli per controllare completamente la situazione, con i Veneziani preoccupati soprattutto di difendere il proprio Stado da Terra e in particolare Bergamo. Nell’aprile 1528 l’arrivo di una nuova armata imperiale, forte di venticinquemila uomini sotto la guida del duca luterano Enrico di Brunswick, inviato da Ferdinando di Boemia, modificò nuovamente l’equilibrio delle forze in campo. Calati in Italia da Trento, gli imperiali attraversarono l’Adige il 14 maggio, dilagarono poi nel veronese, attraversarono il bresciano e il fiume Oglio per entrare infine nel bergamasco, mentre Antonio Da Leyva avanzava da Milano per unirsi a loro, replicando la manovra che l’anno precedente aveva consentito la saldatura tra i corpi d’armata del Borbone e del Frundsberg.

Direttamente minacciata nei propri possedimenti, Venezia tentò di rinforzare la sua cavalleria leggera conducendo alle proprie paghe contingenti albanesi e turchi. Nel complesso però l’esercito veneziano non aveva forze sufficienti nemmeno per proteggere i propri dominii sulla Terraferma, e alla fine il duca d’Urbino scelse una strategia attendista ritirandosi al sicuro nelle fortezze. Fu una scelta vincente: il Brunswick pose l’assedio a Lodi il 20 giugno, ma l’armata tedesca si dissolse di lì a un mese, travolta dalla peste e dagli ammutinamenti per

6 Antonio Maria Avogadro a Antonio Capriolo, 28 aprile 1528, in S

mancanza di paga. Una nuova armata francese, guidata da Francesco di Borbone conte di Saint Pol (chiamato dalle fonti italiane il Sanpolo), non riuscì ad arrivare in Lombardia in tempo per affrontare i tedeschi ormai sbandati, e nei mesi successivi si trattenne sul teatro delle operazioni senza riuscire a modificare la situazione a favore dei collegati.7