Il ruolo del Presidente della Repubblica italiana nella formazione di Governi “tecnici” nei periodi di crisi economica
2. La concreta esperienza di Governi “tecnici” nell’Italia repubblicana
Da un punto di vista storico, troviamo esempi di Governi “tecnici”, nell’accezione considerata, solamente a partire dagli ultimi anni della c.d. prima Repubblica. A mio parere, ciò è legato al fatto che i partiti che avevano dominato la scena politica dal dopoguerra, prima della loro disgregazione (avvenuta definitivamente con le elezioni del 1994, ma già in divenire da alcuni anni), avevano maggiore capacità e forza di rinvenire da sé soluzioni alle crisi di governo. Questa mia considerazione peraltro non implica l’assenza di problemi nella formazione degli Esecutivi nei periodi precedenti, né che essi fossero stabili (basta dare un colpo d’occhio al corposo elenco degli stessi per accorgersi della loro breve durata media), ma semplicemente vuole porre l’attenzione sul fatto che le forze politiche mantenevano un ruolo predominante nella scelta delle compagini ministeriali. Quando il panorama politico è mutato, sono giunte maggiori difficoltà.
6 R. Manfrellotti, Profili costituzionali del governo tecnico, 2013, in www.forumcostituzionale.it, 7. 7 F. Politi, op. cit., 318.
8 «I membri del governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto...». 9 S. Merlini, G. Tarli Barbieri, op. cit., 140.
Le elezioni del 5-6 aprile 1992 si svolsero in un contesto di grandi cambiamenti politici: la Democrazia cristiana non aveva raggiunto, per la prima volta nella storia repubblicana, il 30% di suffragi; il Partito socialista aveva riportato un risultato inferiore alle aspettative; si era ormai affermato il nuovo movimento della Lega lombarda, che aveva raccolto più dell’8% dei voti; il Partito Comunista, trasformatosi l’anno precedente in Partito democratico della sinistra (PDS), aveva perso una buona fetta di consensi in vantaggio della neonata formazione Rifondazione comunista, di stampo più estremista. Le forze politiche che avevano sostenuto l’ultimo Governo (il VII dell’On. Andreotti) – DC, PSI, PSDI e PLI – conservavano nel rinnovato Parlamento la maggioranza dei seggi solo per pochi voti. Un primo segnale di difficoltà delle stesse fu la fase di stallo che si determinò nell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, causata dalla frammentazione interna agli stessi partiti di maggioranza. Contestualmente, l’Italia si trovava nella peggiore crisi finanziaria dall’epoca della ricostruzione ed era gravemente colpita dagli attentati mafiosi. In tale contesto di incapacità delle forze politiche di addivenire a una soluzione condivisa, maturò la decisione di scegliere come Capo dello Stato una figura “istituzionale”, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, appena eletto Presidente della Camera.
Il Presidente Scalfaro si trovò quindi ad affrontare una realtà composta da «governi deboli, maggioranze politiche risicate o di difficile gestione, parlamenti scalfiti nel proprio prestigio dalle accuse di corruzione» e «una nuova generazione di leader politici»10 e, quindi, presto, in un periodo
di grave e drammatica crisi della politica e del Paese, divenne, grazie anche ai mezzi di informazione, una sorta di “ancora di salvezza”11. Negli anni della “transizione”12, in un contesto di disgregazione
dei partiti che, sia pure con formule politiche diverse, avevano ininterrottamente governato l’Italia dal dopoguerra, ebbe un buon margine di discrezionalità nella formazione degli Esecutivi, nonché nel controllo sulle politiche da essi adottate.
Procedendo con ordine, dopo le elezioni dell’aprile 1992 occorreva, nel contesto politico e socio- economico anzidetto, procedere alla formazione del nuovo Governo. Nel giugno, Bettino Craxi, che prima delle elezioni era indicato come probabile nuovo Presidente del Consiglio, dopo aver visto tramontare la possibilità di ricevere l’incarico, a causa della difficoltà di coagulare attorno a sé una maggioranza – difficoltà derivante, tra gli altri motivi, anche dalle prime rivelazioni sulle tangenti, che comportarono anche alcune riserve del Capo dello Stato sul nome del segretario del partito maggiormente colpito dai provvedimenti giudiziari13 –, per non vedere sfumare un Esecutivo a guida
socialista propose una terna di nomi (in ordine alfabetico e di preferenza): Giuliano Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli14.
Il Capo dello Stato scelse il primo perché ne stimava la competenza e la serietà ed ebbe altresì un ruolo rilevante nella formazione della compagine ministeriale, nonché nella definizione degli obiettivi programmatici15. L’incontro tra Scalfaro e Amato in cui quest’ultimo sciolse la riserva fu,
rispetto al passato, di lunga durata e non una mera ratifica delle decisioni prese dai partiti: fu un confronto volto a individuare le personalità che meglio avrebbero ricoperto il ruolo di Ministro secondo i criteri di competenza professionale, rotazione degli incarichi e non coinvolgimento in procedimenti giudiziari. Inoltre, molto importante fu che le indicazioni partitiche furono derubricate
10 G. Mammarella, P. Cacace, Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano, Roma-Bari, 2011,233. 11 M. Gervasoni, Le armate del presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana, Venezia, 2015, 121-122. 12 M. Tebaldi, Il Presidente della Repubblica, Bologna, 2005, 330.
13 C. Mainardis, Il ruolo del Capo dello Stato nelle crisi di governo: la prassi della presidenza Scalfaro, in Giur. cost., 1997, 2825. 14 D. Ragone, La formazione del primo governo Amato tra continuità e discontinuità, in www.federsalismi.it, 2013, 5. 15 M. Tebaldi, Il Presidente, cit., 211.
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da parametro-principe nella scelta dei nomi a semplici preferenze16. La riduzione del peso delle
consultazioni con i rappresentanti dei partiti prima di procedere alle nomine comportò quindi una maggiore autonomia dalle forze politiche e l’inserimento di una componente tecnica nella compagine governativa17, sia pure in misura non eccessiva (molti dei Ministri erano parlamentari).
Molteplici erano gli obiettivi economici urgenti: frenare l’inflazione, ridurre il deficit di bilancio, riconvertire la finanza pubblica verso i parametri di Maastricht, attuare le privatizzazioni degli enti pubblici economici. Da rilevare che il Presidente della Repubblica esercitò un ruolo non secondario nelle scelte governative; lo stesso Giuliano Amato ha raccontato che, nel contesto di debolezza dei partiti politici in cui si trovava ad operare, per le materie più strettamente politico-istituzionali18
«nacque un informale collegio, costituito dal Capo dello Stato e dai Presidenti delle due Camere, che si riunì più volte e alla cui tutela, per quelle scelte, si trovò sottoposto il Presidente del Consiglio», apprezzato dai mass media e dall’opinione pubblica, specie per il suo carattere di imparzialità19, e ha
altresì affermato che «le funzioni di supplenza esercitate dal capo dello Stato e dalla “troika” da lui costituita» erano legate alla situazione politica contingente20.
Nell’aprile 1993 il contesto era assai simile a quello dell’anno precedente: dal punto di vista economico era quanto mai necessario proseguire nell’opera di risanamento dei conti pubblici e di riqualificazione della spesa pubblica, anche in relazione alle indicazioni vincolanti del Trattato di Maastricht, nella privatizzazione degli enti pubblici economici e nella difesa della moneta, nonché impegnarsi per il rilancio dell’occupazione. Dal punto di vista politico si assisteva al continuo e inesorabile sfaldamento del sistema partitico da lunghi anni esistente, fiaccato dall’emergere degli scandali legati ai fenomeni di corruzione e dalla crescente (e conseguente) sfiducia degli elettori. Il 18 aprile i cittadini avevano manifestato tramite referendum la volontà di modificare in senso maggioritario la legge elettorale del Senato e di abolire il finanziamento pubblico ai partiti.
Il Presidente del Consiglio Amato prese atto che la volontà dei cittadini espressa tramite il voto referendario indicava un desiderio di cambiamento e discontinuità e rassegnò pertanto le dimissioni che, su richiesta del Capo dello Stato, motivò di fronte alle Camere. Il Presidente Scalfaro si preoccupò di costituire «un esecutivo di programma con un’ampia base parlamentare, ma nella scrupolosa osservanza dei confini dei poteri presidenziali»21, avendo ben presente le numerose difficoltà
politiche ed economiche del Paese. Incaricò il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi di formare, senza previamente procedere a consultazioni formali, un Esecutivo con finalità definite, tra cui la nuova legge elettorale e il risanamento delle finanze pubbliche22.
Il nuovo Governo era guidato per la prima volta nella storia repubblicana da un non parlamentare e composto da un buon numero di non parlamentari, tecnici indipendenti e di area, oltre che da esponenti delle forze politiche di maggioranza; ricomprendeva inoltre tre Ministri appartenenti al PDS e uno dei Verdi, che però si dimisero subito dopo il giuramento per protesta contro la mancata concessione da parte della Camera dei deputati dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi.
16 G. Amato, Un Governo della transizione. La mia esperienza di Presidente del Consiglio, in Quad. cost., 1994, 362; C.
Mainardis, op. cit., 2826; D. Ragone, op. cit., 11, 15-16.
17 E. Cheli, Riflessi della transizione nella forma di governo, in Quad. cost., 3, 1994, 394.
18 In cui egli ha ricompreso le seguenti scelte: delle date dei referendum, di proseguire nell’attività di governo o di
dimettersi, di cambiare qualche ministro o aprire una crisi.
19 G. Amato, op. cit., 367. 20 G. Amato, op. cit., 369-370.
21 M. Troisi, Il Governo Ciampi: un esecutivo di transizione, in www.federalismi.it, 14, 20134.
22 A. Apostoli, La XI legislatura (1992-1994). Il Governo Ciampi: un non parlamentare alla guida dell’Esecutivo, in A.
D’Andrea (cur.), Verso l’incerto bipolarismo. Il sistema parlamentare italiano nella transizione. 1987-1999, Milano, 1999, 270- 271; G. Mammarella, P. Cacace, op. cit., 265.
Per quanto riguarda il sostegno politico, si può osservare che il Governo Ciampi non scaturiva da un preciso accordo preventivo e spontaneo tra i partiti, ma che il Presidente Scalfaro con la sua scelta mirava «alla costituzione di un esecutivo non in contrapposizione ai partiti politici presenti in Parlamento – e dunque non un Governo di fiducia del Presidente – ma al di là dei partiti politici, capace cioè di ottenere la fiducia di una maggioranza parlamentare ma allo stesso tempo di connotarsi per una decisa autonomia da quelle forze politiche in evidente carenza di legittimazione»23.
Notevoli le peculiarità dal punto di vista programmatico: pochi giorni dopo la nomina e prima del voto di fiducia, il Capo dello Stato inviò a Ciampi una lettera «per evidenziare i punti programmatici di maggior rilievo che l’esecutivo appena formato avrebbe dovuto affrontare», e cioè la nuova legge elettorale, la riforma dell’immunità parlamentare e il risanamento dei conti pubblici. Non pare azzardato sostenere che tale missiva, indirizzata a un Governo già nominato, rappresentasse qualcosa in più di un’indicazione dei principali nodi programmatici con funzione di mero ausilio, e comunque, date le circostanze, essa «non aveva come obiettivo quello di agevolare l’azione di un incaricato nel tentativo di coagulare una maggioranza parlamentare, ma quello di indicare ad un Governo già nominato la piattaforma programmatica da cui partire per ottenere la fiducia delle Camere». Se è vero che le indicazioni del Capo dello Stato potevano avere la funzione di manifestare al Governo, nato senza la previa formazione di un patto di coalizione, gli orientamenti dei partiti politici, non sfugge però che assai labile è il confine tra l’esercitare un ruolo di “collegamento” tra un Esecutivo (in qualche misura tecnico) e le forze politiche e il compartecipare all’attività di indirizzo politico24.
La frattura sempre più marcata tra elettori ed eletti, resa ancora più manifesta dai risultati delle elezioni amministrative di giugno e novembre 1993, in cui si era proceduto al rinnovo di numerosi Sindaci di importanti Comuni25, per la prima volta mediante elezione diretta, e l’approvazione della
nuova legge elettorale maggioritaria, necessitata dal preciso esito del referendum dell’aprile 1993, nel gennaio 1994 spinsero alle dimissioni Ciampi, che, nonostante godesse ancora della fiducia, riteneva esaurita l’esperienza del suo Governo, essendo stati raggiunti i principali obiettivi programmatici (nuova legge elettorale maggioritaria, revisione dell’art. 68 Cost. sull’immunità parlamentare, interventi in campo economico volti al risanamento dei conti pubblici).
Il terzo Governo tecnico che si intende analizzare è quello costituitosi nel gennaio 1995 in seguito alla caduta del primo Gabinetto Berlusconi. La maggioranza di centro-destra affermatasi alle urne nella primavera del 1994, la prima eletta con il nuovo sistema elettorale maggioritario, composta in larga parte da partiti nuovi – partiti nati dalle ceneri del pentapartito dopo gli scandali di Tangentopoli (Forza Italia, CCD) o da forze politiche fino ad allora non facenti parte dell’arco costituzionale (AN), movimenti separatisti e di protesta (Lega Nord) – si era disgregata dopo poco più di sei mesi di governo.
Il Presidente Scalfaro, nonostante Forza Italia e Alleanza Nazionale invocassero lo scioglimento anticipato delle Camere, poiché ritenevano che la violazione da parte della Lega Nord del mandato popolare ricevuto comportasse la restituzione del potere di scelta al corpo elettorale, non acconsentì a tali richieste, considerando l’esercizio del potere di cui all’art. 88 Cost. un’extrema ratio, a cui ricorrere solo nel caso di impossibilità di risolvere altrimenti la crisi. Dopo due giri di consultazioni, a fine dicembre 1994 e nei primi giorni del gennaio 1995, conferì l’incarico di formare un nuovo Governo a Lamberto Dini, già Ministro del Tesoro nel Gabinetto Berlusconi e secondo Presidente del Consiglio repubblicano, dopo Ciampi, a non essere parlamentare.
23 C. Mainardis, op. cit., 2831. 24 C. Mainardis, op. cit., 2832-2834.
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In ordine alla connotazione politica del nascente Governo, occorre osservare che la scelta del Capo dello Stato non maturò «in contrapposizione alle forze politiche della ex maggioranza, al cui schieramento apparteneva l’incaricato, ma nemmeno alle altre formazioni dell’arco parlamentare – e oramai costituenti la maggioranza numerica – contrarie allo scioglimento e disponibili a valutare uomini e programmi del nascente esecutivo al fine di decidere se appoggiarlo o meno»26.
Inizialmente, nel nuovo Esecutivo era prevista una certa continuità con il Governo Berlusconi, da realizzarsi mediante la conferma di alcuni Ministri e l’inserimento di tecnici di area centro-destra, ma, in seguito, il Capo dello Stato chiese a Dini di preservare la natura super partes dell’Esecutivo, assegnando ad esponenti dei partiti al massimo cariche da sottosegretario, e di dare «segni di discontinuità» rispetto al Governo precedente, per assicurarsi la fiducia delle forze politiche che avevano manifestato la propria disponibilità27. Ed effettivamente si costituì una maggioranza inedita:
la fiducia venne accordata dal centro-sinistra e della Lega Nord, mentre il centro-destra si astenne e Rifondazione comunista votò contro.
Proprio in relazione a quanto appena detto, il Presidente Dini, affermando di essere stato scelto dal Capo dello Stato per la sua connotazione tecnica e non partitica, propose una compagine ministeriale di tecnici, cioè di «personalità svincolate dall’appartenenza a raggruppamenti politici e selezionate unicamente in base a criteri di professionalità e capacità»28: per la prima volta nessuno
dei Ministri era membro del Parlamento29. E’ opportuno rilevare che, nella formazione del Gabinetto,
Scalfaro dimostrò un particolare attivismo, che lo spinse a contattare direttamente alcune personalità per chiedere loro di accettare di assumere incarichi ministeriali30.
Gli obiettivi programmaticisu cui Dini chiese e ottenne la fiducia e al cui raggiungimento era legata la cessazione dell’esperienza governativa furono quattro, di cui due vertenti su questioni economiche: il completamento della “manovra” economico-finanziaria (già iniziata dai Governi precedenti) volta a portare alla stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL, la riforma previdenziale, la disciplina della par condicio nell’accesso dei partiti ai mezzi di comunicazione, una legge elettorale maggioritaria per le Regioni. Da notare che essi erano particolarmente cari al Presidente della Repubblica, come risulta da numerose sue dichiarazioni, anche antecedenti alla crisi. I tre gli Esecutivi fino ad ora considerati sono stati costituiti in seguito a crisi politiche risoltesi con un chiaro predominio del Presidente della Repubblica31, il quale, relativamente agli stessi,
avvalendosi di una sorta di doppia fiducia, «ha continuamente assistito la maggioranza, non solo con la propria opera di vigilanza, ma anche con consigli e suggerimenti sulle scelte da compiere tanto in riferimento alle politiche da decidere, quanto in riferimento agli uomini da preporre a questo o a quel compito»32. Non può però sostenersi che essi siano stati formati in contrapposizione ai partiti politici,
bensì, in assenza di una maggioranza precostituita, «nel tentativo di incontrare il favore della maggior parte delle forze politiche presenti in Parlamento»33: tali Esecutivi hanno comunque chiesto, e
ottenuto, la fiducia parlamentare, nel rispetto delle regole costituzionali vigenti34.
26 C. Mainardis, op. cit., 2846.
27 G. Maestri, Il governo Dini: una maggioranza “a tutti i costi”?, in www.federalismi.it, 13, 2013, 12.
28 M. Gorlani, La XII legislatura (1994-1996). Il Governo Dini: un esecutivo composto solo di non parlamentari, in A. D’Andrea
(a cura di), Verso l’incerto bipolarismo, cit., 365.
29 C. Mainardis, op. cit., 2843; G. Maestri, op. cit., 1. 30 G. Maestri, op. cit., 13.
31 M. Tebaldi, Presidenti della Repubblica e formazione del governo in Italia: una ricerca empirica, in Quad. sc. pol., 2, 2003,
365.
32 A. Baldassarre, Il Capo dello Stato, in G. Amato, A. Barbera (cur.), C. Fusaro (coll.), Manuale di diritto pubblico. II.
L’organizzazione costituzionale, Bologna, 1997, 265.
33 C. Mainardis, op. cit., 2870.
Dopo più di un decennio di Governi “politici”, non sempre retti da maggioranze omogenee e stabili, ma comunque in grado di succedersi l’uno all’altro senza una rilevante intermediazione presidenziale, la tematica degli Esecutivi “tecnici” è tornata prepotentemente alla ribalta nel 2011, anno segnato da una duplice grave crisi. Da una parte si assisteva allo sfaldamento della coalizione di centro-destra PDL–Lega Nord che, pur avendo vinto le elezioni del 2008 e ottenuto un’ampia maggioranza parlamentare, non si era dimostrata coesa al suo interno e aveva subito la fuoriuscita di Gianfranco Fini, cofondatore del PDL, e di un buon numero di parlamentari che ne condividevano le posizioni, nonché risultava fiaccata da alcuni scandali che coinvolgevano il Presidente del Consiglio Berlusconi. Dall’altra parte, si stava attraversando una fase di recessione mondiale dell’economia e di forte crisi economico-finanziaria e l’Italia doveva attuare urgenti misure, “caldamente” consigliate anche dalle istituzioni UE: risanare i conti pubblici e abbattere il debito pubblico, favorire la crescita economica e rilanciare lo sviluppo, non compromettere l’equità sociale. L’Esecutivo in carica presentava numerose difficoltà nell’affrontare queste urgenti sfide, tanto più che la maggioranza che lo sosteneva era sempre più debole e frammentata, prova ne è la mancata approvazione, da parte della Camera dei deputati, del rendiconto generale dell’Amministrazione dello Stato per l’esercizio 2010, documento equiparabile a un bilancio consuntivo che deve essere obbligatoriamente presentato dal Governo e che, per la sua natura puramente ricognitivo-contabile, non implica alcuna valutazione di merito.
Per tutti questi motivi il Presidente del Consiglio Berlusconi, pur non sfiduciato formalmente dalle Camere35, rassegnò le dimissioni che, in modo assai inusuale, furono preannunciate da un
comunicato del Quirinale. Non è qui la sede per ripercorrere le vicende che hanno portato alle dimissioni del IV Gabinetto Berlusconi; basti ricordare che su di esse è ancora acceso il dibattito tra chi ritiene che si sia verificata una forzatura da parte del Capo dello Stato e delle istituzioni europee per sostituire un Governo democraticamente legittimato e chi ritiene che l’eccezionalità della crisi abbia giustificato una soluzione che si è comunque realizzata nel rispetto del dettato costituzionale. Certo è che Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica all’epoca in carica, ritenendo necessario «dar vita a un governo che possa unire forze politiche diverse in uno sforzo straordinario che l’attuale emergenza finanziaria ed economica esige» e operare «per il bene comune, facendo uscire il paese dalla fase più acuta della crisi finanziaria»36, si impegnò in prima persona a trovare
una soluzione alla crisi e individuò Mario Monti – docente all’Università Bocconi ed economista di chiara fama, molto stimato all’estero, già Commissario europeo per due mandati con deleghe economicamente significative – come la persona più adatta per guidare un Governo in grado di coagulare attorno a sé un vasto sostegno politico e di affrontare le urgenze economiche del Paese. Per la seconda volta nella storia della Repubblica, nessuno dei Ministri nominati era membro del Parlamento né apparteneva in modo organico a un partito, bensì furono scelte personalità principalmente provenienti dal mondo accademico e dall’alta amministrazione pubblica; i portafogli furono assegnati in base alle competenze tecnico-professionali.
Dal punto di vista della connotazione politica il nuovo Esecutivo era assai peculiare: ricevette la fiducia iniziale dalla quasi totalità delle forze politiche, tutte fuorché la Lega Nord, ma non aveva un programma ben definito37, o meglio, il suo scopo era quello, delineato dal Presidente Napolitano, di
compiere «scelte urgenti di consolidamento della nostra situazione finanziaria e di miglioramento