• Non ci sono risultati.

Marco Marchetti, Aldo Castellazzi & Oreste Zecca ASL Sondrio, Italia

Nell’arco alpino esiste una realtà produttiva casearia estremamente peculiare, quella della Provincia di Sondrio, legata all’esclusiva produzione di un formaggio che può essere stagionato finanche dieci anni e dove, di sovente, il latte viene lavorato caldo appena munto direttamente sul posto. Inoltre, questa provincia, ha il maggiore numero di laboratori di trasformazione attivi e produttivi del latte crudo (bovino e caprino), siti in alpeggio, della Regione Lombardia, pari a oltre 150 impianti. Solo vent’anni fa erano però sei volte più numerosi; nel corso del Workshop gli autori hanno affrontato gli aspetti scientifici, culturali, economici, sociali, imprenditoriali e turistici di maggiore rilevanza, che vengono ritenuti, dagli autori stessi, capaci di sensibilizzare ed interessare la politica ed i portatori di interesse tutti al fine di fermare questo declino che appare inesorabile.

Sono anche stati presentati i risultati dell’attività di Controllo Ufficiale e della vigilanza veterinaria negli anni 2012-2014 per promuovere una forte interazione ed il dialogo tra tutti gli operatori del settore. Forte enfasi è stata posta sulla necessità assoluta di preservare le modalità produttive secolari e tradizionali dei formaggi alpini tipici nel rigoroso rispetto della normativa comunitaria e nazionale vigente in materia di Sicurezza Alimentare.

Si è voluto dimostrare che è possibile e doveroso seguitare a produrre in alpeggio latticini di elevata qualità organolettica secondo le tecniche tramandate nel corso dei secoli da generazione a generazione assicurando, nello stesso tempo, la salute e la Sicurezza Alimentare al consumatore. Non da ultimo si è ritenuto anche che, se si vogliano davvero presidiare e proteggere “le montagne” della Valtellina e della Valchiavenna salvaguardandone il territorio, i pascoli, le attività proprie dell’uomo e le tradizioni centenarie delle popolazioni valtellinesi bisogna garantire agli stessi che operano “in montagna” condizioni di vita e di sussistenza idonee e confacenti agli anni correnti. Si può e si deve vivere e produrre in alpeggio nel conforto che le moderne conoscenze culturali, tecnologiche e sociali dell’era moderna consentono e garantiscono a tutta la popolazione del paese.

Infine, a fronte delle sempre più ridotte risorse economiche disponibili, si vuole porre l’accento sull’inderogabile necessità che tali mezzi finanziari siano utilizzati correttamente ed in modo mirato su ambiti veramente efficaci.

Una sostenibilità ambientale «credibile» per la zootecnia alpina

Alberto Tamburini, Università di Milano

Nella attuale situazione economica della zootecnia in generale e di quella di montagna in particolare, i punti di forza che questa attività produttiva hanno ancora più valore e interesse. La tipicità, la caratterizzazione e la qualità delle produzioni animali in montagna sono aspetti storicamente salienti, ma non dobbiamo dimenticare la capacità di conservazione del territorio e della biodiversità vegetale ed animale che gli allevamenti posseggono. Inoltre altre funzioni importantissime sono quelle relative al controllo del bosco, come antidoto al degrado territoriale e come conservazione del patrimonio culturale e alimentare caratterizzante l’ambiente montano. È riconosciuto generalmente dal pubblico e dal consumatore un notevole senso positivo dell’allevamento in ambito montano, ma spesso tale riconoscimento non è sostenuto da una redditività maggiore rispetto agli allevamenti di pianura.

D’altro canto i punti più critici degli allevamenti montani nell’arco alpino sono da ricondurre ai maggiori costi di produzione e ai bassi o insufficienti ricavi dalla vendita del latte rispetto agli allevamenti di pianura. Inoltre la superficie agricola insufficiente per la produzione di foraggi e concentrati e la conseguente scarsa autosufficienza alimentare portano molti allevamenti a tentare di migliorare la

propria situazione sia aumentando i carichi animali, sia copiando i sistemi produttivi tipici della pianura. Ciò porta tendenzialmente ad elevare l’impatto ambientale degli allevamenti di montagna e a non considerare un ottimale benessere degli animali. Generalmente i mezzi che le aziende zootecniche di montagna adottano sono l’abbandono delle razze tradizionali verso razze specializzate o ad alta produzione, la sostituzione del prato stabile con altre foraggere più produttive (tra cui, laddove sia possibile, nei fondovalle alpini, il mais da trinciato), il forte aumento degli alimenti acquistati dall’esterno delle aree montane e una tendenza forte all’abbandono della pratica dell’alpeggio, almeno per gli animali ad alta produzione.

Dal punto di vista dell’impatto ambientale, oltre ai noti problemi legati ai nitrati, ovvero della presenza di surplus di azoto eccessivi in certe zone rispetto ad altre (con il paradosso che negli alpeggi il sottocaricamento animale non chiude i cicli dei nutrienti e non contiene la crescita degli arbusti, con la conseguente modificazione florisitica dei cotici), altre criticità emergenti sono legate al consumo di risorse non rinnovabili (derivate dal petrolio), al consumo di materie prime provenienti da sistemi di coltivazioni impattanti e da luoghi molto lontani che peggiorano la produzione di gas serra totali, e alla minore efficienza di trasformazione degli animali allevati in modo estensivo che producono quantitativi di sostanze inquinanti (soprattutto gas serra ed acidificanti) maggiori rispetto ad animali più produttivi ed efficienti.

La situazione degli allevamenti di montagna appare diversificata nelle tre aree dell’arco alpino prese in considerazione. In particolare in Piemonte e Valle d’Aosta si nota una debolissima contrazione di capi bovini allevati, anche se si concentrano in aziende che ospitano più animali. A fronte di più del 50% delle aziende che monticano animali in alpeggi estivi, si nota un aumento dei capi bovini negli ultimi 20 anni. In queste aree si è mantenuto quindi molto importante e rilevante il pascolamento come strumento fondamentale nella gestione alimentare aziendale, ma inserito in un contesto di pianificazione pastorale particolarmente attenta anche per gli aspetti di conservazione degli habitat tipici alpini e per la produzione di formaggi tipici locali (non solo per la Fontina DOP) oltre che per la salvaguardia di molte razze bovine, caprine e ovine locali (tra i tanti esempi la Frabosana- Roaschina e la Sambucana) che a loro volta sono legate a produzioni casearie storiche e di pregio qualitativo.

superfici a prato che mediamente hanno perso il 20%, con punte in Friuli-Venezia-Giulia del -60% non convertiti in altri settori produttivi agricoli, ma abbandonati.

Al contrario delle Alpi occidentali, qui le produzioni DOP (Asiago e Montasio su tutti) non hanno puntato a una forte caratterizzazione territoriale o produttiva, come la scelta di non avere particolari vincoli sulla tipologia di foraggi, sulla razza allevata o sui sistemi di allevamento. Paiono quindi interessanti i primi tentativi di sviluppare produzioni di Montasio solo con latte di bovine Pezzate Rosse, che non casualmente una volta erano chiamate “friulane”. Sul fronte dell’allevamento bovino da carne nelle Alpi orientali appare infine molto promettente il progetto per la valorizzazione del vitello biologico di razza Rendena. Tale esperimento parte da un semplice disciplinare di produzione che leghi l’allevatore di Rendena da latte ancor di più alla valorizzazione della propria razza, ma si spinge verso il tentativo di elevare la sostenibilità economica, poiché coinvolge il notevole interesse commerciale di tale produzione, con particolare riguardo alla ristorazione collettiva, alla diversificazione della produzione in aziende biologiche, e nella vendita diretta con accorciamento della filiera (spaccio aziendale, agriturismo, gruppi di acquisto).

Nell’ovest delle Alpi possiamo indicare alcune tipologie di allevatori, che si differenziano ma che raccontano di percorsi molto diversi tra loro. Troviamo l’allevatore tradizionale fatto di piccole realtà, con pochi capi allevati ma con una elevata identità territoriale, che subiscono una accettabilità e sostenibilità sociale medio-bassa, ma portano avanti una sostenibilità ambientale elevata e fanno scelte di “fierezza” produttiva (come il Macagn, il Plaisentif, il Nostrale) o formaggi legati alla razza allevata (come la Fontina). Si trovano molti allevatori di ritorno, che ri-territorializzano aree abbandonate, con una forte scelta di riutilizzo di razze bovine autoctone, spesso a duplice attitudine (vecchi ceppi, Bruna “alpina”, Piemontese da latte). Infine abbiamo allevatori da “neoruralismo”, con una sostenibilità sociale medio-alta (con tendenza ad una crescita) e una sostenibilità ambientale elevata, anche se la sostenibilità economica risulta ancora insufficiente e sarebbe da favorire. In questi casi vi è un frequente ritorno alle razze autoctone (spesso ovi-caprini) che mostrano caratteri di bassa produttività, ma buona longevità degli animali ed un tendente buon livello di benessere animale.

La situazione delle Alpi orientali invece vede tra il 1990 e il 2010 una notevole concentrazione di capi nelle aziende, sia bovini che ovi-caprini, con una fortissima perdita di aziende piccole (-50% per i bovini, -23% per gli ovini e -30% per i caprini). Questa particolare perdita produttiva ha inciso molto sulle

Workshop 4-12

Outline

Documenti correlati