45 anni fa Sherry Arnstein presentò la sua “scala della partecipazione dei cittadini” (Arnstein, 1969). Oggi, la partecipazione è una parte quasi imprescindibile della letteratura scientifica, di conferenze e riunioni, documenti e progetti strategici. Uno dei principali obiettivi del ForumAlpinum è promuovere il “dialogo tra scienza e società (politica e prassi)”; in quanto tale, il tema della partecipazione è stato affrontato ripetutamente e sempre più di frequente nella ventennale storia del ForumAlpinum. Al primo evento del ForumAlpinum a Disentis, Svizzera, nel 1994, una presentazione ha osservato un cambiamento nelle reazioni dei cittadini. Dieci anni più tardi, nel 2004 a Kranjska Gora, è stato dedicato un workshop alla cooperazione quale elemento chiave di uno sviluppo sostenibile. Nel 2007 una sessione plenaria e i successivi workshop hanno discusso della cooperazione e del processo decisionale nella gestione del paesaggio. Da quel punto in poi è stato difficile persino separare le tematiche della partecipazione da altre discussioni, dato che la partecipazione ora è solidamente integrata in quasi tutte le sedute. Questa evoluzione segue lo sviluppo del paradigma partecipatorio. Le discussioni teoriche sulla partecipazione a riunioni come quelle del ForumAlpinum sono quindi superflue? La risposta potrebbe essere affermativa: sappiamo già tutto al riguardo, dobbiamo solo metterlo in pratica. Tuttavia, benché abbiamo
maturato un’ampia esperienza pratica e amiamo dichiarare la nostra dedizione verso approcci partecipativi, sono ancora difficili da trovare esempi di “vera” partecipazione. I motivi di questo stato di cose sono state individuati e discussi in passato (ad es. Chess e Purcell 1999, Buchecker et al., 2003, Černič- Mali e Golobič 2005, Golobič et al., 2007). Abbiamo raggiunto i limiti della capacità partecipativa delle nostre società? Oppure è necessaria una maggiore partecipazione per ampliare questi limiti? Senza tentare di rispondere a questa domanda, qui focalizzerò l’attenzione su alcune problematiche che ritengo siano molto rilevanti per una riflessione critica sulla partecipazione.
La prima sfida a un processo partecipatorio produttivo è costituita dall’atteggiamento dei responsabili (politici, scienziati, pianificatori ecc.). Benché si riscontri un sostegno generalmente diffuso a un processo partecipativo a livello di dichiarazioni, i responsabili spesso nutrono riserve relative all’effettivo valore del coinvolgimento dei soggetti interessati. Tali riserve derivano da un atteggiamento del tipo “io sono un esperto, loro no” che mette in discussione la validità delle conoscenze possedute dai partecipanti “meno informati”. Tali atteggiamenti si possono suddividere più o meno in 4 gruppi distinti (figura 1). L’ipotesi di fondo dei primi due gruppi è che i non addetti ai lavori non possiedano le conoscenze specifiche
necessarie per dare un valido contributo. Questo produce due atteggiamenti diversi: uno “artistico” e uno “istruttivo”. Gli “artisti” non hanno bisogno di spiegare le proprie decisioni e la loro validità deriva dalla loro autorevolezza personale (o istituzionale). Gli “educatori”, d’altro canto, ricercano il consenso del pubblico ma si aspettano di ottenerlo dopo che il pubblico è stato ben istruito sulla “cosa giusta” da fare. Gli educatori credono nella cosiddetta “riparazione cognitiva”.
Le altre due “personalità” decisionali accettano il fatto che la conoscenza dei non addetti ai lavori è rilevante, ma reagiscono in modo diverso. Il comportamento “al servizio del cliente” presuppone che vi sia un solo Cliente i cui desideri devono essere esauditi a spese degli altri. Soltanto il quarto tipo di atteggiamento, che guarda al processo decisionale/pianificatore in un’ottica di progetto comune, consente l’approccio partecipativo. Questa in pratica è una posizione rara perché i decisori spesso la considerano una posizione pericolosa e una minaccia per la propria identità professionale. Molti processi “partecipativi” non riescono ad esprimere tutte le loro potenzialità perché uno o più partecipanti chiave adottano uno dei primi tre atteggiamenti.
Per quanto riguarda il pubblico, una delle maggiori preoccupazioni è costituita dalla legittimità di coloro che pretendono di rappresentarlo. Di solito si presuppone (talvolta erroneamente) che i gruppi della società civile e le ONG rappresentino adeguatamente l’«interesse generale» o gli abitanti del luogo; in quanto tali, questi gruppi godono di un alto livello di legittimità (Valaskakis, 2001).
Rispetto alla rappresentazione politica, tuttavia, il funzionamento del settore non governativo è notevolmente meno regolamentato. Pertanto la trasparenza non è garantita ed eventuali programmi occulti (politici, finanziari o di altro genere) sono difficili da scoprire (Voogd in Woltjer, 1999).
Un altro fenomeno sempre più comune è il sovraccarico di partecipazione, o affaticamento. Diverse tipologie di workshop sono diventate un approccio popolare tra i leader dello sviluppo delle politiche, nei processi di programmazione e di attuazione dei progetti, in quanto aumentano la legittimità del risultato. Nei loro ruoli professionali o personali, le persone sono coinvolte di frequente in questo tipo di eventi. Tuttavia, tendono a investire il loro tempo e le loro energie con grande cautela; se non sono direttamente interessati da una tematica, oppure se ritengono che la loro partecipazione non produca risultati, si disinteresseranno presto del processo di partecipazione. Un adeguato feedback e prassi di attuazione trasparenti sono fondamentali per garantire una partecipazione impegnata a lungo termine.
Infine, potremmo domandarci se esistono situazioni nelle quali la partecipazione è controproducente. Esistono argomenti circa i quali non bisognerebbe chiedere un parere alla gente? Esistono situazioni che richiedono decisioni in cui un approccio partecipativo produce risultati troppo tardivi o persino “sbagliati”? Per le decisioni che riguardano la sicurezza (guerre, disastri naturali) o i diritti delle minoranze (sottorappresentazione), un approccio partecipativo può effettivamente essere controproducente o persino nocivo. Vi sono
Figura 1: Diversi atteggiamenti dei responsabili verso la validità del sapere dei non addetti ai lavori.
Attitude of those in charge
People do know
Client’s service Educator
Artist
I know, people do not
momenti in cui è necessario pensare in modo strategico o visionario. In questo tipo di situazioni, i lenti compromessi della soluzione collettiva dei problemi possono ostacolare la nostra capacità di conseguire una soluzione creativa e coraggiosa. Quando il motivo del dissenso è rappresentato da interessi o da valori divergenti (come avviene il più delle volte), allora sì che è necessaria la partecipazione. Ma abbiamo anche bisogno che i decisori si assumano la loro fetta di responsabilità per le decisioni nell’interesse di tutti.
Riferimenti
• Arnstein S. R. 1969. A ladder of citizen participation, Journal of the American Insti- tute of Planners 35/4 pp. 216-224
• Buchecker M., Hunziker M., Kienast F., 2003. Participatory landscape development: overcoming social barriers to public involvement. Landscape and Urban Planning 64 pp. 29–46
• Chess C., Purcell K., 1999. Public Participation and the Environment: Do We Know What Works? Environmental Science & Technology 33/16, pp. 2685 – 2692 • Golobič, M., Pfefferkorn, W., Praper, S. 2007. New forms of decision making for
sustainability. Urbani izziv 18, 1/2, pp. 131-136
• Golobič, M., Černič Mali, B. 2005. The Alps in 2020 : The view of the locals. V: Pfefferkorn, W., Egli, H.R., Massarutto, A. (eds.). Regional development and cultural landscape change in the Alps: From analysis and scenarios to policy recommen- dations, (Geographica Bernesia, Series G, Basic research, 74). Bern: University of Berne, Institute of Geography, pp. 95-112.
• Valaskakis T. 2001. Long-term trends in Global Governance: from »Westphalia« to »Seattle«, In: Governance in the 21st century, OECD, Paris.
• Voogd H., Woltjer J., 1999, The communicative ideology in spatial planning: some critical reflections based on the Dutch experience, Environment and planning B, 26, pp. 835-854