5 Come integrare? La terza fase negoziale: da Parigi a Roma
6.1 Temi di ricapitolazione
Prima dell’enunciazione di Atoms for Peace, i disegni nazionali per la crescita del nucleare civile sul continente europeo procedettero in modo estremamente diversificato. Ogni nazione aveva identificato le proprie necessità energetiche ed in base ad esse ed alle considerazioni tecniche provenienti dalle comunità scientifiche, si apprestava a realizzare un piano di sviluppo. Gli statunitensi, invece, leader indiscussi del settore, avevano difficoltà a gestire la complessa rete di contatti bilaterali con tutti gli attori sulla scena, non riuscendo a ricondurre tutte le negoziazioni all’interno di un unico disegno strategicamente rilevante. Gli accordi di Parigi avevano risolto il problema della sovranità nazionale della Germania Federale, del suo riarmo e del suo ingresso nella NATO solo nell’immediato. Essi, in termini prospettici, avrebbero dovuto essere parte di un più ampio sistema di misure internazionali per controllare il rischio-‐proliferazione legato alla ricostruzione tedesca; un impianto legislativo che a scapito di tanti sforzi diplomatici non giunse mai. La loro formulazione era il limite principale: essi non erano sufficientemente dettagliati da garantire un controllo pervasivo su tutto il settore industriale tedesco. Anche rispetto alla Francia questi accordi erano largamente deficitari: gli statunitensi compresero rapidamente che controllare la crescita nucleare dei propri alleati sarebbe stato molto più complesso di quanto avevano previsto e che la stessa UEO non fosse uno strumento abbastanza efficace a questo scopo. Il fallimento della CED, infine, aveva mostrato al Dipartimento di Stato quanto fosse difficile “condizionare” le politiche nazionali dei propri alleati: bisognava evitare di minacciarli apertamente, ricorrendo al “soft power” nelle occasioni in cui la minaccia era poco credibile.
L’offerta di Monnet, Spaak e Beyen di integrare orizzontalmente il settore nucleare civile sul continente europeo fu dunque accolta con grande favore dal Dipartimento di Stato. Non è possibile, ad oggi, definire in che misura essa fosse stata “indotta” dagli stessi statunitensi all’Inspirateur: tuttavia essa si innestava perfettamente nei progetti americani di integrazione sovranazionale regionale e
rispondeva alle esigenze strategiche dettate dalla teoria del “double containment”. Allo stesso tempo, per gli europei, l’appoggio tecnologico americano era estremamente allettante: esso avrebbe consentito di aver accesso a ulteriori fondi per la ricostruzione, sviluppando una tecnologia estremamente promettente, capace di fornire energia a basso costo che avrebbe consentito di svincolarsi dalla dipendenza dagli idrocarburi mediorientali. Il Rapporto Armand rappresentò dunque una chiave di volta nel rapporto atlantico: attraverso quel canale sarebbe stato possibile convogliare tutte le richieste e le necessità europee all’interno di un unico piano continentale: gli europei, oltre ai benefici derivanti dalle economie di scala di un progetto integrato, avrebbero beneficiato anche di un “trattamento preferenziale” da parte degli USA. Questo trattamento avrebbe comportato l’accesso per gli europei a maggiori risorse finanziarie oltre che l’attivazione di un numero maggiore di canali tecnico scientifici a supporto del loro sforzo di crescita. Tuttavia l’offerta americana non fu, almeno inizialmente, priva di ombre per gli europei. Il sistema rigido che questi avevano architettato, dipanandosi tra IAEA, EURATOM e rapporti bilaterali, rappresentava un chiaro limite alle aspirazioni di crescita militare nazionali. Accettare i finanziamenti, le tecnologie ed i combustibili fissili americani significava di fatto rinunciare allo status di potenza nucleare. Non poter sviluppare dei reattori utilizzando tecnologie proprie, essere obbligati all’acquisto di materiali fissili americani e a non impegnarsi a realizzare un proprio centro di separazione isotopica era per qualcuno tra i Sei un prezzo troppo alto da pagare.
I malumori dei Sei non tardarono dunque a palesarsi. Anche per Dulles e Monnet e le loro indiscusse capacità di mediazione, far accettare agli europei la rinuncia allo status nucleare mentre Gran Bretagna, USA e URSS continuavano ad accrescere i loro arsenali era una missione impossibile. Ciò che era possibile, invece, secondo il Dipartimento di Stato, era invece “prevenire, limitare e ritardare” il raggiungimento dello status atomico con altri mezzi: il compromesso Spaak e l’appoggio che gli americani offrirono alla proposta di moratoria sullo sviluppo di un programma militare erano figli proprio di questa visione. Una visione molto più ristretta del Baruch Plan presentato dieci anni prima, che si concentrava totalmente sul controllo assoluto del ciclo del combustibile. Per Dulles
era infatti fondamentale che l’EURATOM avesse un monopolio pressoché totale degli approvvigionamenti: per far ciò era necessaria un’autorità sovranazionale che gestisse il ciclo del combustibile all’interno degli Stati. Solo così si sarebbe riusciti a sottoporre l’intero ciclo del combustibile in Germania al controllo di un’autorità sovranazionale, limitando i rischi di una sua proliferazione. Una simile misura avrebbe anche posto non poche difficoltà alle intenzioni francesi di perseguire un programma militare; essa per giunta sarebbe stata osteggiata anche dalle richieste tedesche di “minimum equality” che gli statunitensi avrebbero supportato a rinforzo del loro disegno più generale.
Con la Conferenza di Venezia e il dibattito nell’Assemblea Nazionale Francese la questione EURATOM raggiunse un punto di snodo cruciale. La conditio sine qua non per ottenere la ratifica francese di EURATOM passava dall’ottenimento della libertà d’azione nel procurarsi una significativa opzione nucleare militare nazionale: raggiunta quest’ultima, il parlamento avrebbe dato il via libera a procedere anche con il Mercato Comune, purchè poche basilari condizioni fossero rispettate. A partire dunque da quei due eventi, Francia e Germania poterono efficacemente procedere all’elaborazione di strategie negoziali compiute: strategie che tuttavia, non furono mai parallele, in quanto la delegazione francese credeva che EURATOM andasse finalizzata ed archiviata subito, mentre il Mercato Comune, vuoi per la complessità delle trattative o per guadagnar tempo, fosse da relegare ad un secondo momento. Il disimpegno inglese e la grande reticenza mostrata del Regno Unito nell’aderire al disegno integrativo proposto ai britannici da francesi e tedeschi, fecero sì che la trattativa si velocizzasse e che gli stessi USA guardassero ad essa con nuovi occhi, viste le buone prospettive di successo. Successo che, nell’immediatezza del dibattito in Assemblea Nazionale era tutt’altro che scontato: la moratoria che l’Assemblea Nazionale aveva approvato non era un reale stop all’opzione militare francese e non corrispondeva alla moratoria sovranazionale proposta da Dulles e Spaak ai francesi. I rischi di un abbandono americano di EURATOM furono dunque rischi reali: solamente un cambiamento di prospettiva interno al Dipartimento di Stato, il cosiddetto “New Approach”, favorito anche da Monnet e dal suo Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa, fece sì che gli americani non abbandonassero il progetto al suo destino.
Asse portante della trattativa franco-‐tedesca fu sicuramente il progetto di cooperazione militare sugli armamenti, che si sarebbe concretizzato successivamente con la stipula del patto di Colomb-‐Bechàr. Esso fu la chiave di volta nelle negoziazioni che portarono al compromesso Adenauer-‐Mollet, dal quale poi sarebbe scaturita la bozza finale che le delegazioni avrebbero approvato facendo nascere EURATOM. Gli USA, pur essendo al corrente di questo accordo, non fecero tentativi di sabotarlo in quanto esso era visto come funzionale al buon esito delle negoziazioni su EURATOM e sul Mercato Comune. Non è chiaro, invece, se gli americani fossero a conoscenza dei dettagli dell’accordo, principalmente in merito alla trattative che si svolsero per realizzare un piano militare comune. Con la caduta di ogni reticenza francese in merito allo Junktim nell’autunno 1956 le chances di raggiungere un Mercato Comune in tempi rapidi aumentarono notevolmente: sarebbe stato possibile chiudere i due trattati insieme, senza per questo ritardare il cammino di EURATOM. L’enunciazione, successiva al compromesso del Matignon, di una nuova politica di fornitura da parte di Eisenhower, sembrò per qualche mese sparigliare di nuovo le carte. I Sei, che tanto stavano investendo sulle trattative multilaterali, pur di non perdere tempo nell’accaparrarsi plutonio a basso costo, cercarono di attivare trattative bilaterali per entrarne in possesso subito, senza attendere gli esiti della trattativa su EURATOM. Dulles ed il Dipartimento di Stato, tuttavia, fermarono sul nascere ogni tendenza bilaterale ed utilizzarono l’offerta di combustibile a basso costo come una sorta di incentivo affinchè gli europei si muovessero su posizioni negoziali più gradite a quelle suggerite dagli USA. La complessa questione del possesso e dell’autorità sul combustibile fissile è da inserirsi proprio all’interno di questo quadro: fu dunque la pressione americana a far sì che Adenauer abbandonasse ogni reticenza alla gestione sovranazionale del combustibile fissile e esercitasse un’azione di freno contro la fronda interna anti-‐integrazionista guidata da Strauss ed Ehrard. L’esito di queste pressioni si concretizzò in una totale rinuncia tedesca al principio di “minimum equality” : durante il gennaio del 1957 il governo tedesco decideva di accettare il controllo di EURATOM su tutti i combustibili fissili tedeschi, rinunciando anche ai principi di uguaglianza dei controlli e parità nello scambio di informazioni. Il programma nucleare militare francese, dunque,
sarebbe stato di pertinenza esclusiva dei Francesi, i quali avevano il pieno diritto di determinare quale fosse la linea di demarcazione tra applicazioni militari e applicazioni civili. In cambio, tuttavia, grazie agli accordi di Colomb-‐Bechar, Adenauer avrebbe ottenuto la possibilità di accedere ad una futura opzione nucleare. La marcia indietro francese nel riconoscere ad EURATOM il pieno controllo sui combustibili fissili, dopo aver sostenuto a lungo un simile principio, fu un altro punto di potenziale fallimento della trattativa. Gli Statunitensi avevano lottato a lungo per fare accettare un simile principio ai tedeschi e, se i falchi avessero prevalso, avrebbero fatto pressioni anche sulla Francia affinché un simile esito fosse realizzato. Tuttavia all’interno del Dipartimento di Stato prevalsero le colombe: tra Dulles ed i suoi consiglieri era forte il timore che ad un passo dalla chiusura della trattativa si potesse nuovamente incorrere in un fallimento, come era stata la CED. Dulles, pur di evitare un simile esito decise una linea di “soft power” perfettamente in linea con il “new approach” già proposto dai suoi consiglieri. Non ci fu dunque un ultimatum alla Francia, poiché tutti, Eisenhower compreso, credevano fosse impossibile indurre i Francesi a fare marcia indietro sull’opzione militare nazionale. Era tuttavia possibile controllare e rallentare i passi in avanti che la Francia avrebbe potuto fare utilizzando EURATOM come contesto di pressione. La formula che fuoriuscì dal compromesso Adenauer-‐Mollet andava dunque accolta con favore dagli Stati Uniti, poiché seppur nebulosa e poco chiara, era il migliore degli esiti possibili in quel determinato momento storico. Del resto, gli americani, grazie alla gestione dei brevetti sull’arricchimento avrebbero ancora a lungo continuato a controllare l’intera filiera nucleare, potendo, qualora fosse stato loro interesse, bloccare i flussi di combustibile a loro piacimento. La periodica minaccia di un ritorno al bilateralismo, dunque, veniva utilizzata dagli americani come mezzo per esercitare pressione sugli alleati: gestendo i flussi di combustibile erano gli USA a gestire il futuro di EURATOM. Qualora questi ultimi si fossero opposti o non avessero voluto collaborare, EURATOM sarebbe immediatamente fallita.