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6. Salman Rushdie (e) il comico

6.3. La critica e il comico rushdiano

6.3.1. Strategie comiche: tra satira e parodia

Come abbiamo visto (sez. 6.1.2), Fletcher (1994a) propone una lista di tecniche narrative e stilistiche con cui Rushdie porta avanti il suo discorso ideologico-politico; molte di queste tecniche hanno direttamente a che fare con il riso, e una sezione di questa elencazione è in particolare dedicata alle strategie satiriche (come accennato, però, non vi saranno approfondimenti di sorta).

Già l’uso non convenzionale della lingua inglese, Fletcher nota, può avere conseguenze comiche: “Rushdie undertakes the “chutnification” of English, or the creation of a hybrid language to “de- colonize” English (Rushdie’s own term) or disarm it through ironical use” (4).

Il suo stile è costantemente carnevalesco, e sottolinea Fletcher che non si tratta di un concetto esclusivamente occidentale: l’India ha una sua tradizione di feste con simili connotazioni. C’è costante uso di satira e parodia, distinguibili dal punto di vista dei loro referenti o bersagli: la prima rimanda direttamente al mondo “reale”, la seconda ad altri testi; la distinzione si fa alquanto problematica se però i confini tra storia e testo non rimangono così netti. E spesso i romanzi di Rushdie fanno capire come la storia sia sempre un testo, e come i testi possano fare la storia.

Il che ci conduce all’uso dell’intertestualità, sfruttata spesso con intenti parodistici, anche se molte opere vengono richiamate più per puro piacere, celebrazione o tributo. Sostiene questa tesi, ad esempio, Merivale (1994) a proposito dei rapporti con Il Tamburo di Latta di Grass, nei confronti di cui non ci sono tracce di critica o satira: “His mimicry seems, rather, to be a celebration” (95). Celebrazione che si esplica anche, nel contesto della “aesthetic of abundance” (91) di cui si è parlato in precedenza, attraverso non semplici citazioni ma con la duplicazione degli episodi paralleli (i vari episodi ispirati al romanzo tedesco vengono messi in scena non una ma più volte).

Lo stesso si può affermare per i rimandi a Sterne (cfr. in particolare Wilson 1994), a Marquez (Brennan 1989) e a Le Mille e Una Notte (Batty 1994), di cui Midnight’s Children, nella messa in scena del rapporto tra narratore e narratario (Saleem e Padma), è una parodia tragicomica. Potremmo riprendere la definizione di Hutcheon (1985) secondo cui “parody […] is a form of imitation, but imitation characterized by ironic inversion, not always at the expense of the parodied text” (6): il bersaglio è il mondo referenziale, più che il testo citato, in una sorta di uso satirico della parodia. Si vuol mostrare come gli abitanti del mondo indo-pakistano contemporaneo non siano all’altezza del trattamento che altri personaggi potevano ricevere altrove nel tempo o nello spazio (è soprattutto il caso di Shame e del suo rapporto con la tragedia elisabettiana, come abbiamo visto).

Safer (1989) parla, a proposito di alcuni romanzi americani contemporanei leggibili come epico- comici, di un metodo allusivo usato per operare una “ironic deflation” (26): si creano dei paralleli, delle corrispondenze, che però non reggono all’esame del lettore. Anche Fletcher (1994a) pare essere di questo parere, e cita varie modalità di questa “parodia satirica”: l’evocazione del mito per minare la pretese agiografiche dei politici contemporanei (cfr. anche Brennan 1989); l’impietoso confronto tra gli eroi antichi e i pagliacci odierni, che soprattutto in Shame funziona come meccanismo strutturante del testo; l’uso dell’onomastica, con nomi roboanti assegnati a personaggi che se ne rivelano invece indegni. Fletcher cita i casi di Omar Khayyám, che a differenza dell’omonimo poeta persiano non compone un verso, o di Iskander (versione araba di Alessandro) che risulta tutt’altro che Magno (1994a:14).

Questo tipo di tecnica presenta un problema di cui parleremo diffusamente in seguito in riferimento ai due uditori a cui i romanzi di Rushdie sono indirizzati. I giochi onomastico-linguistici non sempre infatti sono comprensibili al pubblico occidentale (a dispetto di chi sostiene che tutto il contesto orientale sia iperchiarificato, come Trivedi 1999). Parameswaran (1988) cita casi come quello di alcuni generali che compaiono in Shame i cui nomi, Raddi, Bekar e Phisaddi significano rispettivamente “sporco”, “inutile” e “ritardatario”. La stessa operazione può riguardare anche la commistione tra inglese e nomi arabi o indiani: Sufiya Zinobia, per esempio, che contiene in sé la bella e la bestia, da sposata è Shakil Hyder, con forte assonanza con Jekyll e Hyde (cfr. anche Booker 1994:239).

Per tornare all’intertestualità, non meraviglia che le vere e proprie demistificazioni parodistiche siano dirette invece a quei testi contornati da pretese di alto rango: i testi sacri, che siano religiosi, storici o letterari. Si veda il trattamento che il Corano subisce in Shame (per non parlare poi del successivo The Satanic Verses), che ne è parodia fin nella struttura paratestuale: la genealogia posta al principio del romanzo rimanda all’usanza di tracciare il proprio albero genealogico nella copia di famiglia del Corano (cfr. Brennan 1989:124 sgg.). Oppure i romanzi imperialisti, in cui i colonizzatori vorrebbero dar voce ai colonizzati (cfr. Brennan 1989 su Forster e Scott, e Cronin 1999 per il rapporto di Midnight’s Children con Kim di Kipling); o la storiografia (cfr. sez. 9.7 per i rapporti con il libro di storia dell’India di Wolpert).

Va in questa direzione anche una tecnica di cui abbiamo già parlato e su cui torneremo, l’accostamento di storia privata a storia pubblica per abbatterne le pretese di oggettività: “the domestication of grand events” è usata con fini esplicitamente satirici (Fletcher 1994a:15).

Il ricorso allo sguardo ingenuo dei bambini o del narratore naïf è un’altra strategia tipicamente satirica usata nei romanzi: si pensi a tutta la prima parte di Midnight’s Children o a certi commenti di Sufiya in Shame. Alla luce di quanto detto prima, ma poi vedremo nello specifico, è chiaro come tutti questi casi possono essere letti come volti allo smascheramento di pretese di alto rango, mentre contemporaneamente offrono l’occasione di una liberazione di pulsioni aggressive conto il potere repressivo.

Continua Fletcher: “Jokes and puns and misused folk sayings also contribute, as do ironic depictions os such developments as the commercialisation of religion. […] The grotesque is used to highlight the dangerous absurdities of government policy.” (1994a:16). Ci addentriamo a questo punto nel campo del carnevalesco, su cui è bene soffermarsi, visto che la critica si è diffusamente spesa sull’argomento.

L’uso del carnevalesco serve a destabilizzare le pretese seriose: “Obscenity and ribald humour, as part of the carnivalesque, act to bring down the serious and the lofty, claiming a place for the sensual and the corporeal. The irreverence cuts, undermining the dominant discourse” (Fletcher 1994a:15). Ciò

ci riporta da un lato al discorso sullo stile euforico e all’estetica dell’eccesso di Rushdie, dall’altro alle differenze tra India e Pakistan dipinte in Midnight’s Children e Shame. È soprattutto nel primo che carnevalizzazione e dialogicità sono possibili e più sfruttati.

Come nota Matuska (2000), l’apprezzamento dell’incertezza e dell’ambiguità dimostrato in Midnight’s Children soprattutto attraverso le parole di Saleem (ma anche il narratore di Shame si professa esplicitamente a favore della contraddittorietà) può essere interpretato proprio con il concetto di carnevalizzazione, il processo di minare il principio di dare un ordine alle cose. L’incertezza è alla base di ogni forma di conoscenza, come ben simbolizzato dal modello euristico del lenzuolo bucato. Mentre Engblom (1994) si concentra, nell’analisi degli elementi carnevaleschi di Midnight’s Children, sulla sovversione dell’ordine, Matuska (2000) preferisce sottolineare la natura dialogica, ambivalente dello stile: per tornare a un discorso già toccato in apertura di capitolo, non si tratta tanto di scegliere tra due opposti quanto capire che l’uno è parte integrante dell’altro: “In this sense, the carnivalesque is not a simple subversion of order, but rather an attempt at temporary balance after repeated subversions.” (126).

Al-cAzm (1994) sottolinea il rapporto diretto con Rabelais e cita come epitome del rovesciamento

bachtiniano il sedere che arrossisce come fosse un volto all’inizio di Midnight’s Children. Ma basta ricordare che l’atto stesso della scrittura subisce simile sorte nella figura di Saleem che in sé equipara i tre “organi della fertilità”, naso, pene e penna. Scrivere è creare, ma anche sporcarsi, avere a che fare con la fisicità e l’organico.

Per Shame, come abbiamo detto, è più difficile parlare di comico carnevalesco; il romanzo pare evocarne anzi la nostalgia, visto che ha a che fare con una terra in cui non sono innumerevoli realtà a convivere, ma un’unica falsità imposta dai suoi governanti. Vale la pena citare a questo proposito quanto sostiene Cundy (1997), che riporta anche al piano della caratterizzazione questa dicotomia: nota infatti che mentre i personaggi di Midnight’s Children sono complessi e contraddittori perché racchiudono l’intera gamma di possibili, quelli del romanzo successivo sono costruiti su delle polarità chiare, definite e irriconciliabili.