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4. Alternative teoriche: il ritorno del rimosso comico

4.1. Billig: per una visione del comico anti-positivista

4.1.2. La superiorità di Hobbes e le reazioni incongrue

La teoria del comico di Hobbes fa parte di una più ampia teoria del sospetto delle passioni umane. Per il filosofo inglese (come per Aristotele) il riso sorge per un sentimento di superiorità. In Human Nature (1640), trattato sulla psicologia umana, si spiega non solo di cosa si ride, ma perché lo si fa: siamo guidati dagli impulsi del corpo che cerca di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore.

Hobbes applica il suo materialismo psicologico a qualsiasi comportamento umano; lo stesso ordine sociale è un compromesso per avere più piacere e meno dolore possibile. Le espressioni di umanità, come tutte le virtù, sono solo coperture per l’egoismo; non esistono valori assoluti, ma soltanto relativi ai bisogni, alle inclinazioni, ai gusti dell’uomo, che chiama bene ciò che gli pare e piace.

Per quel che riguarda il riso, Hobbes propone una teoria motivazionale, in termini psicologici, basata su premesse percettive e cognitive: quando notiamo manchevolezze altrui, queste ci stimolano una comparazione con noi stessi che ci fa sentire superiori, sensazione positiva che produce il riso. Si ride anche di noi stessi: il nostro io nuovo, emendato, superiore, ride di quello vecchio. La conclusione è nota:

I may therefore conclude, that the passion of laughter is nothing else but a sudden glory arising from sudden conception of some eminency in ourselves, by comparison with the infirmities of others, or with our own formerly: for men laugh at the follies of themselves past, when they come suddenly to remembrance, except they bring with them any present dishonour. (Hobbes 1999:54-55)

Hobbes pone il ridicolo al centro del comico e mette così in discussione ogni possibile bontà del riso. A differenza dei predecessori, egli non distingue tra due tipi di humour, positivo e negativo, lecito e non lecito: esiste esclusivamente questo tipo. Chi sostiene che sia possibile ridere senza provare superiorità vuole soltanto illudersi mascherando il proprio egoismo.

È in reazione a tali argomenti che nel ’700 nascono le teorie basate sull’incongruità: esse spostano l’attenzione dalle motivazioni di chi produce il riso alle caratteristiche incongrue dell’oggetto che lo provoca. Oggi queste teorie dominano il campo della ricerca sullo humour.

Anche in questo caso Billig cerca di storicizzare questa genesi e la mette in relazione con le condizioni politico-sociali dell’ambiente in cui ha luogo. È all’interno dell’Illuminismo inglese che

nascono il concetto di “wit” e le teorie dell’incongruità, frutto del tentativo di recuperare l’importanza del riso emendandolo dagli elementi più grevi e sconvenienti.

In questo periodo si opera la distinzione tra il “wit” (giochi di parole e di idee) e lo “humour”, in cui l’oggetto del riso è una persona. Il termine “umorismo” deriva dalla fisiologia: gli “humours” erano gli umori in circolo nel corpo umano e gli “humorists” quelle persone che si lasciavano dominare da un particolare umore. Nella commedia detta degli umori, per l’appunto, si ride di personaggi monotematici, che sono l’esposizione di un unico difetto; si ride alle loro spalle: essi sono l’oggetto del riso. Il termine “umorista” poi passerà a denotare chi inventa tali personaggi.

Le teorie dell’incongruità nascono a proposito del “wit”; “Incongruity theory looked at laughter’s cognitive processes, rather than its emotional dynamics.” (Billig 2005:62); “The basic idea of incongruity theory was that two different ideas would be suddenly connected with comic effect.” (64).

John Locke si occupa del wit nel suo Essay Concerning Human Understanding (1690), sottolineando come esso permetta di accomunare cose diverse trattandole come simili. Mark Akenside, nel suo poema didattico The Pleasures of Imagination (1744), è il primo a parlare esplicitamente di “incongruous”. In queste teorie l’attenzione si sposta dagli aspetti emozionali a quelli cognitivi; il comico diventa un’attitudine totalmente intellettuale.

Il legame tra wit e creatività inaugurato con Locke culminerà con Koestler (1964), secondo cui ci vuole flessibilità mentale per capire l’umorismo. Oggi questa visione è comune: che le barzellette implichino un “cognitive shift” è sostenuto tra gli altri da Morreall (1983), Raskin (1985a), Giora (1991) e Oring (1992).

Secondo Billig (2005) questo approccio cognitivo alle barzellette ha però il difetto di estrapolarle dal contesto sociale in cui sono prodotte, e quindi di sorvolare sulla natura sociale del riso: “This cognitive approach makes no assumptions about the motives for telling a joke, nor about the emotional states of the recipients. […] when the analysis turns from the supposed purity of wit to the ridicule of ‘humour’, then the Hobbesian emotions creep back in.” (66; per una critica in questo senso cfr. anche Norrick 1993b e 2003). È una pecca riscontrabile anche nelle teorie prese in esame nei capitoli precedenti, che in favore di astrazione e obiettività sacrificano queste componenti fondamentali per la nascita del comico.

La differenza tra gli analisti e i linguisti di oggi e Locke e i filosofi del ’700 è che mentre i primi si concentrano sulla barzelletta come unità di misura, i secondi tendevano a preferire come fonte di esempi poeti o autori classici (usanza che dura fino al ’900). Perché? Non certo perché all’epoca raccolte di battute non esistessero: si pensi alla raccolta Joe Miller’s Jests, del 1739. Il motivo era fondamentalmente ideologico: le barzellette erano grevi, di umore triviale, popolaresco; venivano evitate, più che per pruderie, per coscienza di classe: l’umorismo basso veniva espulso perché

appartenente alle classi subalterne, dominate dal desiderio di rivalsa, e usato come arma contro le classi superiori.

La rimozione del ridicolo a favore del wit diventa sistematica e produce ulteriori distinzioni assiologiche: Addison, che in un primo momento (saggio su Hobbes, Spectator 47, 24 aprile 1711) sembra convenire con le tesi hobbesiane, passa poi a sostenere che quel tipo di comicità è consona solo alla gente comune, mentre i “men of wit” lo evitano. La tesi è ribadita nel successivo saggio su Locke (maggio), in cui si depura ulteriormente il riso “sofisticato” distinguendo tra “false” (puns, somiglianze tra parole) e “true wit” (somiglianze tra idee; vicino al linguaggio poetico; la metodologia di riconoscimento è data dalla traducibilità: il “true wit” può essere tradotto in altra lingua, il pun no).

La distinzione ha successo, il “wit of ideas” acquista superiorità nei confronti del “wit of language” perché visto come privo di motivazioni basse, scevro da volontà ridicolizzanti. Ciò è possibile trascurando la questione di cosa è che fa davvero ridere di un paragone. Certo, l’improvviso e la distanza tra le idee, ma perché solo certe idee? La rimozione del contenuto a favore della forma comincia a prendere atto: “Addison’s solution was to project undesirable emotions onto social inferiors and to acquit true wit of any reproach.” (Billig 2005:70).

Le pulsioni del riso crudele vengono relegate allo humour, che consiste nel criticare deridendo un carattere fallace. Ma non si può fare a meno di notare che quando si ride della dignità che inciampa si ha a che fare con un esempio di incongruità tra dignità e volgarità. La presenza di queste due componenti, inoltre, aumenta il riso. Se il ridere dell’alto che viene tirato giù si verifica anche quando noi non siamo così superiori, e forse il sentimento di superiorità non è così diretto, di sicuro non ci si trova neppure di fronte a una semplice percezione di incongruità:

The implication is that a purely cognitive theory of incongruity is insufficient, for not all incongruities are found to be equally amusing. The distance between the elements and the speed that they are brought together could not explain why the haughty person splashed with mud is so funny. (72-73)

Non tutti però decidono di evitare la sociologia del riso: Anthony Ashley Cooper, third Earl of Shaftesbury (allievo di Locke, ma più cinico e meno sistematico) nel suo Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times (1711) prende in esame il ruolo sociale del riso e la funzione disciplinante del ridicolo nel promuovere congruità sociale: “In his view, ridicule or raillery was crucial for the maintenance of a reasonable common sense.” (Billig 2005:75).

Shaftesbury, fortemente interessato al tema del ridicolo, cerca di mediare tra la visione di un modo di ridicolizzare buono e fine, tipico delle classi alte, e uno più basso, tipico delle classi basse. Egli opera anche una connessione tra moralità e armonia e congruità. Il senso del ridicolo è quindi molto importante per regolare la condotta umana in accordo alla moralità: i nostri sensi provano repulsione

per l’incongruità e il ridicolo; è possibile ridicolizzare solo ciò che non è armonico, ciò che è già di per sé incongruo, ridicolo. Ci siamo allontanati da Locke:

The perception of incongruity is not a minor cognitive faculty, inferior to the faculty of judgement. It is tied to the moral and aesthetic sense that is so necessary for social life. Moreover, ridicule fulfils a key social role in maintaining morality, taste and good manners. (78)

Come negli appunti fatti alle teorie precedenti, si torna a legare il riso (e in quel caso il concetto di opposizione di script) a un’assiologia dipendente dal contesto sociale.

Le idee di Sahftesbury su wit, incongruo e ruolo sociale del ridicolo sono poi riprese all’inizio del secolo successivo da Sydney Smith, che vede il ridicolo come essenziale nella formazione del senso morale umano – sempre in riferimento a un senso comune oggettivo, proprio della società perbene. Non siamo ancora alla visione relativista della società, per cui ogni gruppo può usare il ridicolo per stabilire ciò che considera accettabile o meno; secondo questi autori ciò che viene ridicolizzato è oggettivamente ridicolo; si tratta di valori assoluti, presi per buoni.

Contro Shaftesbury e i suoi seguaci, come Akenside, si schiera John Brown, secondo cui il ridicolo è “a device of rhetoric. Like other rhetorical devices, it could be used to ‘befriend either truth or falsehood’. All sides in a dispute can use ridicule” (81). Inoltre non si ride solo di ciò che è ridicolo: il ridicolo può render tale ciò che si crede bello. Ma anche in questo caso non ci troviamo di fronte ad una apertura al relativismo: Brown si schiera semplicemente contro il ridicolo come mezzo per conoscere la verità, in favore della ragione.

È bene ricordarsi che queste teorie sono tutte pre-antropologiche: distinguono vari tipi di riso e li assegnano ai vari strati del corpo sociale. Non esiste ancora visione antropologica di riso comune a tutte le società. E in queste scelte si rivelano le ideologie sottese:

Theories of humour can subtly express these differences in taste, which often prove to be more than just preferences of taste. Morality can be involved, as some things, but not others, are laughed at. A theory of humour does not merely comprise general ideas. Whatever the ideas of the theory, the theorist needs to write down the theory and choose examples. There is no neutral hiding place here beyond the reach of rhetoric. Even an avoidance of examples can express a morality of taste. (83)