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6. Salman Rushdie (e) il comico

6.3. La critica e il comico rushdiano

6.3.2. Reichl e Stein: il riso postcoloniale

Se meraviglia la carenza di studi specifici sullo humour di Rushdie, lo stesso può dirsi della penuria in generale di trattazioni sulle relazioni tra postcolonialismo e comicità, quando invece molte delle tecniche sfruttate per la ribellione contro la scrittura imperialista (cfr. Ashcroft et al.1989) possono essere declinate in senso umoristico.

La carenza di studi di questo tipo è sottolineata da Reichl e Stein (2005) nell’introduzione alla raccolta di saggi da loro curata proprio sul rapporto tra Laughter and the Postcolonial. Forse, suggeriscono, lo scarso interesse dipende dal fatto che il postcolonialismo è sempre stato connesso all’impegno civile e sociale, all’azione politica e diretta, mentre la comicità gode di una cattiva fama legata al disimpegno, alla superficialità. Così non è: il comico può essere sfruttato come strumento sovversivo e satirico, e i testi proposti cercano di illustrarlo.

Un altro problema non indifferente che potrebbe rendere refrattari a trattazioni sull’argomento è il dover affrontare non uno ma due campi di difficile teorizzazione: le svariate “humour theories” proposte nel corso dei secoli non hanno offerto definizioni o risultati certi, e problemi simili riguardano il concetto di “postcoloniale”. Entrambi i termini, “humour” e “postcolonial”, sono polisemici e hanno alle spalle una lunga storia di ridefinizioni e riaggiustamenti. Per questo Reichl e Stein si professano contrari a una teoria generale del riso, che racchiude fenomeni troppo complessi e eterogenei per poter essere inscatolato in un sistema chiuso e ferreo, e preferiscono adottare delle mini-teorie elaborate a seconda dei casi specifici. Nei saggi contenuti nel libro varie visioni sono messe in dialogo insieme, partendo dal presupposto che il riso è un fenomeno soggettivo e che più che la risposta allo stimolo (il riso) conta l’intenzione autoriale, l’effetto che è deliberatamente perseguito da un testo (pareri su cui è possibile convenire, come dimostrato nella prima parte).

È per questo che il titolo parla di riso e postcolonialismo: “postcolonial” non è un aggettivo che modifica il sostantivo. Come non esiste un unico postcolonialismo, termine usato più per comodità che per esattezza definitoria, così non c’è un riso postcoloniale unico.

A legare gli approcci postcoloniali alle teorie del riso è la spiegazione psicologica di quest’ultimo, solitamente riscontrata nel sorgere di qualche incompatibilità, incongruità (Reichl e Stein citano in particolare il modello bisociativo di Koestler); poi il comico può essere declinato in milioni di modi diversi, anche opposti: il centro può ridere dei margini, come viceversa.

D’altronde anche alla base del postcolonialismo soggiace una disparità, una incongruità, seppur solitamente tutt’altro che comica (si è visto in precedenza come nessuna incongruità sia mai comica di per sé): quella tra coloni e colonizzati (il centro e i margini di cui sopra). Lo può però diventare, come può diventare fonte di aggressività satirica (si veda più avanti quanto sostiene Ball, secondo cui humour e condizione postcoloniale sono entrambi caratterizzati da dinamiche di potere sbilanciate). La carica umoristica si può sviluppare in svariate direzioni, affermano Reichl e Stein:

The concrete manifestations of laughter arising from such a constellation range from subversive laughter, carnivalesque exhilarations, wry smiles, self-deprecation, gallows humour, or black humour, to more conciliatory and healing humour, or to the wild and eerie laughter of the otherwise silenced ‘madwoman in the attic.’ All these reflect a struggle for agency, an imbalance of power, and a need, a desire, for release. (2005:9)

Un altro punto condivisibile e di cui abbiamo già trattato (perché sia praticabile il riso è necessaria una condivisione di punti di vista) è l’introduzione del concetto di “communities of laughter” (13), sulla scorta della “interpretative communities” di Fish (1980) poi riprese da Hutcheon (1995), all’interno delle quali si condividono delle “interpretative strategies” che determinano la modalità di ciò che si legge:

Laughter, too, presupposes shared worlds, shared codes, and shared values. Therefore is characterised by both subjectivity and intersubjectivity. […] Laughter relies upon ‘a shared matrix of references’ […] as a prerequisite, and, as a consequence, fulfils an important function in establishing, maintaining, and adjusting in-group ties and group borders. (Reichl - Stein 2005:13)

Come ripetuto più volte, quando manca un accordo comune su referenti culturali (e aggiungerei intenzioni ideologiche), una battuta può non sortire l’effetto prefisso: “If we do not share the requisite cultural references, a joke or pun might be lost on us” (14).

In questo senso è interessante una considerazione sul pubblico a cui questi romanzi sono rivolti: la letteratura postcoloniale parla a lettori internazionali e di solito dà libero accesso al proprio potenziale comico: “Laughter and humour are therefore ‘test cases’ not for cultural belonging, but for transcultural competence.” (14). Vedremo come Rushdie riesca a prendersi gioco anche di questo principio, invitando così ad acquisire la competenza che possa rendere accessibile il riso.

Nel suo saggio all’interno della silloge di Reichl e Stein, Helga Ramsey-Kurz (2005) propone alcuni corollari a questa idea di comico postcoloniale. Innanzitutto nota che la posizione degli autori umoristici postcoloniali nei confronti delle strutture egemoniche imperialiste è ambivalente: vi si oppongono, ma ne beneficiano anche – scrivono soprattutto per l’occidente. Ovvio quindi che ricorrano a una modalità comunicativa evasiva come lo humour, che permette loro di minimizzare la serietà delle posizioni politiche non conformiste espresse.

Attraverso tale modalità è inoltre più semplice eludere la censura, ma è grande anche il rischio di non far intendere i propri intenti. Questi testi viaggiano per il mondo, e un certo tipo di humour comprensibile in un contesto culturale può non essere percepito come tale altrove e quindi comportare pericolose conseguenze. Rushdie rappresenta forse il caso più estremo di questa intrinseca eventualità di fraintendimento: si pensi alla fatwa che lo ha colpito con la pubblicazione di The Satanic Verses.

Infine, molto interessanti in relazione alle proposte teoriche del capitolo precedente sono le considerazioni di Richter (2005) che rimarca la relatività del comico che non è solo rivoluzionario ma può essere usato anche in senso oppressivo, in collusione con il potere. Richter sottolinea come al suo fondo sia sempre presente un sentimento di aggressività che fortifica la coalizione tra mittente e destinatario contro il bersaglio.

Egli riprende anche il tema del carattere compromissorio del riso, soprattutto in ambito postcoloniale: il rapporto con il bersaglio (solitamente uno stereotipo coloniale) spesso è ambivalente, si nascondono tracce di desiderio dietro la derisione (si è visto d’altronde come sia necessario ammettere anche solo temporaneamente il potere del butt of the joke per poi potere operare il viraggio verso il basso). È fondamentale riconoscere tale ambivalenza per poter sostituire alla struttura interpretativa binaria dell’antagonismo tra colonizzatore e colonizzato un’analisi delle dinamiche di rifiuto e desiderio; solo così è possibile uscire dal circolo vizioso dello scontro centro/margine, dalla replica ininterrotta dello stesso modello basato sul conflitto bianco/nero imposto dalla mentalità imperialista.