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3. La “General Theory of Verbal Humor” di Salvatore Attardo

3.3. Parentesi metodologica

Per esplicitare meglio intenzioni e limitazioni della “General Theory of Verbal Humor”, Attardo apre una parentesi metodologica (con cui in parte si mette al riparo dalle mie critiche e in parte ne favorisce di nuove): specifica, riprendendo (come già Raskin) una distinzione di Chomsky (1965) modellata a sua volta sulla celebre distinzione di Saussurre tra langue e parole, che la teoria che sta proponendo è “a theory of the speakers’ competence at producing/interpreting longer humorous texts, not a theory of their performance doing so” (Attardo 2001:30), una teoria “of the speakers’ potential production/interpretation on the basis of their knowledge and skills and not a theory of the actual, concrete interpretation/production of a given text.” (ibidem). Per evitare tutta una serie di variabili che inevitabilmente renderebbero meno maneggevole il sistema, è necessario operare una sorta di “idealizzazione linguistica”.

Tale idealizzazione in linguistica è considerata come indispensabile per la creazione di teorie, nonostante questo tipo di astrazione per l’analisi dei testi comici elimini di fatto il fattore della specificità dei partecipanti all’atto, in favore di “an abstract “ideal” reader’s analysis of the text” (ibidem).

Se a questo livello teorico tale rimozione può avere le sue motivazioni, sarà bene comunque tenere sempre presente che, perché si produca comicità, soprattutto se come abbiamo visto l’opposizione di script è relativa, dipendente dal contesto e poggia su un asse di valori positivo/negativo, la funzione (e la loro specificità culturale e non solo) dei partecipanti è fondamentale.

Attardo sa bene che non è possibile eludere l’audience, pertanto si rifà al concetto di “lettore modello” teorizzato da Eco (1979). Il realtà ogni autore comico postula sempre (o perlomeno confida o spera in) un lettore modello che, condividendo la stessa visione del mondo, lo stesso sistema di valori e gli stessi meccanismi logici, riesce a cogliere lo humour presente nel testo; su di questo, nessuna garanzia può essergli concessa.

Ciò da un lato rinforza l’idea della relatività del comico, e dall’altro rende problematica la semplificazione: come vedremo (cap. 9) postulare un lettore modello non può significare considerare il comico come una entità monolitica. In uno stesso testo possono per esempio scontrarsi due diversi tipi di comicità, determinati proprio da due diversi tipi di pubblico (lettori sofisticati e lettori ingenui).

La teoria di Attardo d’altro canto non vuol essere neppure una teoria dello speaker, considerando il testo come (quasi totalmente) indipendente dal suo autore una volta prodotto; la teoria dovrebbe situarsi a metà strada tra autore e ricevente, e quindi basarsi sul testo e sui segni interpretativi che esso ci dà.

Il rischio di avventurarsi troppo nel formalismo è altissimo, soprattutto in un campo in cui le intenzioni dell’autore spesso vanno oltre la possibilità di comprensione (o accettazione) dell’uditorio: si veda il caso del comico non accettato dal destinatario (cfr. sez. 4.1.6), oppure si pensi al comico

involontario, che solo l’uditorio percepisce come tale. Spesso un evento comico non ci appare tale perché non siamo sulla stessa lunghezza d’onda del mittente: possiamo sostenere a quel punto che il testo non è comico? O siamo noi che non riusciamo a interpretarlo come tale? Come vedremo nell’analisi del comico di Rushdie (cfr. cap. 9) su tale ambiguità interpretativa (alcuni tratti comici per l’audience indiana sfuggono a noi in quanto appartenenti a un’altra cultura) si può giocare, e creare un comico di secondo grado a spese di parte dell’uditorio (Attardo peraltro registra questa possibilità a proposito dell’ironia e al momento dell’analisi de Il nome della rosa, cfr. sotto).

Attardo non è del tutto inconsapevole dei rischi in cui incorre: “we have to be aware of the fact that different audiences may react differently to a text and propose different interpretations of it.” (2001:32); per questo specifica che quelli che presenta sono “fragments of my own, individual, idiolectal analysis” (ibidem), svelando lo iato tra pretesa obiettività della teoria e inevitabile soggettività di ogni sua applicazione. Ma quel che importa ai fini di questa teoria è spiegare come si strutturi il contenuto umoristico, e su questa linea si procede.

Attardo specifica che per lui lo humour esiste solo all’interno della comunicazione, della semiosi (ma quindi come non tener conto integralmente dei partecipanti?). Ma cosa è un testo comico? Riprendendo una definizione già in Attardo – Chabanne (1992), riferita alle barzellette ma estendibile ad ogni testo comico, la risposta fornita è: “a text whose perlocutionary goal was to be perceived as funny. […] the essence of a humorous text, its raison d’être is that of being perceived as funny, and that this is reflected in the text itself.” (Attardo 2001:33). In nota si specifica meglio:

a humorous text is a text whose perlocutionary goal is the recognition on the part of its intended audience, which may or may not be the actual audience of the utterance(s) of which the text is composed, of the intention of the speaker or of the hearer of the text to have said text be perceived as funny. Note that the humorous “intention” may be in the eyes of the beholder, so to speak. This is necessary to account for “involuntary” humor.” (ibidem, nota 30).

Qui di contro pare che l’importanza di mittente e delle sue intenzioni e del destinatario e della sua interpretazione siano rimesse al centro, senza che la contraddizione venga registrata.

Attardo poi si dice contrario al carattere intuitivo dell’analisi, votandosi a un approccio “bottom up”, per cui ogni lines comica del testo verrà presa in esame, e a nessuna parte del testo sarà concessa minore attenzione che alle altre.

Ma come è possibile una processazione del testo del genere? E anche se davvero fosse possibile prendere in esame ogni frase e sottoporla attraverso qualche strumento a una diagnostica della presenza di script in opposizione, come riuscire a tarare questo strumento in modo da modellarsi su ogni visione del mondo autoriale, in modo da poter riconoscere e comprendere dove queste opposizioni sono in funzione, dal momento che dipendono dalle intenzioni dell’autore come dalla capacità di afferrarle?

Come escludere l’intuizione, intesa come la risata che ci segnala la presenza di comicità, su cui poi sarà possibile lavorare con la GTVH?

Ciò non pare preoccupare Attardo che sostiene anzi che è facile decidere se un’occorrenza è comica o no, mentre ciò che è più complicato è decidere se un testo intero sia comico – problema risolto analizzando bene le occorrenze, cosicché si possa fare una media matematica e valutare.

Questo punto rimane molto fumoso, in quanto non viene spiegato come sia così facile capire il comico, ma semplicemente lo si attesta. Attardo afferma che il giudizio intuitivo (l’intuizione appena cacciata dalla porta rientra immediatamente dalla finestra) sulla comicità di una singola unità data (si intende unità comica, una line, come vedremo sotto) può essere dato più o meno oggettivamente, nonostante questioni idiosincratiche che possono complicare la valutazione ma non precludere una soluzione chiara metodologicamente. La questione del comicità di un intero testo invece non può essere lasciata al giudizio intuitivo ma ha bisogno di analisi più sofisticata, come il calcolo del rapporto lines / testo.

Come giustificare questo ritorno dell’intuito represso? Facendo un parallelo (già assunto in Raskin a partire dalla nota teoria chomskyana) tra capacità di riconoscere la comicità e capacità di valutare la grammaticalità di una frase: “we take grammaticality and humorousness to be properties of human nature” (34), nonostante non si specifichi se quest’ultima sia una capacità innata o acquisita (mentre le nozioni sulla letterarietà sono acquisite attraverso la trasmissione culturale, e vedremo come è al linguaggio letterario più che a quello comunicativo che il comico va accostato, cfr. sez. 4.2.1).

Ma anche condividendo l’idea che la capacità di ridere sia connaturata all’essere umano, un discorso meno semplicistico va fatto sull’oggetto del riso, che, come vedremo nel capitolo successivo, è socialmente determinato (cfr. Billig, secondo cui i genitori operano un vero e proprio training sul comico per i propri figli). Un buon analista del comico quindi dovrà non solo avere intuito, ma anche conoscere le possibilità di opposizione di script più adatte e valide per ogni diversa comunità o gruppo culturale, non fermandosi di fronte alle proprie idiosincrasie. Più che un audience ideale, sarebbe necessario postulare un analista ideale!

Da questo punto di vista Attardo condivide il fatto che le opinioni di analisti differenti possano divergere, ma

It is unlikely that the interpretation of most lines is incorrect: we may get a few wrong, but the overall nature of the text, its strands and stacks, will be substantially correct. Small errors tend to cancel out in large data sets. (2001:34)

Si arriva quindi a un compromesso tra la pretesa di obiettività scientifica e la necessaria debolezza (che può invece risultare un punto di forza) dovuta alla relatività dell’oggetto di studio. Quel che la GTVH offre, in definitiva, è:

An ideal reader’s interpretation of the text. Needless to say, we do not have access to ideal readers, so the only possible choice is to idealize from our own idiolectal readings. What matters, however, is that in principle we may provide a formal, non-intuitive analysis of the texts and of their humorous components. The fact that the cost of such an analysis is prohibitive, so that no such analysis may be empirically presented, is irrelevant. (ibidem)

Alla base c’è l’analisi semantica del testo, che offre un punto di partenza il più oggettivo e formale possibile – nonostante questa analisi dipenda a sua volta da un lettore/analista reale.

3.4. Dalla “Semantic Script Theory of Humor” alla “General Theory of Verbal Humor” e