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5. Integrazioni teoriche e nuovi modelli di opposizione

5.5. Un parassitario strumento di dominio

In questo oscillare tra aspetti cognitivo-linguistici e psico-sociologici notiamo un ulteriore elemento comune di fondamentale importanza: abbiamo visto che il modello dell’opposizione, che rimanda alle teorie dell’incongruo, vuole che in qualche modo sia risolta la discrepanza proposta perché se ne possa ridere (cfr. sez. 3.4.2); ciò non implica che si debba necessariamente accomodare ogni tipo di incongruità attraverso spiegazioni logiche (spesso il comico dell’assurdo non lo consente), quanto che si accetti la modalità (anti)logica richiesta dal testo.

Riprendendo le considerazioni di Forabosco (1992) a cui si è accennato poco sopra, si può parlare di una “cognitive mastery”, attraverso cui ci si adatta o meglio si dominano diverse modalità di pensiero. Ma spostandoci al piano socio-ideologico e a quella parte della teoria di Ceccarelli molto vicina ai principi hobbesiani, possiamo sostenere che attraverso il riso si dimostra una padronanza e un dominio (non solo cognitivi) sulla vittima: si ride di qualcosa o qualcuno sentendosene (anche solo momentaneamente) superiori. Ciò è quel che accade quando, fondendo i termini di Orlando con quelli di Ceccarelli, il represso trionfa sulla repressione.

In questo senso Purdie (1993) parla di una “mastery of discourse” in riferimento al battutista: “joking paradigmatically involves a discorsive exchange whose distintive operation involves the marked transgression of the Symbolic Law and whose effect is thereby to costitute jokers as ‘masters’ of discourse” (5). Ogni battuta implica una violazione della regola simbolica, a cui poi possono aggiungersi tutta una serie di piacevoli surplus aggressivo-trasgressivi socio-politici. Chi produce un testo comico dimostra il proprio potere sia sulle forme che sui contenuti che vengono irrisi.

Secondo Purdie saper fare comicità significa saper padroneggiare il linguaggio e detenere il potere (e non a caso spesso è il patriarcato ad appropriarsene): “joking always constructs discursive power, and in this sense its operation is always political – quite separably from its possible involvement with ‘high’ or ‘low’ targets” (127). Non si intende con questo che attraverso il riso si conquisti davvero potere concreto su qualcosa o qualcuno (e si vedano le considerazioni sul carattere compromissorio del comico di D’Angeli e Paduano); è necessario, però, perché si possa ridere, che il bersaglio sia percepito come inferiore, anche solo per la durata della risata, che coincide con il viraggio verso il basso di pretese inadeguate di alto rango (secondo la teoria di Ceccarelli) o con l’affioramento in superficie, a dispetto delle forze coercitivo-repressive, del represso (secondo il modello di Orlando).

È intuitivo d’altronde capire che chi produce comico verbale è in grado di dominare la lingua, operando a proprio piacere sui rapporti tra significanti e significati. Di contro, quando viene ammessa una “tendenza” al livello dei contenuti, in senso freudiano, ci si innalza per un attimo sopra quelle norme che imponevano la non liceità della data materia. Si ride, insomma, solo quando si ha il controllo sul bersaglio (cfr. anche Berger 1993) e conseguente distanziazione emotiva.

Ne consegue che il comico necessita la padronanza di certe competenze: per potersi sentire superiori e per abbattere convenzioni, regole, tabù, è necessario prima di tutto conoscere (e bene) il sistema contro cui ci si scaglia. Si pensi alla situazione estrema del comico sulle convenzioni letterarie di cui troveremo molti esempi nell’analisi dei romanzi di Rushdie: non solo bisogna essere al corrente di tutta una serie di presupposti referenziali (tra l’altro dipendenti da due culture diverse) ma anche di una serie di norme pertinenti al mondo della letteratura.

Ciò pare confermato dagli studi su ontogenesi e filogenesi del riso (cfr. Ceccarelli 1988): prima di poter sviluppare il senso dello humour il bambino deve sviluppare delle abilità cognitive, linguistiche e rappresentazionali (cfr. anche Morreall 1983) nonché cominciare a introiettare le prime norme comportamentali. Uno dei tanti paradossi del riso è che non può fare a meno di una gabbia da cui cercare di liberarsi.

E a proposito della necessità di conoscere un sistema normativo per poterne ridere, si veda l’articolo di Brownell e Gardner (1988) in cui si citano esperimenti sulla (mancata) comprensione del comico da parte di soggetti affetti da danni alla parte destra del cervello, che regola il senso della appropriatezza sociale: le barzellette sono dipendenti dalla consapevolezza di abitudini, convenzioni, norme di stile; perdendo la capacità di discriminare tra ammesso e non ammesso, lecito e non lecito, si perde anche la possibilità di creare humour.

Il riso insomma è un comportamento di secondo livello, un meta-comportamento, che si instaura parassitariamente su altri sistemi, di cui vengono violate le norme e le convenzioni: dal punto di vista ideologico abbiamo visto come sia obbligatoria la presenza di un accordo tra i co-ridenti su valori accettati e rifiutati e le loro gerarchie, nonché la conoscenza di svariati presupposti culturali, sociali e morali perché si possa capire il comico; dal punto di vista linguistico già in Freud si segnala come il bambino comincia a elaborare un senso comico quando si trova a dover sottostare a norme e regole nella gestione delle parole; dal punto di vista pragmatico infine, si è detto come sia necessario, perché la comunicazione umoristica possa funzionare, instaurare una modalità comunicativa non-bona fide, che si situa un gradino sopra il rapporto referenziale naturale (siamo vicini alla metacomunicazione che secondo Bateson (1972) si instaura durante il gioco perché si segnali che il tutto si sta svolgendo in un dimensione finzionale). Forse, insomma, non è un caso che il “kuru”, la malattia del riso che sconvolse la vita di alcune tribù della Papua Nuova Guinea a metà del secolo scorso dipenda proprio dal cannibalismo e in particolare dal consumo di cervello umano…

Come anticipato, e come apparirà evidente, non si intende attraverso queste considerazioni formulare una teoria definitiva e strutturata sul comico. Piuttosto si è cercato di integrare diversi approcci al fenomeno, diversi modelli esplicatavi, per poter render conto in modo più esaustivo delle infinite modalità in cui lo humour può presentarsi.

È da escludersi la possibilità di elaborare una formula o una funzione davvero in grado di tradurre sistematicamente quel che accade durante la produzione e processazione di un testo (in senso lato) comico. Questo perché, come spero di aver fatto intuire, il fenomeno è altamente complesso, soprattutto per quel riguarda la sua versione verbale e letteraria. I fattori e le variabili in gioco sono molteplici, ma reputo fuorviante espungerne alcune a piacimento, sulla base di scelte ideologiche, per poter trasmettere un senso di gestibilità che sarebbe per forza di cose solo apparente.

Come ho cercato di dimostrare, questa complessità del comico non è un difetto quanto una caratteristica intrinseca, né positiva né negativa, con cui è necessario fare i conti. Analizzando un’occorrenza comica, quindi, non sarà ammissibile non tener conto delle psicologie e delle ideologie degli attanti, delle intenzioni e delle funzioni a cui si rimanda, dei contenuti e delle trasgressioni che questi comportano. Ma non (solo) per onestà intellettuale, quanto perché tutti questi elementi sono necessari alla produzione e ricezione del comico: una spiegazione che ne escluda anche solo uno non potrà realmente dirsi soddisfacente.

È per questo che ho ritenuto utile giustapporre una formulazione come quella dell’opposizione, linguistico-pragmatica, al modello della formazione di compromesso in cui sono chiamati in causa il piano contenutistico e il mondo psico-sociale attraverso i concetti di repressione e trasgressione, e a quello aggressivo-derisivo basato sullo svelamento attraverso un viraggio verso il basso di pretese illegittime, in cui di nuovo l’aspetto sociale e ideologico viene messo in primo piano.

Nei capitoli successivi cercherò conferme sulle considerazioni qui esposte, applicando questi modelli ai romanzi di Rushdie, terreno fecondo e ideale per la quantità e la qualità di modalità umoristiche. Di contro, la complessità dell’uso del comico in questi romanzi rivelerà necessario un approccio multiangolare come quello proposto. La particolare condizione dell’autore (di cui diremo meglio in apertura di seconda parte), al confine tra due culture lontanissime ma anche assolutamente (auto)consapevole e sofisticato per tutto quel che riguarda il mondo della letteratura postcoloniale e postmoderna e le sue teorizzazioni, permetterà di approfondire e testare i concetti qui presentati.

L’analisi dello humour presente nei romanzi aiuterà a capire che, quando si parla di comico, in gioco non c’è solo la forma linguistica, ma anche il piano dei contenuti e le dimensioni ideologiche, sociali e psicologiche. Il rapporto ineludibile con il contesto e con il cotesto sarà rimarcato più volte, come anche il carattere di relatività e contraddittorietà del riso, che nei testi svolge le funzioni più disparate, rivelandosi portatore di tratti anticonformisti come anche moralizzatore e castigatore di devianze.

PARTE SECONDA