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Fallimento della società e patrimonio destinato in bonis

Il patrimonio destinato allo specifico affare nella legge fallimentare S OMMARIO : 1 I patrimoni destinati nella riforma fallimentare 2 L’insolvenza del

5. Fallimento della società e patrimonio destinato in bonis

Il fallimento è incluso tra le cause di cessazione della destinazione del patrimonio allo specifico affare (art. 2447 novies, ultimo comma, c.c.) (169), ma non nell’elencazione delle cause di scioglimento (e quindi d’estinzione) della società (art. 2484 c.c.) (170). Nondimeno, nelle logiche conservative dell’impresa sottese al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, la sentenza di fallimento potrebbe non precludere la prosecuzione dell’affare, pur sottraendola agli organi societari.

pignoramento dei beni del patrimonio residuo di provenienza, cfr. PARTISANI, I patrimoni separati:

l’inopponibilità del vincolo di destinazione alle obbligazioni da fatto illecito, in La Resp. civ., 2005,

44.

(167) Cass., 7 gennaio 1984, n. 134, in Foro. it., 1985, I, 558; in Vita not., 1983, 1646; in

Giust. civ., 1984, I, 663: «In tema di esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui frutti di essi, il

disposto dell’art. 170 c.c. - nel testo di cui alla l. 19 maggio 1975 n. 151 - per il quale detta esecuzione non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ad bisogni della famiglia, va inteso non in senso restrittivo, come riferentesi cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile per l’esistenza della famiglia, bensì - analogamente a quanto, prima della riforma di cui alla richiamata legge n. 151 del 1975, avveniva per i frutti dei beni dotali - nel senso di ricomprendere in detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi».

(168) A tal proposito, la Cass. 15 marzo 2006, (inedita) ha da ultimo deciso che spetta al debitore provare che il creditore conosceva l’estraneità del credito ai bisogni della famiglia: ciò perché i fatti negativi (in questo caso l’ignoranza) non possono formare oggetto di prova ed ancora perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni.

(169) In questo senso, tra gli altri, SCARAFONI, I patrimoni di destinazione: profili societari e

fallimentari, in Dir. fall., 2004, I, 86; F.CENSONI, I rapporti pendenti nella legge delega di riforma, in Fall., 2005, 103. Contra FIMMANÒ, La liquidazione delle cellule destinate alla luce della riforma

del diritto fallimentare, in Le Società, 2006, 161, dove il fallimento è inteso come evento che

consente «l’applicazione delle regole della liquidazione che sono quelle della società, con le specifiche di cui ai primi tre commi dell’art. 2447 novies c.c., in quanto compatibili con le regole del concorso, con le scelte degli organi della procedura e con l’evoluzione della stessa».

(170) Pur in assenza d’una espressa delega parlamentare, il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ha escluso che il fallimento ancora concreti un’autonoma causa di scioglimento della società di capitali, diversamente da quanto previsto per le società di persone (artt. 2308 e 2323 c.c.). Sulle ragioni di quella scelta, nulla si legge nella Relazione al decreto di riforma, benché ex post se ne possa comunque apprezzare la coerenza col rinnovato spirito della riforma fallimentare, orientata, per quanto possibile, alla conservazione dell’impresa in crisi (si pensi alla possibile, e talvolta auspicata, definizione concordataria dell’esecuzione collettiva).

Ancorché capiente, l’amministrazione del patrimonio destinato è affidata dall’art. 155 l. fall. alla curatela della società fallita, affinché vi provveda con gestione separata (art. 155 l. fall.). Ciò tuttavia non impedisce, ricorrendone i presupposti, che l’affare possa esser condotto a termine, analogamente a quanto disposto dal 6° comma dell’art. 2447 decies per i finanziamenti destinati allo specifico affare (v. infra) (171), in modo che la curatela possa assumerne l’esercizio provvisorio, specie nell’interesse dei creditori particolari (172).

Allo spossessamento del patrimonio destinato (art. 42 l. fall.) dunque potrebbe anche non seguirne la liquidazione: al fine di conservarne la (prioritaria) funzione produttiva, il curatore potrebbe anzi cederlo a terzi, secondo le norme di liquidazione dell’attivo fallimentare, quindi con le modalità delle vendite del novellato art. 107 l. fall. (art. 155, 2° comma).

Diversamente, quando non ne fosse possibile la cessione, il patrimonio destinato è liquidato secondo le ordinarie procedure di liquidazione societaria (art. 2487 c.c.), in quanto compatibili (art. 155, 3° comma).

La nuova legge fallimentare è certo coerente con l’equipollenza funzionale tra il patrimonio destinato allo specifico affare e la costituzione d’una controllata ad hoc (c.d.

newco), atteso che la curatela avrebbe potuto optare, nel fallimento della controllante, tanto

per la cessione della partecipazione nella controllata, quanto per la sua liquidazione: la gestione concorsuale del patrimonio destinato allo specifico affare risulta perciò limitata alla sua liquidazione, in caso d’insolvenza (art. 156 l. fall.), ma è altresì estesa alla cessione a terzi, in caso di capienza (art. 155, 2° comma, l. fall.). Anche la liquidazione potrebbe tuttavia sortire effetti corrispondenti a quelli della cessione al terzo: ed infatti, al fine del migliore realizzo l’art. 2487, 1° comma, lett. c), c.c. consente una cessione unitaria del patrimonio destinato, alla stessa stregua della cessione d’azienda o d’un singolo suo ramo effettuata, ai sensi dell’art. 105 l. fall., con le modalità dell’art. 107 l. fall. ed in conformità a quanto disposto dall’art. 2556 c.c.

Resta inteso che fino a quando non fossero stati integralmente soddisfatti i creditori del patrimonio separato capiente, e dunque non fosse cessata la destinazione di scopo dell’art. 2447 novies, 3° comma, i creditori concorsuali non parteciperebbero ad alcun riparto

(171) MEOLI, Patrimoni destinati e insolvenza, cit., 118.

(172) A tal proposito s’osservi come l’art. 24, 1° comma, lett. c) della legge portoghese sull’impresa commerciale individuale a responsabilità limitata (Decreto legge 25 agosto 1986, n. 248) all’opposto incluse la sentenza dichiarativa di fallimento del titolare tra le cause di immediata liquidazione dell’impresa.

(173): il corrispettivo della cessione al netto dei debiti del patrimonio destinato ovvero il residuo attivo della sua liquidazione (ordinaria) saranno solo successivamente acquisiti all’attivo fallimentare, detratto quanto spettante ai terzi che v’avessero effettuato apporti ai sensi dell’art. 2447 ter, 1° comma, lett. d), c.c. (art. 155, ultimo comma, l. fall.) (174). In tal modo è congegnata, evidentemente, una retrocessione del patrimonio separato non dissimile da quella in favore dei creditori dell’erede, che potranno pur sempre soddisfarsi sui beni dell’eredità beneficiata che residuassero alla soddisfazione privilegiata dei creditori del de

cuius (art. 490 c.c.).

Come il patrimonio destinato allo specifico affare, anche il fondo patrimoniale (art. 167 ss. c.c.) non fallisce, né in proprio, né in estensione del fallimento del coniuge imprenditore (175). Non di meno, la convenzione matrimoniale soggiace ad un distinto regime dell’insolvenza poiché tra i beni non compresi nel fallimento sono ora finalmente elencati, in luogo dei redditi dei beni costituiti in patrimonio familiare (176), proprio «i beni del fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’art. 170 c.c.» (art. 46, n. 3, l. fall.) (177): quando non ricorrano gli estremi della revocatoria, l’effetto segregativo dell’art. 167 c.c. è indifferente all’insolvenza del coniuge, poiché lo scopo da cui promana ancora prevale sulla funzione di garanzia della generalità dei creditori (178). In questo modo,

(173) Questo perché cessa, al più, l’effetto segregativo connesso alla realizzazione dell’affare, non quello connesso all’estinzione delle passività in applicazione dell’art. 2447 novies, 3° comma, c.c.

(174) Pur apportandovi qualche necessario correttivo, può qui richiamarsi quella dottrina che incluse la massa fallimentare nel novero dei patrimoni separati, riconoscendole i medesimi attributi d’universalità del patrimonio ereditario e la medesima destinazione allo scopo di liquidazione: il principio per cui «il patrimonio allo scopo si avvicina ad una persona giuridica, ad un ente a scopo di liquidazione, ma in realtà non sorge un nuovo ente perché si tratta d’un patrimonio vincolato ad una destinazione che conserva sempre il suo soggetto, al quale si devolve, dopo esaurito il suo compito» (FERRARA, op. cit., 880) qui s’attaglia al patrimonio dell’art. 2447 bis c.c., non al patrimonio relitto della società decotta.

(175) Contra, ma prima del varo dell’ultima riforma fallimentare, ROCCO DI TORREPADULA,

Patrimoni destinati e insolvenza, cit., 59 ss., che prospettò due distinti fallimenti, sulla falsariga

dell’art. 148 l. fall. regolante il fallimento della società e quello dei singoli soci, nel presupposto che il fallimento della società avrebbe implicato, quale effetto riflesso ed indiretto, il fallimento del patrimonio destinato allo specifico affare.

(176) Come noto, il fondo patrimoniale fu introdotto con la legge 19 maggio 1975, n. 151, dunque a distanza d’oltre trent’anni dal varo della legge fallimentare aggiornata, quanto al n. 3 dell’art. 46 l fall. che ancora si riferiva all’abrogato patrimonio familiare, solo dall’ultima riforma organica del 2006.

(177) Rispetto al fallimento del coniuge opera, dunque, il medesimo effetto segregativo del

trust, i cui bei non sono attratti nella massa fallimentare in caso di fallimento del trustee (BLANDINI e DÈ COSTANZO, Gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti nella giurisprudenza, Milano, 2005, 421 ss.).

(178) In senso difforme, nell’erronea convinzione di poter assimilare il patrimonio separato alle garanzie reali del pegno e dell’ipoteca, Trib. Ragusa, 8 marzo 1990, in Giur. comm., 1991, II, 61,

la norma fallimentare avvicina il fondo patrimoniale al trust interno poiché, per l’art. 11, lett. b), della Convenzione dell’Aja, i beni del trust restano separati dal patrimonio del trustee, in caso di sua insolvenza o bancarotta.

Lo stesso principio vige per il fondo di garanzia per i mediatori di assicurazione e riassicurazione: il Codice delle Assicurazioni private lo definisce quale patrimonio separato da quello del soggetto presso il quale è costituito (la CONSAP) e da eventuali altri fondi; lo sottrae alle azioni, sequestri e pignoramenti dei creditori del soggetto che li amministri o dei singoli intermediari; infine precisa che «il fondo non può essere compreso nelle procedure concorsuali che riguardano il soggetto che lo amministra o i singoli intermediari partecipanti» (art. 115, comma 4°, d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209).

Se con il fallimento del coniuge non cessa lo scopo del fondo patrimoniale (179) – benché l’evento sia incluso tra le cause di scioglimento della comunione (art. 191 c.c.) cui espressamente rinvia, sebbene limitatamente all’ipotesi dell’assenza di figli, l’ultimo comma dell’art. 171 c.c. (180) – con il fallimento della società cessa, di contro, la destinazione alla realizzazione dello specifico affare dell’art. 2447 bis, 1° comma, lett. a), c.c.: altro dalla cessazione di quello scopo è, tuttavia, l’effetto segregativo che medio tempore persiste in funzione della sola estinzione delle passività dell’affare (art. 2447 novies, 3° comma, c.c.), mentre l’eguale apprensione del patrimonio destinato in favore della curatela è giustificata proprio dalla «retrocessione» dell’eventuale residuo attivo della liquidazione (ordinaria) alla massa fallimentare (ex art. 155, 3° comma, l. fall.).

nella massima che segue: «I beni costituiti in fondo patrimoniale, in caso di fallimento di uno dei coniugi, devono essere appresi pro quota all’attivo del fallimento, e formeranno oggetto di una massa separata rispetto al restante dell’attivo, essendo destinati al soddisfacimento dei creditori che non conoscevano che i debiti contratti dai coniugi erano stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. La speciale disciplina prevista dall’art. 170 c.c. in favore dei creditori consapevoli della pertinenza dell’obbligazione contratta ai bisogni della famiglia è assimilabile ad una causa di prelazione. Per analogia dall’art. 2911 c.c. tali creditori non potranno concorrere nella distribuzione dell’attivo del coniuge fallito se non hanno domandato anche la liquidazione del fondo patrimoniale». (179) In dottrina, ad analoga conclusione giunsero quanti esclusero l’acquisizione alla procedura non solo della quota del coniuge in bonis, ma anche della quota del coniuge insolvente, siccome oggetto di comunione indivisibile: v. FIMMANÒ, La revocatoria dei patrimoni destinati, in

Fallimento, 2005, 1106, ove ulteriori riferimenti bibliografici.

Nel senso del novellato art. 46 l. fall., già la Cass., 20 giugno 2000, n. 8379, in Giust. civ., 2000, I, 2584, in parte motiva. In senso conforme Cass., 28 novembre 1990, n. 11449, in Giust. civ., 1991, I, 566; in Fallimento, 1991, 365; in Giur. it., 1991, I, 1, 666; contra il Trib. Catania, 31 maggio 1986, cit., dove si decise che i beni del fondo patrimoniale avrebbero formato una massa separata destinata soltanto a soddisfare i creditori per debiti contratti nell’interesse della famiglia.

(180) E’ evidente come la discrasia tra la norma codicistica e quella fallimentare possa risolversi nella parziale implicita abrogazione del rinvio dell’art. 171 c.c. all’art. 191 c.c.: perché il fallimento (anche in assenza di figli, si deve qui ritenere) non è causa di cessazione del fondo

patrimoniale; e perché, come già s’è osservato, comunque nessun vincolo di (specifico) scopo è impresso sui beni della comunione.

CAPITOLO I

Sezione IV

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