Cap I.1 Leone Leon
8. I ritratti cesarei commissionati in Italia (1541-43)
Con il 1542 Leone Leoni assunse una posizione istituzionale stabile come incisore dei coni della Zecca milanese. Nella relativa patente il governatore d’Avalos (il cui mecenatismo, come vedremo nel cap. II.4, fu segnato da numerosi episodi di importazione culturale) affermava che la nuova figura di ritrattista avrebbe conferito “onore” all’effigie imperiale, destinata a comparire non solo sulle monete, ma anche sulle medaglie emesse in occasione delle successive visite di Carlo V e dell’infante Filippo207. Il testo del documento conferiva al protetto di Alfonso un’importanza particolare, invitando implicitamente i sottoposti ad usargli riguardo anche nella puntualità del salario, e dichiarando che il Governatore aveva scelto Leoni dopo aver messo alla prova anche altri medaglisti di livello inferiore, tra i quali
205 Bernini 1996, p. 425.
206 Esemplari della medaglia leoniana sono pubblicati da Armand 1883-87, III, p. 226, n. A (variante ovale);
Rizzini 1892, p. 87, n. 606 (nel rovescio sono identificabili Vulcano, Mercurio, Cupido, Marte, Giove e Giunone); Bernhart 1925-26, p. 89, tav. XVI, fig. 7 (esemplari unilaterali, “Art des Galeotti”); Hirsch 1908, p. 10, n. 70, tav. VII, fig. 7 (versione ovale: “unbekannte Meister 1500-50”); Hill e Pollard 1967, p. 93, n. 484 (“in the manner of Leone Leoni”: la bibliografia confonde però questo tipo con quello qui discusso infra); Börner 1997, p. 159, n. 682 (unilaterale, “Art von Galeotti”); Attwood 2003, I, p. 148, n. 144 (unilaterale; propone l’identificazione con Maria d’Aragona e ribadisce l’accostamento a Leoni); Toderi e Vannel 2003, I, p. 158, n. 1451 (autore anonimo). La versione ovale della Kress Collection presenta un rovescio ibrido. Il ritratto con legenda “D MARIA ARAGONIA” (che dipende dalla medaglia leoniana) ci è pervenuto sul recto di una medaglia unilaterale (Armand 1883-87, II, p. 163, n. 2) che è stata ripetutamente accostata all’aretino: Habich 1924, p. 131 e tav. XCVII, fig. 5, la ascrisse al maestro aretino o alla sua bottega, mentre Álvarez-Ossorio 1950, p. 92, n. 163, gliela attribuì senz’altro. John Graham Pollard e Philip Attwood hanno invece espresso un giudizio più cauto (Pollard 1984-85, III, p. 1402, n. 810; Attwood 2003, I, p. 147, n. 142), mentre Giuseppe Toderi e Fiorenza Vannel (2000, II, p. 887, n. 2737; 2003, I, p. 158, n. 1450) preferiscono mantenere la medaglia tra le opere anonime. L’effigie risale forse agli anni cinquanta, quando essa fu riprodotta alla c. 74r della Lettura di Girolamo Ruscelli sopra un sonetto dell’illustriss. marchese della Terza alla divina signora Marchesa del Vasto (Giovan Griffio, Venezia 1552: cfr. Croce 1953, pp. 359-365). La didascalia della xilografia, che dichiara l’effigiata trentaquattrenne, permette inoltre di collocarne la data di nascita, finora ignota, intorno al 1507-08 (cfr. Giuseppe Alberigo, Aragona, Maria di, in DBI, III, 1961, pp. 701-702). A giudizio di chi scrive la medaglia in questione si lega strettamente al cammeo col ritratto di Caterina de’ Medici (Firenze, Museo degli Argenti) donato alla nobildonna da Clemente VII nel 1534 in occasione del matrimonio di lei (Casarosa Guadagni 1997, p. 83; Gennaioli 2007, p. 260, n. 247). Per altre medaglie correlate cfr. qui il cap. I.4.
207 “[Nos Alphonsus] optavimus iandiu opificem invenire, qui artem conficiendi impressiones nummorum in
officina monetae Mediolani cudendorum optime calleret, quod et honori et servicio Caesareae Maestatis fore non dubitaremus” (Cupperi 2002 (2), p. 60, app. 1).
va senz’altro incluso Giovanni da Cavino208. La convergenza su nomi come Cavino e Leoni (riconducibili entrambi al canone di “falsari” dall’antico pubblicato poco più tardi, nel 1555, da Enea Vico) può difficilmente passare inosservata209: sin dai primi anni di governatorato l’interesse dell’Avalos si era andato concentrando su medaglisti particolarmente accreditati dalla conoscenza iconografica delle monete antiche e dall’assimilazione matura del loro linguaggio formale (un tratto raro e qualificante ancora per tutti gli anni centrali del XVI secolo).
La prima medaglia cesarea di Leoni, coniata e fusa durante la sua permanenza a Genova e promossa probabilmente da Andrea Doria, è da identificarsi con un tipo raffigurante al rovescio il Tevere assiso210. La fortuna di quest’effigie cesarea si riflesse immediatamente anche nelle vicende dell’artista: il primo ritratto di Carlo realizzato da Leoni a Milano, né firmato, né datato211, ripropone infatti lo stesso tipo e risale alla medesima visita imperiale del 1541. Invitato a produrre un nuovo conio a poche settimane dal precedente, Leone ne riutilizzò il punzone per il volto, modificando solo l’attaccatura del busto. Gli apparati effimeri milanesi poterono così contare su medaglie la cui effigie era stata già approvata dall’Imperatore. A partire dall’iconografia antica, Pietas, e dalla sua stilizzazione, pianamente monetale, la medaglia del 1541 costituisce anche un singolarissimo episodio di apertura al linguaggio artistico già transitato dalle enclaves ‘romaneggianti’ del Settentrione, Genova e Piacenza, a loro volta attente in questi stessi anni alla disponibilità di Leoni212.
Divenuto un pensionario imperiale stabile, nel 1543 Leoni si recò a Busseto per modellare una nuova medaglia cesarea, documentata dal carteggio di monsignor Granvelle. Riteniamo di poter identificare questo tipo con la medaglia cesarea fusa che reca al rovescio un personificazione della “SALVS PVBLICA”213.
208 Sappiamo che Giovanni da Cavino aveva celebrato il Marchese in medaglia intorno al 1538, forse in
occasione della nomina di Alfonso a Governatore (Toderi e Vannel 2000, I, p. 320, n. 935, e II, p. 887, n. 2735). Alla stessa data dovrebbe risalire anche un microritratto caviniano di Carlo V il cui rovescio − che reca l’iscrizione “C(onsensu) C(aesaris)” − lascia pensare che la coniazione fosse stata autorizzata passando per il Marchese (per lo scioglimento della sigla cfr. Van Mieris 1732-35, III, p. 235, che riporta altre due medaglie analoghe di Carlo V).
209 Vico 1555, p. 67. 210
Bibliografia: Luckius 1620, pp. 63-64 (interpreta il rovescio alla luce delle speranze che seguirono la rappacificazione del 1530 tra Carlo V ed il Pontefice); Armand 1883-87, I, p. 162, n. 2; Plon 1887, p. 259; Valerio 1977, p. 138, n. 95 (data il pezzo agli anni 1543-44); Toderi e Vannel 2000, I, p. 47, n. 50 (datano la medaglia al 1546, perché nell’epistolario di Leoni confondono la medaglia del Marchese col busto dello stesso soggetto al Museo del Prado). Esemplari principali: Kenner 1892, p. 56, nn. 1 (data al 1543) e 1A; Rizzini 1892, p. 34, n. 218; Regling 1911, p. 51, n. 630; De Rinaldis 1913, p. 53, n. VIII.109; Bernhart 1919, p. 74, n. 161; Álvarez-Ossorio 1950, p. 119, n. 151; Cano Cuesta 1994, p. 178, n. 34 (data il pezzo al 1546- 47); Johnson e Martini 1995, p. 113, nn. 2219 e 2220; Börner 1997, p. 175, n. 759 (data il pezzo al 1536); Attwood 2003, I, p. 96, n. 10 (data il pezzo al 1543); Toderi e Vannel 2003, I, p. 50, nn. 434-437. Per la datazione stilistica e iconografica della medaglia, variamente ricondotta al 1536, al 1543 o al 1546, ma mai al 1541, come invece proponiamo a testo, cfr. Cupperi 2002 (2), p. 48. Sull’iconografia di Tevere assiso, già proposta in una delle medaglie di Paolo III sopra discusse, cfr. infra il cap. II.1.
211
Bibliografia: Van Mieris 1732-35, II, p. 314; Herrgott 1752, p. 109, n. 102, tav. XXVI, fig. 102 (come moneta); Armand 1883-87, II, p. 181, n. 3, e III, p. 75, n. y; Bernhart 1919, p. 79, n. 177; Crippa 1990, p. 76, nn. 26A-26B; Toderi e Vannel 2000, I, p. 45, n. 37. Esemplari principali: Kenner 1892, p. 57, n. 2 (rileva che il volto è identico a quello sulla medaglia genovese, e data il pezzo al 1543-44); Rizzini 1892, p. 35, n. 221; Regling 1911, p. 50, nn. 620 e 621; Álvarez-Ossorio 1950, p. 119, n. 153; Cano Cuesta 1994, p. 174, n. 30 (data il pezzo al 1542-45).
212 Per i soggiorni e le committenze di Leoni a Genova (1541) e Piacenza (1546-48 circa) cfr. Plon 1887, pp.
18-30.
213 Bibliografia: Van Mieris 1732-35, II, p. 340; Herrgott 1752, p. 92, n. 51, tav. XXIII, n. 51 (segnala come
fonte iconografica per il rovescio un tipo monetale traianeo); Armand 1883-87, II, p. 181, n. 6; Hill 1909 (1), pp. 94-98 (attribuisce a Leoni sulla base della firma); Bernhart 1919, p. 80, n. 181; Toderi e Vannel 2000, I, p.
Una commissione ricevuta da Carlo V nella stessa circostanza portò infine Leoni a Venezia per ritrarre l’Imperatrice defunta su un conio grande per medaglie (1545)214: l’immagine della sovrana fu intagliata a partire da una tela che Tiziano stesso utilizzava in quegli anni come modello per il suo ritratto di Isabella (Madrid, Museo del Prado)215. Dietro questo moltiplicarsi delle effigi asburgiche nell’arco di pochi anni va rintracciata una consapevole volontà di differenziazione tecnica, formale e funzionale in diverse classi di immagini. Lasciando tuttavia gli aspetti tipologici e sociologici del fenomeno alla seconda parte di questa dissertazione, nella quale ci occuperemo del mecenatismo dell’Imperatore, vale la pena di spendere qui alcune osservazioni sull’evoluzione linguistica tracciata dalla sequenza di medaglie che abbiamo appena elencato. Con il passaggio alle medaglie fuse, infatti, Leoni mise gradualmente a fuoco una convenzione all’antica più adatta alla valenza encomiastica e al carattere suntuario di questo formato medio, nel quale Leoni accrebbe le dimensioni delle figure per rendere più apprezzabile il loro ricercato disegno. Il cambiamento di tecnica consentì al medaglista di superare i limiti figurativi che la coniazione aveva imposto all’imagerie delle monete antiche.
Se la medaglia cesarea del 1543, sorta in un contesto di committenza e in un’occasione cerimoniale, partecipava ancora dei tratti iconografici monetali di quella coniata (superandola però per l’eccezionale qualità delle soluzioni figurative e architettoniche del rovescio), nell’anno successivo la medaglia dell’Imperatrice, che era stata fusa in stampi e coniata per la sola finitura, avviò una rilettura citazionale delle pose statuarie classiche che sarebbe culminata nella medaglia cesarea del 1549, dove l’Olimpo della Gigantomachia assomiglia a una gipsoteca delle immagini più famose del paganesimo antico216. Un altro esempio di questa ricerca formale sarà fornito più tardi dal rovescio della medaglia di Massimiliano d’Asburgo come re di Boemia (1551)217: l’invenzione del Mercurio in bilico e slanciato in avanti dal volo è raffaellesca, ma è probabile che lo schema iconografico
45, n. 38. Esemplari principali: Rizzini 1892, p. 34, n. 219; De Rinaldis 1913, p. 200, n. LXI.798-799; Álvarez-Ossorio 1950, p. 118, n. 150; Cano Cuesta 1994, p. 176, n. 32 (data agli inizi del soggiorno milanese di Leoni); Johnson e Martini 1995, p. 114, nn. 2221-22; Börner 1997, p. 171, n. 740; Marina Cano Cuesta, in Checa Cremades 1998, p. 288, n. 5; Attwood 2003, I, p. 99, n. 21 (ipotizza che il rovescio possa essere riferito alla vittoria del 1547 sui Protestanti); VAT, Spagna, s.n. (ae, d. 45mm).
214 Bibliografia: Luckius 1620, p. 95; Van Mieris 1732-35, II, p. 236; Herrgott 1752, p. 76, n. 17, tav. XX, fig.
17; Armand 1883-87, I, p. 168, n. 25 (attribuisce a Leoni); Plon 1887, p. 260, tav. XXXI, 3-4; Toderi e Vannel 2000, I, p. 50, n. 57. Esemplari principali: Kenner 1892, p. 63, n. 6; Mann 1981 (1931), p. 129, n. S351 (Leoni); Middeldorf e Stiebral 1983, n. LVI (variante in cui al rovescio un putto regge una “Y”); Johnson e Martini 1995, p. 126, n. 2268; Börner 1997, p. 175, n. 762; Attwood 2003, I, p. 102, n. 20.
215
La commissione dei coni è attestata dallo stesso artista in una lettera a Granvelle (primo novembre 1548): “Circa i ritrati, sarà la volta di questi che non hanno piombo per le palotole, che io ne arecherò a somme; voglio portare il ritratto della [Im]peratrice, che sua Maestà mi comandò ch’io fac[es]si in conio. Sì che io lo feci da Titia[no], come mi comandò sua Maestà […]”. La missiva, in parte lacunosa (BPM, ms. II-2267, c.158r-v), fu pubblicata da Plon 1887, p. 354, n. 2, con la lezione “scatole” in luogo di “palotole”, termine che indica la perlinatura del bordo. Sulla tela usata come modello da Tiziano e Leoni (ancora non identificata con certezza)cfr. Wethey 1969-71, II, pp. 200-201, n. L20; sull’iconografia di Isabella cfr. anche Cloulas 1979, pp. 58-68.
216
Il rovescio della medaglia per l’imperatrice Isabella, ad esempio, traduce in rilievo il gruppo antico delle Tre Grazie (oggi a Siena, Libreria Piccolomini) riformulando il piano di posa e la superficie dello sfondo come porzioni di uno spazio attraversabile.
217 Bibliografia: Van Mieris 1732-35, III, p. 204; Armand 1883-87, II, p. 237, n. 4; Toderi e Vannel 2000, I, p.
70, n. 127 (Pompeo Leoni). Esemplari principali: Domanig 1896, p. 9, n. 98; Kenner 1892, p. 77, n. 13 (attribuisce a Leone Leoni); Álvarez-Ossorio 1950, p. 184, n. 154; Fučíkova 1997, p. 515, n. II.215 (Praha, Národní Muzeum); Attwood 2003, I, p. 105, n. 38 (legge correttamente il titolo regale della legenda in riferimento alla designazione, e non come indicazione dell’avvenuta incoronazione).
derivasse da una statua antica218. Elementi del repertorio iconografico monetale e statuario venivano ricombinati in termini più liberi e virtuosistici, come in una pittura di storia. 9. Anni irrequieti (1544-48)
Nella seconda metà degli anni quaranta Leoni compì una serie di viaggi e si confrontò con mecenati nuovi. Giunto nella Serenissima nel 1545, egli effigiò i mercanti Martin219, Daniele220, Giovanni e Paolo de Hanna221 (divenuti cittadini veneti originari il 2 giugno) e realizzò una nuova medaglia di Guidobaldo della Rovere. In quest’occasione il duca di Camerino espresse il desiderio di condurlo nella propria città perché ritraesse la moglie Giulia Varano e i restanti membri della famiglia222.
Allo stesso periodo risale probabilmente anche la medaglia che Leoni coniò e firmò per Baccio Bandinelli223: va infatti identificato con l’artista fiorentino “lo scultore che il Sansovino non degna e il Buonarroti biasima” – un personaggio che, secondo Pietro
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Come nota Desjardins a proposito del Mercurio volante di Giambologna (1883, p. 65), l’invenzione risale agli affreschi della Farnesina (il Mercurio, frontale, e i due Amorini in volo, di profilo, sono riprodotti in Fischel 1962, tavv. 240-242), ma la stessa iconografia è proposta con leggere varianti anche in un medaglione con Danzatrice della Loggia Vaticana (Dacos 1977, p. 279, n. XIV.b, tav. CXXIVa). La posa dell’Amorino alla Villa Farnesina, che col braccio levato indica dietro di sé, fu poi ripresa da Perin del Vaga in un affresco oggi perduto (Nettuno placa le acque, ante 1533, Fassolo, Villa Doria), ma collegato dai più ad un disegno di mano fiamminga, l’Intervento di Mercurio, della National Gallery of Scotland (Parma Armani 1986, p. 272, n. A.IX.6). Tuttavia, già per Paolo Giovio il Mercurio raffaellesco era dipinto “a similitudine di quello di marmo, il quale ancora oggidì vediamo ne la [medesima] loggia di Leone [X]” (lettera a Girolamo Scannapeco del 1534-35, in Giovio ed. 1956-58, I, p. 179, n. 60a, segnalatami da Marco Collareta). John Shearman vedeva invece la figura raffaellesca “ispirata […] da rare figure di atleti che corrono e dal Ganimede Vaticano”, statua il cui ingresso nelle collezioni pontificie pare però più tardo (Shearman 1983 (1967), p. 68; cfr. Helbig 1898, I, p. 255, n. 406). La critica leoniana (Vermeule 1952), seguita da quella giambolognesca più recente, si è limitata invece caparbiamente a stabilire un nesso genetico, diretto ed esclusivo, tra la medaglia per Massimiliano (dove in realtà il gesto deittico del braccio non ha altra ragione d’essere che la riconoscibilità dello schema) ed il bronzetto bolognese del fiammingo (per la cui bibliografia rinvio alla mia scheda in Paolozzi Strozzi e Zikos 2006, p. 258, n. 52): si è così trascurato il fatto che nel 1551 la figura del dio volante era da decenni un tema privilegiato dello studio dell’antico. Qualunque fosse l’esemplare di riferimento, nella medaglia leoniana il tipo del Ganimede di Leocare, filtrato dalla consacrazione raffaellesca e periniana come Mercurio in volo, si prestava a descrivere la disponibilità di Massimiliano ad assumere il governo di qualsiasi regno dello scacchiere asburgico, come sottolineava il motto “QVO ME FATA VOCANT” (sulla biografia di Massimiliano cfr. ora Sutter Fichtner 2001, pp. 50-62).
219 Bibliografia: Armand 1883-87, I, p. 165, n. 13; Plon 1887, p. 257; Habich 1924, tav. XCII, fig. 4; Toderi e
Vannel 2000, I, p. 46, n. 41. Esemplari principali: Valerio 1977, p. 138, n. 96; Pollard 1984-85, III, p. 1228, n. 715; Philip Attwood, in Scher 1994, pp. 151-152, n. 49; Johnson e Martini 1995, p. 125, nn. 2264-66; Börner 1997, p. 170, n. 736; Attwood 2003, I, p. 96, n. 11 (nota la scelta iconografica quattrocentesca adottata per il rovescio, che è riconducibile a mio avviso ad una scelta di decoro più dimessa e commisurata al ceto del committente); Toderi e Vannel 2003, I, p. 50, nn. 431-432. Sull’iconografia dei de Hanna cfr. anche Whitcombe Greene 1885, pp. 148-153; Bergmann 1844-57, II, pp. 1-4. L’iscrizione del rovescio, “SPES MEA IN DEO”, deriva da Psalm., 61, 8, 2.
220 Armand 1883-87, I, p. 169, n. 29; Toderi e Vannel 2000, I, p. 277, n. 797 (rifiutano inspiegabilmente
l’attribuzione a Leoni). Esemplari principali: Johnson e Martini 1995, p. 123, nn. 2257-58; Attwood 2003, I, p. 97, n. 12.
221
Bibliografia: Armand 1883-87, I, p. 169, n. 34 (Leoni), e III, p. 63, n. jj; Plon 1887, p. 276; Toderi e Vannel 2000, I, p. 47, n. 46. Esemplari principali: Börner 1997, p. 174, n. 754; Attwood 2003, I, p. 97, n. 13.
222 Gronau 1933, pp. 494-495, nn. III e VI (luglio 1545). 223
Bibliografia: Armand 1883-87, I, p. 163, n. 4 (con attribuzione a Leoni sulla scorta della firma); Plon 1887, p. 268; Habich 1924, tav. XCII, n. 7; Toderi e Vannel 2000, I, p. 57, n. 84; Attwood 1997, pp. 3-9 (data la medaglia a prima del 1547 sulla base della sua menzione nel Memoriale di Bandinelli: cfr. Colasanti 1905, p. 425). Esemplari principali: Rizzini 1892, p. 35, n. 227; Hill 1912, p. 55, n. 32; Hill e Pollard 1967, p. 81, n. 428; Valerio 1977, p. 141, n. 102; Pollard 1984-85, III, p. 1232, n. 717; Johnson e Martini 1995, p. 112, n. 2213; Börner 1997, p. 170, n. 735; Attwood 2003, I, p. 99, n. 20; Toderi e Vannel 2003, I, p. 52, nn. 453-455. L’impaginazione entro un serto d’alloro riprende la medaglia leoniana dell’Aretino e il concetto del merito civico dell’artista.
Aretino, aveva scritto a Leoni nel 1552224. A giudicare dall’andamento dei ciuffi di barba, dalle movenze del panneggio e dal taglio del busto, piuttosto anomalo nella produzione del nostro, appare verosimile che Bandinelli avesse fornito anche un disegno preparatorio per il recto225.
Le commissioni artistiche che si distribuiscono tra il viaggio veneziano del 1545 e l’incontro con Ferrante Gonzaga nel 1547-48 furono seguite in buona parte dal carteggio di Pietro Aretino, che tendeva a presentarle come conseguenza di una rete di contatti da lui precedentemente fornita: i contatti con Urbino erano stati procurati da una serie di missive del letterato, che avevano preparato la prima visita dell’artista nel 1537226; e la medaglia del
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Aretino 1997-2002, VI (1557), p. 135, n. 133. Una medaglia del Bandinelli fu interrata nelle fondamenta del coro di Santa Maria del Fiore assieme ad una medaglia di Cosimo I coniata dopo il 1537 (Colasanti 1905, p. 425). L’identificazione della prima medaglia con il tipo leoniano non è però certa, perché lo scultore fiorentino, ritratto in conio più volte, lasciò in bianco il rigo del Memoriale in cui intendeva riportare la legenda degli esemplari sepolti. Se teniamo però conto del fatto che l’autobiografia fu scritta entro il 1559, e che la parte bandinelliana del coro fiorentino è datata entro il 1555, l’identificazione della medaglia di Bandinelli con quella realizzata intorno alla metà degli anni quaranta da Leoni non risulta in contrasto con gli elementi a nostra disposizione. Il motto “CHANDOR ILLAESVS”, iscritto nel rovescio, alludeva alle origini nobiliari rivendicate dal Bandinelli e contestate dai suoi oppositori, ma era già stato precedentemente adottato da Clemente VII per alludere alla congiura cui il Pontefice era sopravvissuto (cfr. Giovio 1556, p. 33, e Perry 1977, pp. 676-677) e, forse, anche per ribadire la purezza e la legittimità dei propri chiacchierati natali. Secondo Domenico Buoninsegni, inventore dell’impresa, il diamante, essendo il minerale più bianco, era anche l’unico materiale che i raggi solari non bruciavano e non corrompevano.
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Si cfr. la barba della medaglia leoniana con quella della Testa virile del Victoria and Albert Museum, che è un rilievo autografo (Pope-Hennessy 1964, p. 445, n. 474, tav. 473); i corsi artificiosamente regolari delle ciocche di capelli e le pieghe generate dalla fibula sulla medaglia ricordano invece l’autoritratto del Louvre (per il quale cfr. ora Marc Bormand, in Bresc-Bautier 2006, p. 73, n. RF129) e quello, datato 1556, del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze (Luisa Becherucci, in Becherucci e Brunetti 1969, I, p. 288, n. 176). Per il troncamento della spalla e del busto, si veda infine la versione dell’autoritratto bandinelliano conservata in una collezione privata di Varsavia (Galicka e Sygietyńska 1992, pp. 805-807, con un elenco aggiornato della altre versioni esistenti e perdute; colgo l’occasione per ringraziare Massimo Ferretti, che ha attirato la mia attenzione sul problema). L’esistenza di un disegno preparatorio per la medaglia è già ipotizzata da Attwood 1997, p. 5, che ritiene di poter identificare questo modello in un autoritratto del Bandinelli tratteggiato a carboncino su di un foglio del British Museum (Ward 1988, p. 65, n. 36). A mio giudizio la proposta non convince del tutto, giacché il disegno rappresenta una fronte meno stempiata, suggerisce un taglio a mezzo buzzo e propone un robone moderno e una pettinatura affatto diversa da quella della medaglia. L’indicazione è però valida per altri versi, poiché sappiamo che Baccio fornì un modello a penna (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, n. 14964F) per il suo ritratto a stampa, intagliato da Niccolò della Casa; per giunta, la stessa autobiografia dello scultore attesta che egli seguiva e correggeva personalmente la realizzazione delle proprie effigi a bulino (Colasanti 1905, p. 433: sull’intera questione cfr. da ultimo Fiorentini e Rosenberg 2002, pp. 34-44, che passano in rassegna le diverse incisioni che ci tramandano il volto dello scultore). Sappiamo infine che Bandinelli si prestava volentieri a fornire disegni per medaglie: in una lettera a Clemente VII dell’8 agosto 1533 (edita in Waldman 2004, p. 126, n. 227) egli dichiara di avere “ritrato el Ducha [Alessandro de’ Medici] e fatoli fare una medaglia per mandarne atorno di bronzo chome questa vi mando, che se n’è gitate parechie cintinaia”; e l’edizione giuntina delle Vite del Vasari ricorda che Baccio “fece fare” a Francesco da Prato, “suo amicissimo”, una medaglia di Clemente VII da donare a proprio nome (Vasari 1966-87, V, p. 252), il che lascia supporre che lo scultore avesse esercitato sul ritratto un certo controllo. Mentre questo secondo tipo è già stato riconosciuto in un tipo fuso nel quale la stilizzazione della barba è innegabilmente bandinelliana (Toderi e Vannel 2000, II, p. 475, n. 1404), la medaglia di Alessandro I, pure fusa, potrebbe essere identificata qui in un tipo dello stesso Francesoc da Prato (Toderi e Vannel 2000, II, p. 476, n. 1406) nel quale l’andamento dei capelli e il panneggio a lamine angolose ricordano la maniera di Baccio. Assumerebbe allora nuovo risalto il commento acido (opportunamente ricordato da Attwood 1997, p. 9) che la Vita di Cellini mette in bocca al Bandinelli durante l’udienza in cui Clemente VII commissionava al primo il celebre doppio d’oro con l’Ecce Homo: “A questi orafi, di queste cose belle bisogna fare loro e’ disegni” (Cellini, 1, 45, ed. 1996, p. 175).
226 Aretino 1997-2002, I (1538), p. 177, n. 110, lettera al Duca del 5 aprile 1537 (attesta il transito di Leoni da
Urbino) e p. 246, n. 167, lettera all’ambasciatore veneto di Urbino, Giangiacomo Leonardi, del 20 luglio 1537.
poeta Francesco Molza, coniata a Modena nello stesso 1545, rientrava nella strategia aretiniana di esaltazione d’artisti e uomini di lettere come illustri e creatori di fama (a tal punto che il Bacci ritenne opportuno plaudere all’iniziativa in una celebre lettera)227. Al di là dell’esosità di Martin de Hanna – che ci pare di sentirsi vantare, con la sua medaglia firmata in bella vista dal ritrattista cesareo – la nuova classe medaglistica si contraddistingueva per un sensibile allontanamento dagli standard antiquari, rintracciabile nell’assenza di perlinatura, nel modulo ingrandito delle lettere e nei margini appena visibili della ghiera per l’iscrizione, perfettamente complanare (nella medaglia di Daniel, figlio di Martin, la ghiera epigrafica si distingue invece per l’inusuale brunitura). Proprio questa difformità – che risiede nella distanza tra la formula richiesta e la categoria dell’effigiato – minò inappellabilmente la possibilità di un seguito coerente per queste nuove tipologie. Poco dopo la morte dell’Avalos (1546) Leoni attraversò un secondo periodo di peregrinazioni, e fu forse col concorso di Annibal Caro, segretario di Pierluigi Farnese, che egli venne assunto per breve tempo dalla Zecca di Parma e Piacenza228. Già nel 1544 Pietro Aretino, motivato a intrattenere relazioni col nuovo Duca, aveva inviato a Ottavio Farnese, genero dell’Imperatore, una medaglia cesarea fusa in tutta probabilità dall’antico protetto (1543) e passata per le mani di Francesco Franchini, poeta latino dai comprovati interessi ecfrastici229. Fu così che nel 1547 Leone incise anche i coni destinati alle province pontificie della Marca e della Romagna230.
227
Aretino 1997-2002, III (1546), p. 226, n. 248. Sulle committenze artistiche dei De Hanna si vedano anche Broulez 1959, pp. 3-11; Broulez 1965, p. VII; Cohen 1996, pp. 709-714. È opportuno notare che la lettera dell’Aretino, sottolineando che le medaglie dovevano celebrare solo persone di chiara fama e non “sarti e beccai”, finiva per stigmatizzare commissioni ambiziose come quella dei De Hanna, che Leoni, destinatario