Cap I.7 Appunti per una cronologia degli spostamenti di artisti ed opere
III. La svolta del 1548-
Nonostante l’ambizione di Alfonso d’Avalos a rilanciare Milano come centro artistico, alla morte del Marchese (1546) la richiesta di medaglie, incentrata ancora sulla corte e sulla personalità del Governatore, era così precaria che un avvicendamento in quella carica (poi ricoperta da Ferrante Gonzaga tra il 1547 ed il 1554) poté in breve far venire meno la presenza dell’artista del momento, Leoni, e far vacillare la produzione stessa di microritratti metallici. Ben illustra questa situazione lo iato prodotto nella monetazione milanese di quegli anni dall’assenza dello scultore aretino, nuovamente attratto dalla corte farnesiana di Piacenza (che qualche anno prima aveva sottratto al firmamento artistico ambrosiano le doti di Alessandro Cesati). La richiesta di medaglie e di opere fusorie che esulassero dalla routine dei bravi orafi locali era rimasta limitata, e due fuoriclasse flessibili ed esperti come Leone Leoni e Iacopo da Trezzo, ciascuno con aiuti e bottega, erano bastati a soddisfarla. Anche per la glittica, gli anni quaranta e i primi cinquanta segnarono un equilibrio fragile, in cui artisti più tradizionali come Francesco Tortorino (attivo dal 1553 fino al 1571 almeno)729 si spartirono la piazza con gli esordienti Iacopo e Francesco da Trezzo: i tre, essendo probabilmente i più dotati, si orientarono sintomaticamente verso la committenza principesca medicea e il mercato dell’esportazione; artisti come Giovannantonio de’ Rossi, sfruttando le proprie competenze di intagliatori, lasciarono invece la città e saggiarono aree come Roma, Padova e Firenze. Persino nella bottega di Leone Leoni una figura bistrattata come Martino Pasqualigo giudicò preferibile allontanarsi dal monopolio del maestro per tentare la fortuna a Venezia presso Pietro Aretino (1545), dove pure i medaglisti non mancavano730.
726 Toderi e Vannel 2000, II, risp. p. 103, n. 237, e p. 45, n. 37. 727
Sul soggetto dei due rovesci, che raffigurano un sogno premonitore di Cardano, cfr. infra, cap. II.4.
728 Toderi e Vannel 2000, I, p. 36, n. 12 (1506).
729 Sull’opera di Francesco Tortorino si vedano almeno Kris 1929, pp. 82-83; Venturelli 1996, pp. 49 e 94;
Venturelli 1997, pp. 138-150 (che identifica un suo specchio al Museo degli Argenti di Firenze); Venturelli 1998 (2), p. 273, nn. 73-75 (con una bio-bibliografia ragionata), Venturelli 2005 (2), p. 299, e soprattutto Venturelli 1998 (3), pp. 195-206 (con una rassegna del catalogo e dei documenti). Nel 1569 Tortorino realizzò un vaso in cristallo per Massimiliano II d’Austria (Kris 1929, II, p. 83). Un vaso, un boccale, un bacile e un bicchiere in pietre dure sono inventariati nel 1587 tra i beni di Ranuccio Farnese come opera di un Tortorino non meglio precisato (Campori 1870, p. 55).
730
Delle vicende di Martino successive al suo soggiorno milanese sappiamo dalle Lettere di Pietro Aretino, il quale si sdegnò con Leone per l’aggressione da lui perpetrata ai danni del giovane: Aretino 1957-60, III, p. 74, n. CCXXXVI (giugno 1545) e IV, p. 159, n. CCCXLII (aprile 1546): “Vi pareva egli che si convenisse a lo amor che vi porto, sì per l’esser d’una patria istessa, sì perché non avete pari in gl’intagli, il non alterarmi nel caso di Martino [Pasqualigo]? […] Saria forza che la propria vostra coscienza vi inimicasse con voi medesimo in tutto; e tanto più, quanto [Martino] non vi fa vergogna ne l’arte, in cui imita sì bene voi, suo maestro, che gloriare vi potete, e non pentire, d’avergliene come gliene avete insegnata”. Il catalogo del Pasqualigo rimane pressoché sconosciuto: se però è corretta l’identificazione tra Martino e il “MARTs. PASQ” che siglò una medaglia del genovese Daniele Centurione (Bernhart 1925-26, p. 73; Börner 1997, p. 184, n. 795; Attwood 2003, I, p. 173, n. 229), dell’insegnamento di Leoni e delle convenzioni proprie dei microritratti milanesi (tra i quali lo classificano Vannel e Toderi 2000, I, p. 66) Martino non serbò in questa fase alcuna traccia.
L’arrivo a Milano del principe ereditario Filippo, nel 1548, smosse invece le acque in maniera irreversibile: la commissione di un modello di Piacenza da donare all’infante e la lusinga di poter ritrarre il futuro sovrano in medaglia e in una statua a grandezza naturale richiamarono in città Leone. Pietro Paolo Romano, in cerca di fortuna, si trasferì Milano, dove ci è segnalato da Lomazzo731; Pompeo Leoni esordì come orafo a Piacenza per affiancare poi il padre nella loro bottega presso Santa Maria della Scala, e il matrimonio della figlia del Governatore Ippolita convertì definitivamente Iacopo da Trezzo al sacro fuoco della medaglia fusa.
Nella sfilata dei maggiorenti cittadini, convenuti per salutare il futuro sovrano, la microplastica e la glittica milanese, alimentate da nuove commissioni, assunsero piena visibilità nella forma di badges da cappello732. Milano, nuova Graecia capta, si scoprì capace di capolavori degni di monarchi ed esportabili da Monaco a Napoli, da Madrid alle Fiandre. La maturità artistica del maestro aretino e la committenza diretta della famiglia imperiale segnarono un punto di non ritorno su più fronti: nello stesso anno in cui aveva preso avvio la vicenda che avrebbe portato alla fusione delle statue bronzee per Carlo V e Maria d’Ungheria, si era aperta anche (troppo tardi perché le Vite vasariane del 1550 potessero tenerne conto) una quarta età della scultura in metallo, alimentata dalla stabilizzazione politica dei principati italiani.
Microritratti metallici dal formato parossistico, abbigliati con superbe loriche ageminate e corredati di rovesci i cui paesaggi evocavano gesta di proporzioni olimpiche, conquistarono la generazione di Carlo V e presero a circolare tra i suoi vassalli, facendo perdere la testa a governatori come Ferrante Gonzaga, Consalvo Hernández de Córdoba e Francesco d’Avalos, che vollero farsi effigiare come i sovrani. Tra la fine degli anni quaranta e il decennio successivo, la forza attrattiva dei modelli leoniani più illustri prese così a interessare soprattutto le committenze più pretenziose: busti, impaginazioni e andamenti
Temanza colloca la nascita di Martino a Milano intorno al 1524, e la sua morte a Venezia nel 1580, sulla scorta di un sonetto di Giovambattista Maganza che commemora la scomparsa di “Martino Pasqualigo” assieme a quella di Andrea Palladio (Temanza 1778, I, p. 385, con trascrizione del componimento, e nota a). Ridolfi (Ridolfi 1914-24, 1606, I, p. 201) attesta invece l’esistenza di un ritratto tizianesco di “Martino scultore giovinetto” nella collezione seicentesca di Bertoldo da Fino, dalla quale il dipinto è pervenuto alla Corcoran Library di Washington D.C. (Wethey 1969-71, II, p. 121, n. 71, con data 1545-46). L’assenza di cicatrici sul volto indurrebbe a fissare la datazione del ritratto al 1545, mentre il ritratto registrato nel 1627 all’interno della collezione Vendramin di Venezia, essendo contrassegnato dalla macabra iscrizione “MARTINO DALLO SFRISO”, dovrebbe essere più tardo.
Pare invece sfuggita alla critica la menzione di un “Martino scultore” che viene invitato nella casa veneziana di Enea Vico assieme a Pietro Aretino e Francesco Marcolino nella Chiachiera XIII della Zucca di Antonfracesco Doni (2003 (1551), I, p. 187, dove l’artista, nominato anche nelle tavola degli Uomini onorati a p. 30 come “Martino eccellente”, non è identificato dalla curatrice). Al medesimo convito, immaginario o reale che sia, prende parte anche l’organista fiammingo Iakob Buus, attivo a Venezia tra il 1541 e il 1550 e ritratto in una medaglia ascritta a Leone Leoni ancora da Toderi e Vannel 2000, I, p. 47, n. 49, e da Attwood 2003, I, p. 98, n. 18 (la cui scheda è utilissima per i dati biografici). Ora, dato che la medaglia del musicista è a sua volta legata stilisticamente ad un gruppo di medaglie della famiglia de Hanna (Toderi e Vannel 2000, I, pp. 46-47, nn. 42, 47 e 48, ma cfr. qui il cap. I.1), e visto che alcune di queste presentano affinità col ritratto del Centurione nella conformazione del naso e nella delineazione di orbite e pupille, non escluderei che un nucleo dell’opera veneziana di Pasqualigo possa essere rintracciato in queste quattro medaglie, commissionate da figure che intrattenevano rapporti con Pietro Aretino e con la sua cerchia. Purtroppo, le differenze tecniche sussistenti tra la medaglia fusa di Daniele Centurione e quelle di Buus e dei de Hanna, originariamente coniate e sopravvissute in esemplari un po’ stanchi, non facilitano la soluzione immediata del problema, che mi limito qui a metter sul tavolo in attesa di ulteriori verifiche.
731 Lomazzo 1973-74 (1563 circa), p. 64. 732
Campi 1585, p. XXIII, descrive nel corteo del 1548 “duecento gentilhuomini armati” che “havevano berrette di velluto con finissime piume bianche e bellissime medaglie d’oro”, e poi ancora “doceci […] gentilhuomini de’ principali della città” che “al collo portavano catene d’oro di gran valore, e le berrette erano di velluto negro con piume, medaglie e gioie di gran prezzo, e le spade e pugnali co’ fornimenti indorati”.
epigrafici solenni ricalcarono i prototipi dell’aretino non solo nell’opera di figure artistiche secondarie (come l’autore della medaglia dell’armaiolo Filippo Negroli733, che dipendeva strettamente da quella leoniana di Filippo II), ma anche in ritratti di alto profilo come la medaglia trezziana di Ippolita Gonzaga (1551-52)734. Nell’uno e nell’altro caso, i tipi leoniani preferiti risultarono i ritratti all’antica, caratterizzati da soluzioni più artificiose. Non di rado l’attenzione degli imitatori si soffermò su formule sublimi come le clausole del panneggio, che avvolgevano morbidamente l’interruzione del busto e delle spalle.
Le invenzioni leoniane si imposero soprattutto nelle tipologie più prestigiose, come i medaglioni. Il taglio a cuore del microritratto di Ferdinando d’Asburgo (1551)735 – scorciato da un leggero squilibrio e bilanciato dall’accenno prospettico alla spalla nascosta e dalla rispondenza ritmica tra l’aggetto della corazza e il profilo della testa – fu ripreso ad esempio nella medaglia anonima di Alvaro de Luna736, castellano cremonese e ufficiale asburgico. Altri riadattamenti dell’impaginazione leoniana si possono rintracciare nel medaglione di Francesco d’Este (modellato forse da Iacopo da Trezzo)737 e in un microritratto anonimo di Federico Gonzaga (1563)738. Un ibrido tra il busto della medaglia di Carlo V e quella del fratello compare anche in un medaglione di Cosimo I (1569-74)739: pochi anni prima (1555) un sonetto del Varchi aveva additato all’autore del ritratto ducale, Domenico Poggini, la recente ascesa sociale e artistica di Leone Leoni: non è dunque impossibile che lo scultore mediceo avesse considerato il modello del suo conterraneo anche sotto il profilo figurativo, giacché tagli simili sono assenti dal repertorio della medaglistica toscana740.
Nella seconda metà del XVI secolo l’attività dello scultore aretino, feconda più d’altre di novità, scandì il passare dei lustri anche nella scelta dei formati e dell’impaginazione epigrafica. Giovani aristocratici estranei all’amministrazione asburgica (Carlo Visconti, Francesco d’Este e la moglie Maria Cardona) richiesero medaglie di modulo grande ispirati a quello che Leoni aveva messo a punto per Martin de Hanna nel 1545: la nuova classe si contraddistingue per un allontanamento dagli standard antiquari rintracciabile nell’assenza di perlinatura, nel modulo delle lettere e nei margini incisi della ghiera per l’iscrizione, ma anche nella semplicità iconografica e spaziale dei rovesci.
Mentre i modelli di Leone conoscevano un largo seguito, i suoi nuovi impegni come scultore monumentale (1550-56) lo sottrassero quasi completamente al genere medaglistico. Per qualche anno fu Iacopo da Trezzo, suo fedele e pulito interprete, a tenere banco e a monopolizzato le commissioni del governatore Ferrante Gonzaga741. Le medaglie
733
Toderi e Vannel 2000, I, p. 107, n. 260 (del 1553). Sulla medaglia leoniana di Filippo II cfr. Toderi e Vannel 2000, I, p. 50, n. 60.
734 Toderi e Vannel 2000, I, p. 61, n. 95 (del 1551-52). 735 Toderi e Vannel 2000, I, p. 57, n. 86 (del 1551). 736
Toderi e Vannel 2000, I, p. 123, n. 329 (terzo quarto del secolo XVI).
737 Toderi e Vannel 2000, II, p. 397, n. 1174.
738 Toderi e Vannel 2000, I, p. 150, n. 394 (anonimo).
739 La medaglia medicea (Toderi e Vannel 2000, II, p. 497, n. 1473) trae da quella cesarea il taglio della spalla
e l’accorgimento prospettico costituito dal panneggio cha attraversa diagonalmente la corazza descrivendone la carenatura e la profondità, ma prende dal ritratto di Ferdinando d’Asburgo la variante relativa alla spalla più lontana, accennata dal mantello.
740 Varchi 1555, p. 260: “Voi, che seguendo del mio gran Cellino / per sì stretto sentier l’orme onorate, / ori et
argenti e gemme altrui lasciate / per bronzi e marmi e creta, alto Poggino; / e la bell’opra del buono Aretino / non con la lingua pur tanto lodate, / ma con la mente ancor sempre ammirate / certo, e meco di lei vero indovino; / tal gloria all’Arno accrescerete, e tanto / a’ metalli splendor, che Donatello / se non minor, sarà certo men bello, / e Flora al quarto e forse al quinto vanto / giugnerà il sesto, ond’io di pensieri egro, / e d’anni grave a trista età m’allegro”.
741 Se consideriamo le datazione proposte per le medaglie di Ippolita Gonzaga nel cap. I.2, appare
significativo anche il fatto che la prima di esse, opera del Nizolla, fosse stata realizzata tra il 1549 ed il 1550, cioè in un lasso di tempo che si sovrappone parzialmente con quello in cui Leoni, dal novembre 1548 al 1549
di Iacopo fornirono così a loro volta dei paradigmi di stile e di iconografia per altri plasticatori (come l’anonimo autore delle medaglie di Ercole Gonzaga e quello della medaglia di Pierfrancesco Pallavicini)742. Poi – complice un altro matrimonio, quello di Filippo II con Maria Tudor, celebrato nel 1554 – anche il Nizolla prese la via delle Alpi già battuta da Leone Leoni, e andò a colmare un posto rimasto vuoto nei ranghi della casa reale del nuovo sovrano di Milano, quello di medaglista ed incisore di coni per la corte di Bruxelles.
La partenza del Nizolla motivò anche l’ultimo coinvolgimento di Leone Leoni in opere medaglistiche, che comportò l’elaborazione di fortunate varianti autografe dei suoi precedenti tipi ritrattistici. Non appena realizzate, le medaglie di Ferrante Gonzaga, di Consalvo Hernández de Córdoba e di Francesco Ferdinando d’Avalos vennero replicate per collezionisti come Antoine Perrenot de Granvelle e presero a circolare nelle corti del sistema politico asburgico. L’impatto del ritratto di Ferrante Gonzaga (1556) sulla medaglistica del secondo Cinquecento si presta bene a illustrare la diffusione sempre più ampia delle medaglie leoniane743. Il taglio del busto di Ferrante è assai peculiare e facilmente riconoscibile: la spalla sinistra dell’effigiato rasenta l’iscrizione gettando un’ombra profonda, come posasse sulla legenda, mentre la spalla destra, poco aggettante, pare calare dietro l’iscrizione. La terminazione dell’addome è sagomata a punta per assecondare la ritmica della corazza carenata, ma è completamente dissimulata dal panneggio, dalla didascalia e dallo scorcio. L’andamento delle spalle è concentrico al margine ed i compassi che hanno tracciato il tondello e le ghiere per l’iscrizione sono presi sulle proporzioni che scandiscono la figura. L’impaginazione leoniana fu ripresa immediatamente nella medaglia di Antonio Abbondio che ritrae Niccolò Madruzzo (un calco di poco successivo al 1556, rimodellato leggermente ma fedele anche nel modulo del tondello e nella forma delle lettere), e ritorna con leggere modifiche anche nella medaglia che “PPR” fuse dopo il 1558 per Giovambattista Castaldo, un altro alto ufficiale delle milizie asburgiche744. Quel che più impressiona è che il modello leoniano rimase attivo nel repertorio medaglistico per quasi quarantennio, perché ancora nel ritratto abbondiesco di Sigismondo III di Polonia (1592 ca.), a dispetto di un innegabile stacco stilistico, permangono del prototipo l’impostazione del busto e la posizione della testa, che è quasi un calco di quella di Ferrante745.
Al contempo, l’apertura politico-culturale dei governatori asburgici, i lasciapassare della cerchia varchiano-medicea e la fama del Perseo fiorentino avevano dischiuso le frontiere della Lombardia ad alcuni aiuti di Cellini proprio nel momento in cui l’egemonia di Leoni si indeboliva per le sue fortune fiamminghe. Pietro Paolo Romano riuscì così a inserirsi nel mercato insorgente della medaglia patrizia, che a Milano compiva i suoi primi passi alla fine del sesto decennio del XVI secolo. Le prime opere di “PPR”, commissionate da un musicista (Giovanni Michele Zerbi), da un ex-esule (Giovanfrancesco Trivulzio) e da un
incluso, mancò da Milano. La medaglia del 1550-51 fu invece commissionata allo scultore toscano, che in quel periodo dimorava nel capoluogo lombardo (a parte una breve assenza nel 1551, giustificata dal suo viaggio ad Augusta).
742 Sulla medaglia di Ercole Gonzaga (che Attwood 2003, I, pp. 126-127, riconduce al corpus della
personalità da lui battezzata “unidentified Milanese medallist, II”, attiva intorno al sesto decennio del secolo), cfr. supra, cap. I.2. La medaglia del Pallavicini (schedata da Toderi e Vannel 2000, II, p. 376, n. 1122, come medaglia anonima genovese, databile dopo il 1550) mostra un’indubbia parentela stilistica con il profilo di Francesco d’Este ed il rovescio della medaglia gonzaghesca, ma non mi spingerei ad affermare che siano della stessa mano. Essa va però vigorosamente ricondotta nell’alveo di questi episodi figurativi milanesi, che Pierfrancesco poté forse conoscere al Concilio di Trento, cui presenziò lo stesso Ercole Gonzaga.
743 Per la datazione del tipo al 1556 cfr. Cupperi 2002 (1), p. 105, app. 1.
744 Cfr. risp. Toderi e Vannel 2000, I, p. 159, n. 416 (come anonimo), e II, p. 514, n. 1534 (come “Galeotti”). 745 Toderi e Vannel 2000, I, p. 173, n. 483.
fiero antagonista del Governatore, il gran cancelliere Francesco Taverna746, parlavano un linguaggio interlocutorio rispetto ai successi di Leoni e Nizolla, ma delineavano già una clientela nuova.
D’altro canto, il consolidamento della produzione di medaglie e l’affermazione di una continuità tipologica e tecnica tra la prima e la seconda generazione dei medaglisti di età spagnola non impedivano che la committenza precaria espressa da una corte di semplici governatori facesse sentire più appetibili altre posizioni747. Ancora nel 1562 per Pier Paolo Romano la chimera di un impiego fisso, testimoniata dalle medaglie e dal busto che egli fuse per il duca Ottavio Farnese, valse un allontanamento da Milano. Del resto, già nel 1553-54 Pompeo Leoni, ritenendo l’ambiente milanese poco stimolante anche per la presenza ingombrante del padre Leone748, si era rivolto prima al mecenatismo estense, poi a quello di Antoine Perrenot (1552-54) ed infine alla protezione di Filippo II (1556), che aveva garantito al giovane Leoni un impiego salariato a Madrid.
IV. Dopo il 1556
Nonostante l’impegno di Leone Leoni nell’assicurare microritratti ai governatori che ne facessero richiesta, con il 1556 si aprì ufficiosamente la ricerca del suo successore nel ruolo di artista leader del microritratto. Non è da escludersi che la prima, mediocre medaglia di Giovambattista Castaldo (posteriore al 1551 e forse anche al rientro del generale in Italia nel 1555) possa essere letta come il segnale di questa vacatio, tale dal disorientare anche un committente esigente come il nocerino e da spingerlo a ricorrere a un artista poco pratico di medaglie e vicino piuttosto, per certi versi, allo stile di Francesco Tortorino749.
È invece documentato il fatto che intorno al 1560, giungendo dalla vicina Brescia per lavorare per alti ufficiali come lo stesso Castaldo e come Francesco Ferdinando d’Avalos (probabile committente della medaglia che lo effigia con il padre Alfonso), Cesare Federighi da Bagno si candidò per qualche anno a diventare il medaglista di spicco del
746 Lo stesso Francesco Taverna, nelle sue pretese di novità, attira nel 1559 una personalità anonima del tutto
estranea alla tradizione lombardo-toscana e forse anche a quella italiana, il monogrammista “VVP”, che sigla anche l’effigie della signora Taverna, Clara Tolentino (cfr. infra). Per il primo ritratto cfr. Armand 1883-87, II, p. 205, n. 13; Vanner e Toderi 2000, I, p. 78, n. 148; esemplari principali: Rizzini 1892, p. 94, n. 655; Börner 1997, p. 181, n. 785. Per il secondo (che è quello datato 1559, ed ha lo stesso diametro di 71-72mm), cfr. Börner 1997, p. 181, n. 786.
747 Elementi tecnici comuni al buona parte della produzione medaglistica milanese post-leoniana sono: la
fusione di tondelli che vengono puliti, ma non più ridefiniti dalla cesellatura a freddo; la modellazione dei bordi attraverso ghiere sovrapposte; l’utilizzo sistematico dei punzoni per le sole lettere, ma non per la figurazione, e l’impiego di patine artificiali brune.
748 Cfr. la lettera di Leone Leoni s.d. (ma del 1551) ad Antoine Perrenot (Plon 1887, p. 365, n. 31): “Ho tenuto
qunato ho potuto il morso del mio pocco amorevole figliuolo. Hora egli non lo volendo più sofrire [...], mi ha lasciato con li miei lavori”.
749 Per la medaglia cfr. Plon 1887, p. 273 (con attribuzione a Leone Leoni, seguita da tutta la bibliografia);
Armand 1883-87, III, p. 72, n. R; Regling 1911, p. 14, n. 195; Johnson e Martini 1995, p. 116, n. 2229; Toderi e Vannel 2000, I, p. 56, n. 82. I confronti stilistici più calzanti con opere del Tortorino sono offerti dalla muscolatura e dalle corazze anatomiche di alcune figure intagliate tra il 1554 e il 1565 sulla colonnetta in cristallo già proprietà di Carlo Visconti (oggi Firenze, Museo degli Argenti: cfr. Venturelli 1997, p. 170; per una riproduzione fotografica cfr. Venturelli 1998 (3), p. 205; ma cfr. anche le figure loricate del cammeo firmato con il Sacrificio di Marco Curzio al Kunsthistorisches Museum di Vienna, in Eichler e Kris 1927, p. 116, n. 199). A trattenere da una attribuzione assertiva, oltre alla differenza di medium, è la consapevolezza che nella bottega di Francesco erano attivi anche i due figli Girolamo e Giovanni Maria, le cui peculiarità di stile non sono mai state messe a fuoco. L’accostamento qui proposto valga invece ad indicare come la cultura figurativa testimoniata dalla glittica consenta talora di colmare le lacune del quadro offerto dalla microplastica anche per opere fuse in metallo.
capoluogo lombardo. Solo la sua morte improvvisa e violenta, sopraggiunta nel 1564, lo escluse dai giochi.
Già sotto il governatorato di Cristoforo Madruzzo (che esamineremo da vicino nel cap. II.4), le vicende della medaglia aulica si polarizzarono su di un binomio costituito dal giovanissimo Annibale Fontana e dal più maturo Pietro Paolo Romano, che si alternarono nella realizzazione delle medaglie del principe tridentino e in quelle del Castaldo, fiduciario di quel grande esperto d’arte che fu il ministro Antoine Perrenot de Granvelle. Probabilmente la compresenza dei due medaglisti fu sfruttata per creare un clima di emulazione: i tagli ritrattistici e le soluzioni iconografiche del primo assunsero così un ruolo quasi normativo, mentre il secondo fu indotto a maturare il proprio stile e rinnovare il proprio repertorio un po’ ripetitivo alla luce delle opere di Fontana. Patrizi, professionisti e artisti lo premiarono però delle sue fatiche garantendogli una richiesta costante, uniforme e poco esigente.