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Cap I.1 Leone Leon

11. Medaglie per donne milanesi (1550-51)

La medaglia realizzata da Leoni nel 1550-51 per Ippolita, figlia del governatore Ferrante e ambiziosa nipote d’Isabella d’Este, ci aiuta anche a cogliere quanto il soggiorno dello scultore in Lombardia e le commissioni dei luogotenenti asburgici, provenienti da esperienze visive centroitaliane e mantovane, avessero apportato stimoli nuovi ad una personalità artistica molto attenta al proprio aggiornamento figurativo. I risvolti particolarissimi del drappeggio di Ippolita, spiralizzati attorno al collo, flessi senza soluzione di continuità e ritmati in forma sottilmente varia dalle ombre in cui scalano,

246 RRC 1974, tav. LXII, n. 511/4c (al recto la statua di Nettuno eretta sul faro di Messina). Cfr. Ligorio, XXI,

c. 54r.

247 Van Loon 1732-35, I, p. 48, n. 1; Armand 1883-87, II, p. 255, n. 34; Bernhart 1920-21, p. 114, n. 7; Toderi

e Vannel 2000, I, p. 51, n. 61; Smolderen 2000, p. 300, n. VII (con una attribuzione ad “anonyme: Iacopo da Trezzo?”). Esemplari principali: Cano Cuesta 1994, p. 189, n. 42 (Leoni, seguita dalla bibliografia successiva: l’esemplare considerato, conservato al Museo del Prado, presenta una magnifica lavorazione a freddo che distingue la livrea degli animali attraverso punzonature e cesellature); Börner 1997, p. 174, n. 756.

248 A partire dalla fine del XV secolo e per tutta la prima metà del XVI la decorazione architettonica lombarda

attinse frequentemente ai soggetti mitologici forniti dalle placchette: uno dei casi più eclatanti in tal senso è quello del Moderno, le cui invenzioni si trovano copiate in numerosi edifici privati milanesi, cremonesi e bergamaschi dei primi decenni del Cinquecento (per un elenco non esaustivo cfr. Agosti 1990, pp. 57 e 90, nota 41; e Walter Cupperi, in Avagnina, Binotto e Villa 2005, pp. 215-219, nn. 244, 246, 249). Su tutta la questione debbo al prof. Marco Collareta utilissime segnalazioni e suggerimenti.

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Sulla storia dell’edificio, progettato da Galeazzo Alessi per il banchiere Tommaso Marino (che ritroveremo nei capp. I.3 e I.4 come committente di medaglie attribuite ad Annibale Fontana e a “PPR”) cfr. Bologna 1999, pp. 27-32; i rilievi che copiano le invenzioni leoniane sono riprodotti alle pp. 135 (in controparte rispetto alla medaglia) e 139. La deduzione iconografica è segnalata già da Scotti 1977, p. 105, e da Lanza Butti 2005, p. 61, che la leggono, poco convincentemente, come un “omaggio ad uno dei più importanti artisti attivi a Milano in quel periodo” (Lanza Butti).

250 Sul fenomeno delle decorazioni architettoniche basate su placchette, particolarmente diffuse in Lombardia

fanno pensare ad un tardivo avvicinamento di Leoni a Giulio Campi, artista che l’aretino poté forse conoscere già a Piacenza nel 1545 o a Cremona nel 1549, e del quale vide sicuramente, esposta nella propria parrocchia milanese di Santa Maria della Scala, la pala d’altare del 1550251. Ancora nei panneggi della medaglia di Michelangelo del 1561 (letta finora nell’alveo di un percorso stilistico romanizzante e ‘manierista’)252, Leoni potrebbe in realtà aver guardato Giulio, che di lì a poco, con la Crocifissione per la Cappella Taverna in Santa Maria della Passione e l’avvio delle ante per il Duomo (1567), avrebbe portato a Milano i frutti della propria maturità, riflessi ancora nei panneggi spezzati della statua di Ferrante I a Guastalla, modellata e gettata da Leone tra il 1561 ed il 1564253.

Nel quadro così delineato (entro il quale va richiamata anche la medaglia per Maria d’Aragona) bisognerà infine accennare ad un’ultima medaglia muliebre, raffigurante la cortigiana “Danae”. Da tempo ascritta a Leoni, l’opera può essere inclusa nel suo catalogo solo con riserve254: basterebbero infatti la qualità più univocamente lombarda dello stile, il rilievo appiattito e la pesante forma trapezoidale del busto a giustificare una diversa attribuzione del ritratto della cortigiana che lo scultore frequentava nel 1551. L’artista toscano (a tale data ormai impegnato nelle sue prime imprese statuarie) fu probabilmente il committente dell’opera e l’inventore del vanaglorioso motivo encomiastico suggerito nel rovescio a proposito della cortigiana (Danae amata da Giove), della quale abbozzò forse il ritratto durante un momento di intimità; ma egli non fu l’esecutore dell’opera, come prova un passo del suo carteggio la cui erronea interpretazione, a partire da Plon e da Valton, ha finora indotto a credere autografa la medaglia:

Il reverendo prete Battista [...] vi porta certe cose, più sue che mie. Et in primis il retratto de quela, ch’io sono stato a torto incolpato qui a Milano […]. Dicono alcuni che a questa bella e lasciva e onesta pu… [sic] ho dato otto degli scudi per far etc. Io non voglio se non remetermi ne l’altrui giudizio, e meritando castigo, eccomi pronto ad accettarlo. La ho batizata per Danae. La favola si sa da sé; e se Iove li piove addosso d’oro, io forsi li ho fatto piover piombo. Ma caso che fusse stato oro, che diavol si terebbe? Mirate bene il fronte, il naso, l’ochio nero, la bocca vermiglia, e’ capei d’oro, e’ denti divini, l’onestà con la lascivia. E se così è, come ogni persona che la vede tiene, che error sarebbe stato il mio? E se non fosse

251 Mi pare invece fuorviante la lettura della medaglia gonzaghesca offerta da Francesco Rossi, che parla di

uno spostamento dal “discorso manierista” al “naturalismo” di Giovambattista Moroni in una sede, la mostra dei Campi, che avrebbe invece facilitato ben altri accostamenti (F. Rossi, in Gregori 1980, p. 356, n. 5.9).

252 Bibliografia: Armand 1883-87, I, p. 163, n. 6; Plon 1887, p. 270; Fabriczy 1904 (103), tav. XXXIX; fig. 2;

Hill 1912, p. 60, n. 40; Habich 1924, p. 133 e tav. XCII, fig. 2; Vasari 1962 (1568), I, p. 109, e IV, pp. 1735- 38; Carrara 1996, pp. 219-225; Collareta 1998, p. 68; Toderi e Vannel 2000, I, p. 58, n. 90. Esemplari principali: Gaetani 1761-63, I, tav. LXXIII, fig. 4; Rizzini 1892, p. 35, nn. 228-229; Álvarez-Ossorio 1950, p. 111, n. 172; Hill e Pollard 1967, p. 81, n. 429; Valerio 1977, p. 143, n. 107; Pollard 1984-85, III, p. 1234, n. 719; Philip Attwood, in Scher 1994, p. 155, n. 52; Cano Cuesta 1994, p. 190, n. 43; Johnson e Martini 1995, p. 112, nn. 2214-16; Börner 1997, p. 171, n. 738; Attwood 2003, I, p. 111, n. 61; Toderi e Vannel 2003, I, p. 52, nn. 456-459 (esemplare in argento ottimo, forse autografo).

253 Sulla cronologia del gruppo statuario di Guastalla, rappresentante Ferrante I Gonzaga che trionfa sull’Idra

e su di un satiro, cfr. Cupperi 2002 (1), pp. 83-124.

254

L’attribuzione della medaglia (iscr. r/: “· NON · ABSQE · PLVVIA · DANAE ·”; London, British Museum, esemplare unico e unilaterale, in Attwood 2003, I, p. 106, n. 47) accettata poi da tutta la bibliografia (si vedano Rodocanachi 1907, p. 76; Hill 1920-21, p. 16, n. 70; Bernhart 1925-26, p. 73; Toderi e Vannel 2000, I, p. 53, n. 71), risale a Valton 1905, pp. 496-498. Plon 1887, pp. 264-265, identificava invece la medaglia della prostituta con quella della “bella Felipina” modellata da Leoni in cera e poi fusa in più repliche bronzee da un orefice di monsignor de Granvelle (Plon 1887, p. 366, n. 32, lettera del prelato s.d., ma del 1551); questo secondo microritratto è però quello di Filippina Welser, amante e poi consorte di Ferdinando II d’Asburgo (sulla sua biografia cfr. ora Rauch 1998, pp. 5-8). L’autografia di questa seconda medaglia, insistentemente ascritta al nostro (Toderi e Vannel 2000, I, p. 53, n. 72), andrà al contrario ripartita tra questi e Jacques Jonghelinck, l’“orefice” che secondo la lettera di Granvelle portò a termine la cera leoniana conferendole l’aspetto laccato e la minuzie di particolari del ritratto metallico che conosciamo.

ch’io non voglio parer arogante, alegarei il detto de l’Evangelo: «Qui sine peccato…»255.

L’artista nominato nella lettera, altrove chiamato “frate Batista Aretino”256, era un parente o un collaboratore anziano di Leone che di lì a qualche mese sarebbe andato a infoltire le fila dei fonditori al servizio di Antoine Perrenot de Granvelle; forse è la stessa persona che collaborò anche agli apparati allestiti a Firenze per accogliere Giovanna d’Austria257. Una lettera di Ferrante Gonzaga ad Antoine Perrenot lo definisce inoltre “pre(te?)”, “padrino” di Pompeo Leoni e “huomo di singolare bontà et così virtuoso, che merita di essere aiutato da chi può farlo”258. Ad ogni modo, l’esecuzione della medaglia “più sua che” di Leone potrebbe avere comportato dal parte del chierico interventi di completamento, rimodellazione, impaginazione e finitura non facilmente delimitabili (soprattutto se Battista lavorava con uno stile non troppo dissimile da quello del suo capo bottega).

Al di là delle piacevoli mistioni di aulico e profano che la Casa Aureliana di Leone in via Aretina doveva offrire, l’ecfrasi sopra citata varrà anche a testimoniare le circostanziate funzioni comunicative che accompagnavano, sulla scia dei commenti malevoli, la pubblicazione di simili medaglie galanti.

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