Cap I.1 Leone Leon
4. Un artista itinerante: Padova, Camerino, Urbino (1537)
La medaglia dell’Aretino, già circolata come ritratto autonomo nel 1536, si prestò ad enfatizzare attraverso messaggi di accompagnamento la piccola iscrizione che dichiarava il nome del suo artefice: essa fu infatti inviata a scopo promozionale non solo a Giovanni Gaddi, chierico di Camera del pontefice e già mecenate di Iacopo Sansovino, ma anche a Benedetto Varchi, Ugolino Martelli, Ercole II d’Este e al re d’Algeri Khair Ad-Din, detto Barbarossa. Nelle lettere di dedica del dono, l’Aretino segnalava più o meno esplicitamente la disponibilità di Leoni, come fece il 9 aprile 1537 in una lettera a Ferrante Sanseverino:
Ora io, non perché mi vediate in ariento ma perché vi venga voglia di vedervici, vi mando la mia imagine136.
In effetti, nel corso dell’anno seguente l’invito ad avvantaggiarsi dei servigi del medaglista fu raccolto da alcuni corrispondenti, come il medesimo Principe di Salerno, il suo segretario Bernardo Tasso e Francesco Maria I della Rovere (tutti ritratti su coni che si ritengono perduti). Solo le pressioni a che Leoni venisse assunto nella Zecca estense o in quella urbinate caddero inascoltate.
Grazie alle credenziali fornite dall’Aretino, alla fine degli anni trenta Leoni si spostò così tra il Veneto (dove firmò anche la medaglia di Francesco di Fermo Fermi, musicista veneziano)137, Camerino (dove ritrasse Guidobaldo della Rovere in un conio di cui non pare sopravvivere traccia)138 e forse Urbino, dove egli soggiornò presso la corte per realizzare una medaglia della duchessa Eleonora139 – un’opera che ci pare di poter identificare con il ritratto (ignorato dalla bibliografia leoniana e tuttora perduto) che la medesima donò a
ingegni antichi”: è infatti possibile paragonare “gli scultori e i dipintori che mai non gli viddero e la confusione di coloro che ragionano insieme per mezzo de lo interpretre”.
134 Aretino 1997-2002, I (1538), p. 180, n. 114, lettera al Principe di Salerno del 9 aprile 1537. Sul criterio
della “meraviglia” in relazione alle medaglie cfr. qui l’Introduzione.
135 Aretino 1997-2002, VI (1557), p. 118, n. 115. 136 Aretino 1997-2002, I (1538), p. 180, n. 114.
137 Bibliografia: Armand 1883-87, II, p. 177, n. 2; Hill 1913-14 (2), p. 212 (nota la firma); Toderi e Vannel
2000, II, p. 902, n. 2826 (non tengono conto dell’intervento di Hill e danno la medaglia per anonima). Esemplari principali: Álvarez-Ossorio 1950, p. 159, n. 376 (anonimo); Pollard 1984-85, III, p. 1436, n. 838 (anonimo); Börner 1997, p. 221, n. 988 (anonimo); Attwood 2003, I, p. 94, n. 4 (attribuisce a Leoni e risulta utile per la biografia dell’effigiato, nativo di Bardolino sul Lago di Garda). Il motto del rovescio, “SIC HOMO OPERIBVS ·”, è un riferimento a Cor. I, 3, 13, un passo in cui il Giudizio finale è assimilato al cimento del fuoco.
138 Aretino 1997-2002, I (1538), p. 251, n. 171 (lettera al segretario del Duca Antonio Gallo), e p. 330, n. 234
(lettera a Battista Baffo).
139
Aretino 2003-04, I (1552), p. 327, n. 346 (lettera del 23 aprile 1537). La Duchessa in questione è da identificarsi con Eleonora Gonzaga (come indicano Gonaria Floris e Luisa Mulas in Aretino 1997, I, p. 233, ad vocem) e non con Giulia Varano, come sostiene l’editore Paolo Procaccioli in Aretino 2003-04, I (1552), p. 483. La medaglia della Varano Leoni fu infatti commissionata solo nel 1545: cfr. infra.
Pietro Aretino nel gennaio 1537140. Pur nella precarietà che li caratterizzava, tali spostamenti furono per Leoni i primi segnali di riconoscimento: erano i centri artistici in cui la medaglia moderna era nata ad essere conquistati dal maturo e bilanciato cocktail formale proposto da Leoni141. Egli si affermava inoltre in quelle stesse città in cui l’inventivo e disponibile “classicismo” aretiniano, prima di finire ingessato nelle pagine di Ludovico Dolce, aveva trovato riscontro in un mecenatismo aperto a declinazioni centroitaliane, lombarde e venete142.
Fu infine opera del poligrafo toscano se Leoni incise il conio per una medaglia di Pietro Bembo e la portò a compimento negli stessi mesi in cui Benvenuto Cellini si recava a Padova per ritrarre il raffinato arbiter elegantiarum143; il compenso superiore concesso al concorrente fiorentino, decisamente più affermato su scala peninsulare, fu sufficiente a motivare il protetto dell’Aretino ad una brusca rottura con il prelato144: la medaglia di Leoni, come quella di Cellini, non fu mai terminata (anche se non è da escludersi che ne serbi memoria la medaglia del cardinale fusa intorno al 1540 da Pastorino Pastorini)145.
140 Aretino 1997-2002, I (1538), p. 154, n. 92.
141 Nel caso di Ferrara, il passaggio dello scultore aretino non sarebbe rimasto senza conseguenze, se
consideriamo il largo corso delle imitazioni ivi proposte dal camaleontico Pastorino da Siena nel corso degli anni cinquanta: cfr. p.e. le medaglie pastoriniane di Ercole II ed Alfonso II d’Este (Toderi e Vannel 2000, II, pp. 606-607, nn. 1857 e 1860), strettamente dipendenti da tipi leoniani (la medaglia di Carlo V del 1543 e quella di Massimiliano d’Austria, per le quali cfr. infra). Ma c’è da credere che la fortuna del senese si legasse già prima ad una duttilità rispetto alle forme dell’aretino, come mostra il caso della sua medaglia del Bembo, che è del 1540 circa (cfr. le tre note seguenti). Escluso dalle Zecche di Roma e di Firenze, Pastorino si adeguò ai ritratti più à la page, mutando visibilmente stile (Toderi e Vannel 2000, II, p. 581) e non disdegnando talora, di fronte all’ampia richiesta, di assumere atteggiamenti che a noi sembrano sfiorare il plagio, mentre nella medaglistica protomoderna tali pratiche furono affatto consuete. Ulteriori indizi in questa direzione saranno forniti nei capp. I.2, I.5, e I.7.
142 Non è da escludersi che proprio nel contesto aretiniano maturasse, attraverso le stampe, il precoce interesse
di Leoni per Raffaello, di lì a poco alimentato in presa diretta a Roma. Sulla fortuna di Raffaello nell’ambito veneto dell’Aretino cfr. Dolce 1960 (1557), pp. 149, 153 e soprattutto 157.
143 Le Lettere di Pietro Aretino attestano che Leoni fece dono al cardinal Bembo di un esemplare della propria
medaglia stampata da Leoni, proponendogli di farlo ritrarre dal suo protetto (Aretino 1997-2002, I (1538), p. 157, n. 95, e p. 156, n. 94, entrambe del 6 febbraio 1537). Il letterato toscano rilanciava così la posta dopo un primo riconoscimento concessogli dal prelato, che aveva contribuito con un proprio sonetto alla celebrazione di Angela Serena, amante dell’Aretino (P. Bembo, Rime rifiutate, IV, Ben è quel caldo voler voi, ch’io prenda, in Bembo ed. 1960, p. 669). Rispondendo alla proposta per mano del segretario Antonio Anselmi, Bembo si dichiarò disponibile a posare, ma lasciò intendere che affidava l’intera iniziativa di omaggio all’interlocutore (Aretino 2003-04, I (1552), p. 352, n. 374, lettera del 21 febbraio 1537).
144 Cfr. la lettera di Leone Leoni a Pietro Aretino del 23 aprile (Aretino 2003-04, I (1552), p. 327, n. 346) e la
risposta di Aretino, datata 25 maggio 1537 (Aretino 1997-2002, I (1538), p. 202, n. 133: “Voi non sareste né di Arezzo né vertuoso, non avendo lo spirto bizzarro. Bisogna vedere il fin de le cose, e poi lodarle e biasimarle con il dovere. Quando sia che Monsignore abbia sì largamente remunerato, si può dir, la bozza del suo ritratto, dovete rallegrarvene, perché sendo egli la bontà del mondo e persona di compiuto giudizio, pagarà anco il conio vostro. Sua Signoria ha voluto contentar con la liberalità che dite, e l’oppinione che egli ha di Benvenuto, e i due anni indugiati a venire a trovarlo da Roma a Padova, e l’amor che quella gli porta. A me parebbe che gli mostraste l’acciaio dove è la sua testa, e l’improntata ancora, stando a veder ciò che egli ne dice. Qui è Tiziano, con il Sansovino, e una caterva d’uomini saputi, che ne stupiscono; ed essi consultaranno sopra le fatiche vostre. Né potrò mai credere che il Bembo manchi a l’onor suo e che non abbia tanto lume che discerna le disuguaglianze. È ben vero che l’affezion invecchiata in altri offusca […] dipoi l’opra vostra non ha a rimanersi nela sua conoscenza sola, benché molto conosca. Perciò mostrisi a lui e a chi ha piacer di vederla”. Alla questione cercò dal canto suo di porre rimedio anche Antonio Anselmi, che il 21 giugno 1537 scriveva a Pietro Aretino (Aretino 2003-04, I (1552), p. 350, n. 372): “Io ho molto ben compreso dalla lettera di vostra Signoria, che assai maggiormente ha potuto in Lione lo ingiusto sdegno che egli ha preso per non gli aver voluto Monsignor dare quei denari, che egli [h]a sua Signoria chiesti, che la verità, nelle molte cortesie che esso ha ricevute in questa casa”.
145 Su questo aspetto dell’inaccontentabile committenza di Pietro Bembo, cfr. Coggiola 1914-15, e ora
A Pietro Aretino, più lungimirante, importava accreditare il proprio giovane artista con una contesa che sarebbe senz’altro stata chiacchierata, e che poneva il suo protetto al livello del più accreditato medaglista papale146. La forma di promozione messa in atto dal letterato richiamava infatti ben più importanti modelli antichi di paragone: già Paolo Giovio nel 1534 aveva messo Cellini a confronto con Giovanni Bernardi da Castelbolognese, allora sulla cresta dell’onda147. Nel 1538 poi la pubblicazione delle Lettere aretiniane relative alla vicenda suggellò l’iniziativa promozionale, che sembra avere avuto conseguenze immediate e tangibili.
5. “Dipoi l’opra vostra non ha a rimanersi ne la sua conoscenza sola”: Leoni a Roma (1537-40)
Leoni giunse a Roma attraverso le protezioni fornite da Pietro Aretino e forse da Giovanni Gaddi, che tra il 1536 ed il 1537 aveva mostrato la medaglia leoniana del flagellum principum “agli amici mia e altri uomini gentili, che non il conoscono se non per fama dell’opere sue”148.
Preceduto dalle voci sui suoi dissapori con Pietro Bembo, Leoni divenne nell’immaginario di molti il nuovo concorrente di Cellini, che col pontificato di Paolo III (1534) si era visto erodere il primato assoluto di cui aveva goduto presso il connazionale Clemente VII149. Durante il soggiorno romano di Leone (1537-40)150, la chiamata di Benvenuto alla corte di
Una traccia del conio realizzato da Leone per il prelato veneto può essere forse rintracciata nel tipo firmato da “TP”, una sigla dietro la quale Aloïs Heiss riconobbe la prima produzione di Pastorino da Siena (1892, pp. 96- 98). L’esemplare unico del British Museum è unilaterale e in piombo, e come molti altri tipi del monogrammista esso costituisce o una fusione di prova, o il ricordo di una cera perduta. L’effigie in questione è molto al di sopra delle possibilità ritrattistiche mostrate da “TP” nei primi anni quaranta e rassomiglia come una goccia d’acqua al successivo ritratto leoniano di Ferdinando d’Asburgo: non è dunque impossibile che il prelato, divenuto cardinale nel 1540, decidesse di riutilizzare o di far modificare l’effigie tratta dal conio leoniano, affidandola non a Leoni, con cui aveva rotto bruscamente, ma a un medaglista attivo entro la curia romana: come vedremo nelle pagine successive, nel catalogo sicuro del Pastorino sono molti gli episodi in cui il senese riprese quasi letteralmente dei ritratti circolanti in medaglie leoniane e milanesi.
146 Quando Leoni fu assunto alla Zecca papale e Cellini incarcerato (11 luglio 1539), Aretino invitò
scherzosamente a Leoni a ritenersi più obbligato al concorrente toscano che al Pontefice, “perché la sua Beatitudine non era mai per conoscere il sommo de le vostre qualità, se lo stimolo di sì alto spirito non ne faceva fede. È certo che egli nel vantarsi d’uccidervi à tolto la fama a sé, e datala a voi” (Aretino 1997-2002, II (1542), pp. 128-130, n. 118).
147 Sulla contesa cfr. Berra 1950, pp. 172-174, e Kämpf 2004, pp. 139-168, che non sembra però conoscere il
precedente intervento.
148 Aretino 2003-04, I (1552), lettera s.d. del Gaddi all’Aretino. Giovanni Gaddi aveva eseguito i mandati di
pagamento per le spese sostenute negli apparati effimeri del 1536 (pubblicati in estratto da Podestà 1878, pp. 308-313, ma cfr. ASR, Camerale I, bb. 1563-64, pp. II, III, 5 e V), e negli anni seguenti avrebbe promosso l’attività pittorica di Francesco Salviati e Sebastiano del Piombo (sul mecenatismo del fiorentino cfr. Cecchi 1986, pp. 48-49; Pegazzano 2003, p. 64; e Costamagna 2003, p. 333). Il chierico toscano fu inoltre vicino a Benedetto Varchi, che a sua volta nel 1536 aveva ricevuto la medaglia leoniana dell’Aretino e nel 1554 ne celebrò in carmi le statue asburgiche (Varchi 1555, pp. 258-262). Giova infine notare che tra il 1529 ed il 1542 il Gaddi ebbe come segretario Annibal Caro, che nel 1544 ritroveremo tra i corrispondenti dello scultore toscano: è insomma verosimile che Leoni avesse ereditato dall’Aretino un giro di conoscenze legate agli ambienti dei fuoriusciti fiorentini, che potrebbero averne favorito l’inserimento a Roma.
149
Nel 1536 Cellini aveva ottenuto la commessa di due prestigiosi lavori di oreficeria: una legatura in oro massiccio e gemme per Carlo V e la montatura di un diamante eccezionale per il Papa (Pope-Hennessy 1985, pp. 77-78). All’inizio del pontificato di Paolo III (1534) l’ostilità di Pierluigi Farnese e l’uccisione del gioielliere papale Pompeo de Capitaneis misero però lo scultore fiorentino a mal partito (Cellini, 1, 75, ed. 1996, p. 65).
150 Per il periodo romano di Leoni cfr. Plon 1887, pp. 12 e ss. Il soggiorno dell’artista a Roma è documentato
Francia (1537) e l’incarcerazione avvenuta al suo rientro a Roma (1538-39) aprirono definitivamente la strada al suo concorrente più diretto151.
Nel novembre 1537, poco prima che Cellini rientrasse da Fontainebleau, Leoni venne messo alla prova su di una prima medaglia aurea di Paolo III con Muli al pascolo (v/: “SECVRITAS TEMPORVM”)152, per la quale nel luglio 1538 eseguì un secondo rovescio con le Fortificazioni di Roma (“DOMINVS . CVSTODIT . TE . DOMINVS . PROTECTIO . TVA”)153. Favorito dall’ennesima incarcerazione di Cellini, che risale al 16 ottobre 1538, Leoni ottenne infine l’ufficio di incisore presso la Zecca (8 novembre), dove l’anno seguente realizzò i piombi per le bolle pontificie e alcuni straordinari coni (tra cui i ducati e i doppi ducati d’oro, da annoverarsi tra i vertici della monetazione cinquecentesca)154. Entrambe le medaglie documentano la sperimentazione illusionistico-prospettica condotta in quel momento dall’artista sulle iconografie monetali antiche, che può essere apprezzata confrontando il rovescio del 1537 con il suo modello, un sesterzio di Nerva con Muli al pascolo155. Il rovescio leoniano con Roma e Tevere156, che pure prende a modello uno
151 Giova ricordare che nella Vita Cellini accusa Leoni di aver tentato di avvelenarlo (Cellini, 1, 125, ed. 1996,
p. 444): il fatto avrebbe avuto luogo durante la prigionia del fiorentino del 1538 e all’indomani dell’assunzione alla Zecca pontificia di Leone.
152 Bibliografia: Bonanni 1699, I, pp. 210-211, n. 11 (identifica il modello del rovescio in un sesterzio di
Nerva, ma ipotizza che la scena raffigurata possa alludere alla Lega antiturca stretta da Paolo III con Venezia e con l’Impero nel settembre del 1537); Venuti 1744, p. 77, n. X (utilizza il modello monetale antico per interpretare il rovescio come una celebrazione dell’abolizione della tassa sui trasporti); Armand 1883-87, I, p. 166, n. 17; Plon 1887, p. 255; Toderi e Vannel 2000, I, p. 42, n. 27; Modesti, 2002-, II, p. 90, n. 299 (torna all’interpretazione antiturca). Esemplari principali: Rizzini 1893, p. 6, n. 77; Pollard 1984-85, II, p. 982, n. 520; Cano Cuesta 1994, p. 171, n. 26; Toderi e Vannel 2003, I, p. 49, n. 419. La firma dissimulata sul recto contrassegna la nuova effigie pontificia, rendendo possibile contraddistinguerla da quella dei ritrattisti concorrenti anche in previsione del suo riuso successivo da parte della Zecca, presso la quale il conio veniva depositato.
153
Bonanni 1699, I, p. 202, n. 4 tav. I a p. 199 (identifica la fonte biblica del motto del rovescio in Psal., 121, 5); Venuti 1744, p. 75, n. IV (“alludit hoc numisma ad subitam fugam Aenobarbi piratae [il Barbarossa], qui Prochyta depopulata […] ingentis copiis Romanos […] terruerat”); Plon 1887, p. 255; Toderi e Vannel 2000, I, p. 42, n. 26; Modesti 2002-, II, p. 86, n. 297 (confuta la storicità del riferimento al Barbarossa). Esemplari principali: Pollard 1984-85, II, p. 982, n. 521; Cano Cuesta 1994, p. 171, n. 27; Johnson e Martini 1995, p. 126, n. 2270; Toderi e Vannel 2003, I, p. 49, n. 418; Bernardelli e Zironda 2007, p. 84, n. 351. Il tipo presenta un’iscrizione autoriale per faccia (traggo le misure dall’es. VAT n. 923): r/: “LEO”, 2,5x1,1mm, rilevata, con andamento da sinistra a destra, allineata a sinistra e ricavata a destra del busto sotto lo scorcio della spalla, lungo il margine lineare rilevato dell’esergo; v/: “LEO”, 4x1mm ca., rilevata, centrata, orientata da destra a sinistra e con caratteri rovesciati rispetto all’asse verticale, ricavata sul campo e allineata al margine lineare rilevato dell’esergo. Questa seconda firma fu apposta sul conio del rovescio come garanzia autoriale e contrassegno a scopo amministrativo e conservativo: per questo motivo è orientata in modo tale da essere leggibile sul conio e da orientare il riconoscimento da parte del committente (una trouvaille motivata dalla frequente alternanza di incisori diversi e dal clima di concorrenza tipico della Zecca romana). Nel recto la soluzione innovativa adottata per lo scorcio della spalla, il cui profilo tondeggiante evita il taglio netto del busto, spinse a trovare una nuova posizione dissimulata per la firma e a bilanciare la composizione con un esergo: ma si tratta solo di una variante della tradizionale firma sul troncamento della figura. Secondo Modesti, la medaglia andrebbe identificata con quella leoniana gettata nella fondamenta delle nuove fortificazioni di Roma e pagata nel 1538; Martinori 1917-30, IX, p. 13, la identifica invece con un tipo che a nostro giudizio non può essere attribuito a Leoni.
154
L’osservazione è di Panvini Rosati 1968, pp. 10-11, ed. 2004, p. 177. Per una valutazione artistica della monetazione pontificia basata su coni di Cellini cfr. Attwood 2004, pp. 110-114. Importa notare che la produzione medaglistica di Leoni per Paolo III, concentrata intorno all’“AN(no) IIII” ab indictione (cioè al 1538), precedette quella monetale.
155
Se posto a confronto con il suo modello (in RIC, II, p. 229, n. 93, tav. VIII, n. 126, ma già in Erizzo 1568, p. 166), il rovescio con Muli bradi (Toderi e Vannel 2000, I, p. 42, n. 27), permette sia d’apprezzare le modifiche in senso raffaellesco del disegno, sia le ricerche prospettiche attraverso cui Leoni si emancipò dalle convenzioni dell’altorilievo proprie della medaglistica coniata di modello monetale antiquario: la
schema della monetazione imperiale, costituisce invece, nelle frastagliate pieghette della Roma e nel nervoso nudo del Tevere, il punto di massima adesione ai modi del Sansovino plasticatore e a quelli di un pittore che ne era stato segnato, l’ormai romano Sebastiano del Piombo. Non sorprende che Cellini, abituato a forme più metalliche, avesse da temere un confronto con i volti minutamente descritti e morbidi del rivale e con il respiro spaziale dei suoi rilievi, che non erano ricavati accostando singole impressioni da punzoni diversi157. Per uno scultore ambizioso come Leoni, approdare alla corte pontificia aveva comportato – come già per la generazione di medaglisti che lo avevano preceduto – un confronto privilegiato con la grande pittura romana di Raffaello (forse già affiancato dalla conoscenza dell’opera di Francesco Salviati e delle sue derivazioni orafe); ma rileggere l’Urbinate a distanza di quasi vent’anni dalla sua morte (e da un’angolatura grosso modo veneta) mutava di molto i termini del suo interesse. Per l’emiliano Bernardi, maturato negli anni venti e trenta ed incapsulato in formule dai rigidi scavi lineari, la lezione dell’Urbe era stata soprattutto grafica (laddove i disegni preparatori di cui si avvaleva non fossero essi stessi opera di pittori, o la caratterizzazione dei volti non fosse ripresa da modelli altrui)158. Depositario di una tecnica che univa la fusione del tondello alla sua coniazione, e fresco della lezione plastica del Sansovino, Leoni ragionava invece sull’immagine in termini tridimensionali e, a quanto pare, per lo più a partire da invenzioni proprie159.
La sensibilità chiaroscurale e la ratio prospettica di Leoni, riscontrabili nella medaglia papale con Le fortificazioni di Roma, non muovevano tanto da innovazioni tecniche radicali, quanto piuttosto da un vero e proprio spostamento delle convenzioni rappresentative verso il rilievo stiacciato (come abbiamo visto nell’Introduzione): un
demarcazione dell’esergo diventa una mensola scorciata di suolo, che funge nel contempo da piano e da cornice.
156 Bibliografia: Bonanni 1699, I, p. 227, n. 30, tav. a p. 199 (nel rovescio, che celebra a suo avviso la dignitas
dell’Impero Romano e le lodi di Paolo III, identifica il “senex inermis et nudus” con il mondo o il genere umano sottomesso da Roma, giacché la posa è quella dell’iconografia delle province); Venuti 1744, p. 80, n. XX (ritiene il tipo un’emissione senatoria onorifica sulla scorta del modello monetale antico, e sottoscrive l’appunto di Bonanni sulla posa del Tevere: “Hic potius mancipium, quam flumen”); Armand 1883-87, I, p. 166, n. 18; Plon 1887, p. 255; Toderi e Vannel 2000, I, p. 43, n. 28; Modesti 2002-, II, p. 92, n. 300. Esemplari principali: Rizzini 1893, p. 6, n. 76; Hill e Pollard 1967, p. 82, n. 434; Johnson e Martini 1995, p. 126, n. 2272-73. Si tratta del rovescio denominato “del popolo romano” in alcuni documenti (Martinori 1917- 30, IX, p. 14), giacché l’espressione va messa in rapporto con l’iscrizione “ S(enatu) C(onsulto)”, destinata a sottolineare il carattere onorifico dell’emissione. La posa del fiume è tuttavia attestata anche in soggetti diversi da quello della provincia sottomessa, come mostra il confronto con un cammeo raffigurante Marsia o un sileno seduto su leonté a riposo già parte della collezione di Alessandro Farnese (Napoli, Museo Archeologico Nazionale: cfr. Pannuti 1983-94, II, p. 141, n. 148). Per l’identificazione con il pezzo della collezione Farnese cfr. Riebesell 1989, p. 119; per una discussione dell’iconografia scelta per la medaglia cfr. Mancini 2001, p. 174, e Cupperi 2002 (2), pp. 43-44.
157 Tale tecnica, abbandonata nel rovescio con Muli bradi, è invece impiegata ancora in quello raffigurante Le
fortificazioni di Roma.
158 Sui rapporti tra Giovanni Bernardi e la pittura contemporanea si vedano gli esempi addotti da Kris 1929,
pp. 62-71, e Cupperi 2002 (2), pp. 40-45 e pp. 42-43, figg. 19-21. All’interno della generazione di medaglisti che precedette Leoni a Roma, va ricordato per i suoi rapporti con l’opera di Raffaello anche Valerio Belli (sul quale cfr. ora Gasparotto 2000, p. 87).
159
Remerebbe in tale direzione anche la testimonianza fornita da un disegno in carboncino della Pierpont Morgan Library con iscrizione “Andreae”, accostato alla medaglia di Andrea Doria ed attribuito a Leone Leoni da Jones 1979, fig. 132. Tuttavia, ho qualche riserva nell’accettare l’autografia delle quattro teste in esame, che non presentano né le proporzioni, né il taglio, né l’orientamento della medaglia leoniana (l’unica rivolta a destra è infatti leggermente di spalle, e non semifrontale), né alcun tratto stilistico riconducibile alla maniera di Leone. Stupisce poi, in tutti e quattro i passaggi, l’assenza completa della tensione astrattiva che