Cap I.2 Iacopo da Trezzo
IV. Iacopo da Trezzo e la cultura figurativa di Milano
Prima di passare oltre, vale ora la pena di proporre un confronto tra i due riformatori della medaglia milanese degli anni quaranta, Iacopo e Leone Leoni: esso ci consentirà infatti di misurare una distanza di tono e una differenza di convenzioni che vanno ricondotte ad ascendenti figurativi profondamente diversi.
La terza medaglia di Ippolita, cronologicamente intermedia (1550-51) alle due precedenti e firmata da “Leone Aretino”, può aiutarci a coglierne il differente temperamento357. Nel ritratto di Iacopo Ippolita, quindicenne o quattordicenne (1548-49), impettita in posa da protocollo e agghindata di tutto punto con i migliori abiti del proprio corredo, si presenta allo sposo come una principessa sforzesca. Nella medaglia di Leoni la Principessa, colta in una posa più naturalmente rilassata, perde invece i tratti della debuttante per assumere la veste anticheggiante di una serena e sorridente divinità, la cui magnanimità non è turbata dalla recente scomparsa del marito358. In questo nuovo triumphus Castitatis il busto della Principessa, dinamicamente ruotato di tre quarti, è avvolto dall’aura movimentata delle epifanie e delle Ore.
Il busto di Iacopo, interrotto da un taglio curvilineo e rilevato, si incunea in un settore risparmiato dall’iscrizione e posa su di un invisibile piedistallo anteriore, come una mezza statua; il ritratto leoniano, memore di Giulio Romano, è occultato da una voluta del panneggio che accenna all’articolazione delle spalle; il mantello ricade sulla legenda e dissimula il troncamento in un basso aggetto, sfumato come l’occhio di bue di un cabaret. Anche i rovesci delle due medaglie obbediscono a tipologie differenti. L’Ippolita-Musa di Iacopo si aggira su di un terreno improbabilmente affollato di strumenti grafici, musicali e astronomici come un pannello di tarsia lignea: uno spazio sintetico, da visione, delimitato nel fondo da un campo neutro. Il rovescio dell’aretino è una scena mitologica il cui piano si perde in uno sfondo paesistico prospetticamente coerente, anche se destinato a ospitare tre distinte vicende (La caccia di Diana, Il ratto di Proserpina, Il sorgere della Luna).
La distanza che separa Iacopo da Leone nel disegno della figura e nell’invenzione dei soggetti induce a ripensare la vulgata secondo cui l’incontro dell’aretino si sarebbe tradotto in gravitazione stilistica. Per quanto conosciamo del catalogo di Iacopo, le voci della sua formazione come plasticatore appaiono locali: la prima medaglia di Ippolita Gonzaga presenta panneggi fibrosi e fittamente ondulati lungo gli orli, facilmente riconducibili alle
(datata sul verso “1557”e attribuita da Toderi e Vannel 2000, I, p. 63, n. 104, a Iacopo da Trezzo) mostrano che in alcuni casi anche il Re di Spagna (seppure in misura minore rispetto al padre Carlo) fu ritratto da personalità estranee alla sua corte.
357 Toderi e Vannel 2000, I, p. 62, n. 100.
358 Secondo la legenda, in questo tipo Ippolita era raffigurata nel suo quindicesimo anno d’età (“AN . XVI”
(“aetatis anno decimo sexto”), che iniziava nel 1550, o aveva sedici anni (“aetatis annorum sedecim”), il che collocherebbe la medaglia leoniana nel 1551, l’anno della scomparsa del marito Fabrizio Colonna, come propongono Valerio 1977, p. 140, n. 101, e Philip Attwood, in Scher 1994, p. 154, n. 51. Una testimonianza probante a proposito del significato del rovescio ci viene poi dalla lettera (Aretino 1997-2002, VI (1557), p. 92, n. 84, gennaio 1552) che Pietro Aretino diresse alla Gonzaga poco dopo avere ricevuto la medaglia leoniana, sui cui motivi encomiastici il letterato basò la propria consolatio alla giovane vedova (Aretino 1997- 2002, VI (1557), p. 91, n. 82, gennaio 1552): “ha voluto Iddio che in tre maniere si esperimenti la integrità che in voi infuse nascendoci. A la di lui providentia è piaciuto che ne la verginità, nel matrimonio, e nella vedovanza siate esempio di santimonia [...] tre volte di pura, netta e immaculata onestade composta”. Da ciò sembra conseguire che la seconda medaglia trezziana di Ippolita, che abbiamo datato al 1551-52 su base epigrafica, e che tenne in effetti conto del precedente leoniano per l’iconografia del recto, fu forse commissionata durante la vedovanza di Ippolita ed in vista del suo secondo matrimonio con Antonio Carafa, preparato sin dal 1552, ma celebrato solo nel 1554 (cfr. Albonico 1990, p. 318). Se così fosse la medaglia del 1552, evocando attraverso l’immagine del Carro di Aurora l’eterna giovinezza della dea, il suo stato coniugale e il topos dell’alba come inizio di una nuova fase di vita, potrebbe contenere un’allusione al fidanzamento stretto dalla Principessa in quell’anno. Diversamente intende la datazione dei due pezzi trezziani Pollard 1984-85, III, p. 1215, n. 710, e p. 1240, n. 722.
cifre del Bambaia maturo (per intenderci, quello della Fama di Palazzo Pitti a Firenze). Altri drappeggi (per esempio quelli sui rovesci delle medaglie di Ippolita-Musa, Cerere e Pace) rinviano invece al punto di stile maturato a Milano con gli affreschi di Gaudenzio Ferrari maturo, sui cui Iacopo poté forse esercitarsi nei primi anni di professione, facilitato dai rudimenti fornitigli dal padre pittore. In particolare, i panneggi alveolari della Cerere associata a Giovanna d’Austria ricordano quelli di Giovambattista della Cerva (Milano, Basilica di Sant’Ambrogio, Deposizione), mentre il volto levigato e tondeggiante del primo ritratto di Ippolita arieggia i profili di Bernardino Lanino, un allievo di Gaudenzio che fu attivo in San Nazzaro poco prima del 1548359.
I pittori con cui Iacopo condivise la sua indelebile vena lombarda sono quelli che negli anni quaranta tenevano banco a Milano lavorando non solo per il Duomo, ma anche per Santa Maria della Passione e Santa Maria delle Grazie, giuspatronati gentilizi culturalmente più aperti e legati non di rado alla cerchia del Governatore. A questo proposito non è tanto il caso di rammentare il dialogo che Gaudenzio, plasticatore e pittore, aveva intrattenuto con la scultura e con la metalloplastica lombarde a partire dal primo o dal secondo decennio del XVI secolo fino a tutto il terzo, quando si era conclusa la vicenda artistica del Moderno360; quanto piuttosto di rivalutare la nuova stagione cui il pittore valsoldano aveva indicato la strada col suo “esitante omaggio al manierismo letterario e archeologico così gradito ai nuovi signori della Milano spagnola” (Gianni Romano)361. Non fu dunque tanto la cultura figurativa del Bambaia, quanto piuttosto la lezione del Ferrari, “più ampia e autorevolmente dominata di quanto non si creda”, ad additare a Iacopo una via lombarda verso quel linguaggio ritrattistico classico che gli artisti più vicini alle fonti glittiche e numismatiche andavano perseguendo a Milano anche per impulso della presenza asburgica. Quella di un Gaudenzio gradualmente purgato dalle sue forme più vernacolari fu un’ascendenza che la scultura dei milanesi ‘D.O.C.’ sviluppò del resto ben oltre la soglia della metà del secolo, come mostra la ridda di gesti e reazioni individuali che ancora intorno al settimo decennio trasformavano la Fontana della Scienza di Iacopo in una scenetta in cui la giunonica cariatide centrale è attorniata dal chiacchericcio degli astanti.
È sintomatico il fatto che, a partire dalla prima medaglia di Ippolita fino al rovescio della medaglia di Juan de Herrera, i panneggi di Iacopo mantengano un inconfondibile fraseggio lombardo: la forma mentis glittica e l’aggiornamento compiuto sull’opera di Giulio Campi (forse attraverso brevi rientri a Milano nel corso del settimo decennio) emergono ancora nei panneggi della Fontana della Scienza sul verso della medaglia di Giannello Torriani, e giocano un ruolo decisivo nel frenare i volumi entro schemi ritmici più sobriamente ripetitivi e profili estremamente conchiusi.
Questa tenuta rispetto a Leoni è dunque indice di un’autonomia di linguaggio rispetto ai toscani e agli emiliani presenti in Lombardia (cap. I.4), è sintomo di una pluralità di matrici che sopravvive ed innerva la produzione milanese anche prima del salto di qualità segnato da Annibale Fontana. Dopo anni di secche coniazioni e di rilievi appiattiti, Iacopo segna
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Per un confronto tra Il Nizzola e il Lanino si tenga presente anche la Pala del Kress del Museum of Art di New Raleigh, opera del secondo datata 1552. La Fede sulla medaglia trezziana di Pietro Piantanida, che ha una data alta, suggerisce poi che in una fase precoce Iacopo poté interessarsi anche alle figure allungate e vezzose di Santa Maria della Steccata a Parma; ma si trattò di un semplice episodio, incapace di innestare un ceppo parmigianinesco nella plastica lombarda: come vedremo nel cap. I.7, le voci più vicine al Mazzola, nel periodo spagnolo del Ducato, furono d’importazione.
360 A rievocare l’affinità tra Gaudenzio e il Moderno basteranno dipinti come la Crocifissione in Santa Maria
delle Grazie a Varallo, che è del 1513, o come la Pietà di Budapest, che è del 1528-30, cui corrispondono placchette di soggetto analogo concordemente ascritte al Moderno: per un confronto tra i due artisti rinvio tuttavia alla scheda di Marco Collareta, in Pavoni 2003-04, p. 638, n. 721.
con Leoni un ritorno ai caratteri della più lussuosa medaglia fusa362. Con la produzione mantovana ed emiliana tardo-quattrocentesca e proto-cinquecentesca egli sembra ancora condividere gli alti standard epigrafici, i grassetti, i volti turgidi e levigati, la lavorazione tagliente, i busti iperdecorati e posati di punta, i troncamenti alti e visibili lungo la spalla, armonizzati dall’andamento curvilineo e dal digradare verso il bordo.
Quando però consideriamo le convenzioni seguite nei primi ritratti di Iacopo, appare chiaro che l’impulso a questo revival del rilievo morbidamente plasmato venne dalla committenza asburgica e dalle opere leoniane, famosissime, che erano state le iniziatrici del ritorno a questa tecnica (ad esempio la medaglia di Carlo V del 1543). Analogamente, senza le figure anticheggianti di Leoni (il busto di Ippolita Gonzaga, la Speranza della medaglia di Martin de Hanna) risulta difficile comprendere l’approdo alle iconografie che Iacopo realizzò per ritrarre la stessa Ippolita come Diana nel 1551-52 o per trasfigurarla come nuova musa nel rovescio del 1549-50.
A misurare la centralità di Leoni nel ricambio di forme e tipologie cui l’intagliatore lombardo si sottopose sono però soprattutto le soluzioni spaziali specifiche della medaglia di nuova generazione, come l’impaginazione del busto rispetto alla legenda. Un tipo ritrattistico di classe media, come quello inaugurato dalla medaglia di Pietro Piantanida e largamente diffuso negli anni cinquanta, non fa che riadattare ad un formato ridotto il troncamento mistilineo a due profili (uno rilevato con taglio in vista per la spalla, uno piatto e allineato al bordo per il busto) appena proposto nella medaglia leoniana di Carlo V del 1549363. I due massimi scultori di Milano convergevano dunque a metà secolo sulle medesime soluzioni, imponendo il ritratto come genere dominante di un quadro artistico rinnovato: e in tale chiave li ritroveremo, ancora nel 1587, nella sezione dedicata agli “scultori” dai Grotteschi di Giovampaolo Lomazzo:
Di due ne l’arte lor pregiati e tersi, a piè d’un colle, sotto un verde alloro
udii cantar a un pastor questi versi. E rispondea dei colli tutto il choro: – Chi la scoltura più dai Galli ai Persi ornò giamai, che ’l saggio e bel lavoro
ch’in ritratti, in medaglie et in roversi han mostrato in argento, in bro[n]zo et oro
il divin spirto di Giacom da Trezzo et di Leon, ch’a tutto il mondo noto non solo ha fatto sé, ma ancora Arezzo? –364.
Quanto poi le medaglie di Iacopo fossero poste dal Lomazzo al vertice della produzione locale e della propria considerazione è chiarito dalle loro numerose menzioni nel Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura (1584), dove l’entusiasmo per la ‘facilità’ del Nizolla (maestro nel cesellare in supporti duri parti morbide e minute come i capelli, in linea col ‘naturalismo’ gaudenziano e in contrasto con le cifre antiquarie di Leoni) filtra a più riprese, a partire dal fatto che i microritratti del lombardo sono chiamati in causa soprattutto come paradigmi normativi o esemplificazioni iconografiche365.
362 Da questo punto di vista le medaglie di Iacopo da Trezzo possono essere confrontate con quelle di
Francesco Gonzaga (ante 1480, firmato da Bartolomeo Melioli), Iacopa Correggio (inizi del XVI secolo, “cerchia di Giancristoforo Romano”) e Francesco Ferdinando d’Avalos (primo trentennio del XVI secolo, non attribuita), sulle quali cfr. Hill 1930, I, p. 48, n. 196; p. 59, n. 234, e p. 299, n. 1152.
363 Ancora nel 1577 la medaglia di Johann Khevenhüller (Toderi e Vannel 2000, I, p. 64, n. 109) riadatterà i
panneggi, ricadenti sull’iscrizione, che l’aretino aveva disegnato per il suo microritratto cesareo del 1543.
364 Lomazzo 1587, p. 130.
365 Lomazzo 1973-74 (1584), pp. 159 (Dei moti dei capelli), 300 (a proposito delle decorazioni adatte ai vasi