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Le origini lombardo-venete del linguaggio del de’ Rossi (e una nota su alcune sue possibili opere glittiche)

Cap I.5 Milanesi fuori Milano

I. Profilo di Giovannantonio de’ Rossi medaglista

2. Le origini lombardo-venete del linguaggio del de’ Rossi (e una nota su alcune sue possibili opere glittiche)

La varietà di esperienze che siamo andati tratteggiando non ha giovato all’inquadramento storico di Giovannantonio de’ Rossi, la cui figura – come abbiamo visto – ha lungamente oscillato tra la scuola toscana (cui venne ascritto a partire dal Gori) e quella milanese (alla quale lo riconduceva il Kris). Anche Hill, Pollard, Vannel e Toderi, basandosi sull’identità dei ritrattati, hanno finito per considerare la medaglistica del de’ Rossi un’espressione eminentemente tosco-romana576, condannando a rimanere in ombra la formazione settentrionale del milanese, che pure è legata a documentati esordi veneti e dapprincipio si mostra piuttosto continuativa rispetto alla cultura visiva della città di provenienza.

Senz’altro tra i microritratti metallici che abbiamo ascritto al de’ Rossi non si trovano opere riconducibili ai suoi esordi lombardi: egli non risulta neppure iscritto all’università degli orefici milanesi, dove pure la sua famiglia è ben attestata577. Tuttavia, il confronto tra i suoi primi rovesci (per esempio quello per Enrico II con Processione trionfale) e le medaglie milanesi degli anni trenta può evidenziare quanto ancora legasse Giovannantonio alla plastica lombarda che precedette l’arrivo di Leoni. Un microritratto metallico affine

572 Brown 1993, p. 108, n. 92, lettera del 7 luglio (segnalata da Attwood 2003, I, p. 133, nota 18, senza

proposte di identificazione).

573 Già Martha McCrory (1987, p. 118), attribuendo a Compagni il cammeo fiorentino con i ritratti affrontati

di Cosimo I ed Eleonora di Toledo (sul quale cfr. ora Gennaioli 2007, p. 269, n. 261) e datandolo intorno al 1574, ha desunto per vie stilistiche che egli doveva essere stato allievo di Giovannantonio, ma la lettera dell’antiquario Garimberti ce ne fornisce ora una prova documentaria. Sulla biografia di Domenico Compagni (nato in data sconosciuta e morto prima del 18 novembre 1586) cfr. Martha McCrory, in DBI, XXVII, 1982, pp. 647-648.

574 Bibliografia: Armand 1883-87, II, p. 267, n. 5 (anonimo); Toderi e Vannel 2000, II, p. 820, n. 2585

(anonimo). Esemplari principali: Börner 1997, p. 228, n. 1028 (anonimo); Toderi e Vannel 2003, I, p. 150, n. 1382 (anonimo). La data “1579” è incisa sotto il busto.

575 Cfr. Toderi e Vannel 2000, II, pp. 716-717, nn. 2245 e 2250.

576 Gori 1767, I, pp. CLV-CLVI; Kris 1929, p. 78; Hill 1920 (2), p. 95 (Hill e Pollard 1978, p. 91); Toderi e

Vannel 2000, II, p. 712.

577 Nelle matricole degli orefici milanesi risulta un Pietro Paolo de’ Rossi (o Arossi) che fu tesoriere della

Scuola di Sant’Eligio nel 1559 ed è documentato fino al 1587: Romagnoli 1977, p. 78 e ad indicem (la notizia è ripresa da Venturelli 1996, p. 205).

all’opera di Giovannantonio è per esempio quello anonimo di Giovambattista Castaldo databile intorno al 1551578.

A Milano Giovannantonio appartiene insomma per molti versi a un filone artistico autoctono che l’arrivo dei maestri chiamati dai luogotenenti asburgici, Giovanni da Cavino e Leone Leoni, fece improvvisamente apparire desueto. Il trasferimento di Giovannantonio a Venezia, al contrario, lo inserì in un centro artistico in cui era possibile coltivare una maggiore continuità con le sue esperienze figurative precedenti, giacché la norma antiquaria irradiata da Padova non aveva ancora pervaso ogni ambito della produzione scultorea. Aggiornatosi sugli ultimi sviluppi della scultura lombardesca e la prima fioritura della scuola sansovinesca, durante il suo soggiorno veneto de’ Rossi maturò uno stile che negli anni successivi avrebbe subito mutamenti non sostanziali.

Nei primi anni cinquanta per la ritrattistica del de’ Rossi fu determinante il confronto con Alessandro Cesati e Gian Federico Bonzagna, incisori alla Zecca pontificia rispettivamente dal 1540 e dal 1555, mentre il ritratto di Pio IV, commissionato al de’ Rossi per essere posto nelle fondamenta del Palazzo dei Giureconsulti a Milano nel 1561 e pagato nel 1562, tiene ormai conto attentamente di quello fuso nel 1560 da Leone Leoni579. La tarda conoscenza dell’aretino sembra offrire un’ulteriore conferma all’ipotesi che Giovannantonio si fosse allontanato precocemente da Milano, città nella quale le sue opere entrarono tardivamente grazie all’appoggio del pontefice di Marignano.

Anche assimilando elementi nuovi nel corso del tempo, de’ Rossi rimase però una figura irriducibile, estromessa prima dalla Lombardia, poi dal Veneto, e infine vieppiù isolata a Firenze e a Roma, dove la sua opera metalloplastica, facilmente riconoscibile anche per la sua relativa rozzezza, dovette essere accettata soprattutto per riguardo alle sue doti di intagliatore, incisore di coni e conoscitore580.

La partenza di Giovannantonio da Milano e la perdita di sue eventuali opere prime hanno quindi un significato storiografico non trascurabile, perché offrono un riscontro biografico importante a quel fenomeno di discontinuità improvvisa che si coglie a colpo d’occhio nei repertori che illustrano la produzione milanese degli anni quaranta.

D’altro canto, uno sguardo attento ad alcuni cammei correttamente classificati come opere milanesi rivela rapidamente che in questo ambito l’opera di de’ Rossi, seppur non riconosciuta, è rimasta almeno nascosta tra quella dei suoi corregionali insubri, perché la glittica lombarda del secondo Cinquecento ha offerto per i suoi intagli dei confronti che le

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La vecchia attribuzione dubitativa a Leone Leoni proposta dal Plon per questa medaglia del Castaldo (Plon 1887, p. 273) si è consolidata senza ragione (Armand 1883-87, III, p. 72, n. R; Mann (1981) 1931, p. 130, n. S352; Johnson e Martini 1995, p. 116, n. 2229; e Toderi e Vannel 2000, I, p. 56, n. 82) fino al recente pronunciamento contrario di Philip Attwood (2003, I, p. 154, n. 171), che la ascrive ad un anonimo. Su questa medaglia torneremo infra nel cap. II.4.

579 Sull’attività romana di Alessandro Cesati e Gian Federico Bonzagna cfr. Bertolotti 1881, pp. 316-317;

sulla medaglia formata dal de’ Rossi per Pio IV cfr. Bertolotti 1881, p. 319, e ora Toderi e Vannel 2000, II, p. 716, n. 2247 (con bibliografia). Per la medaglia leoniana di Pio IV cfr. Toderi e Vannel 2000, I, p. 57, n. 87.

580 Nel valutare la figura di de’ Rossi – manifestamente più versato nell’intaglio e nell’incisione dell’acciaio –

assumono un valore particolare gli episodi in cui egli tradusse modelli creati appositamente per lui (come nel gran cammeo mediceo e in quello col ritratto di Francesco Zen, realizzato a partire da una cera di Giovanni Falier) o riprodusse medaglie già finite, rilavorandole in misura così ridotta che le nuove opere, una volta identificate come repliche o plagi, non possono fornire indicazione alcuna sullo stile del nostro. Soprattutto nei rovesci, che richiedevano buon disegno, il milanese sembra infatti riutilizzare invenzioni altrui sia in una medaglia di Paolo IV (Armand 1883-87, I, p. 244, n. 7; Toderi e Vannel 2000, II, p. 714, n. 2237) – dove la Fede, riadattata appena negli attributi, è un calco esatto della Pace creata da Iacopo da Trezzo per Maria di Boemia nel 1551 circa – sia nel ritratto di papa Marcello II, la cui personificazione del Buon Governo o della Provvidenza (1555) è un’impronta più diffusamente ritoccata della medaglia trezziana di Giovanna d’Austria (1554: cfr. Toderi e Vannel 2000, risp. I, p. 70, n. 126, con attribuzione erronea a Pompeo Leoni, e II, p. 713, n. 2235).

medaglie ambrosiane del medesimo periodo non potevano fornire581. È quasi sicuramente di Giovannantonio un eccezionale Ritratto di uomo barbato su onice grigio-bruna con riporti dorati e smaltati (Milano, collezione privata, già collezione Marlborough) che si lascia accostare così felicemente alle medaglie di Enrico II e Paolo IV da far presumere che essa sia un’opera precedente il soggiorno fiorentino di de’ Rossi582. Alla maturità di costui va invece ascritto un cammeo con testa virile (London, British Museum) la cui erronea identificazione con il Focione di Alessandro Cesati menzionato da Giorgio Vasari ha ritardato sino ad oggi una corretta valutazione stilistica. Già Kris prese però le distanze dall’attribuzione al Grechetto, e nel 1978 Hill e Pollard notarono che essa non trovava nessun appiglio formale: in effetti, i migliori riscontri morelliani con l’onice londinese sono offerti dal Cosimo I del gran cammeo mediceo583.

La nostra rassegna su de’ Rossi può concludersi infine con una nota documentaria relativa ad un cammeo di Carlo V con Marte al rovescio (Firenze, Museo degli Argenti), già attribuito su basi stilistiche dal Kris584. Lo stato frammentario del pezzo ci induce ora a identificarlo con un pezzo menzionato da Alfonso del Testa in una lettera a Francesco I de’ Medici del 22 febbraio 1585:

Mando a vostra Altezza serenissima […] il cameo di Carlo Quinto imperatore, fatto mentre che viveva [scil. ante 1558], et è compagno di quello che già li mandai in un lapislazzuli di Filippo [il Bello] d’Austria, padre di esso Carlo […]; sebbene ha un poco di rottura nella testa si può facilmente accomodare585.

Il cammeo, già proprietà del Cardinale da Carpi, era passato alla collezione dell’agente romano, che lo aveva donato infine al Granduca di Toscana. La provenienza romana del pezzo e la sua datazione agli anni cinquanta offrono dunque nuovi argomenti per valutare la proposta attributiva del Kris, collocando la realizzazione dell’opera nei primi anni romani di Giovannantonio: tale dato potrebbe infatti giustificare la maggiore crudezza del Carlo V rispetto al gran cammeo mediceo. Chi scrive ritiene tuttavia che l’ipotesi che qui sia piuttosto all’opera la bottega di Giovannantonio (o forse un giovanissimo Domenico Compagni) rimanga attualmente la più ragionevole.

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