• Non ci sono risultati.

Cap I.7 Appunti per una cronologia degli spostamenti di artisti ed opere

I. Milano come centro artistico

Nei precedenti capitoli abbiamo cercato di mostrare caso per caso i motivi per cui le interpretazioni in termini di ‘scuola milanese’ o di ‘scuola leoniana’ risultano inadeguate a descrivere le relazioni formali che nel secondo Cinquecento legarono microritratti di provenienza varia alle opere-guida di Leone Leoni, di Iacopo da Trezzo e di Annibale Fontana. In questa sede varrà solo la pena di aggiungere che, in quanto replicabili e di circolazione ampia, tali modelli furono disponibili ad altri medaglisti anche in mancanza di relazioni ambientali o personali con i loro artefici, e che a loro volta i maestri attivi a Milano dopo il 1535 studiarono senz’altro le medaglie di colleghi toscani, padovani, tedeschi.

Non vogliamo con ciò negare in alcun modo l’importanza storica di Leone Leoni, ma solo osservare che lo schema ‘maestro-allievi’ non dà conto della peculiare continuità di convenzioni e ricerche figurative che, a partire dal quarto decennio del XVI secolo, avvicinò artefici di origine e cultura disparata, in continua concorrenza fra loro. Per una valutazione meno univoca della produzione microplastica della Milano asburgica credo invece utile applicare in tutta la sua portata quella nozione geografica di centro artistico che tuttora stenta a decollare negli studi dedicati alla scultura lombarda. La città di sant’Ambrogio non fu infatti solo il luogo in cui appresero il mestiere alcuni maestri poi affermatisi tra Firenze (Giovannantonio de’ Rossi), Roma (Guglielmo della Porta) e le corti d’oltralpe (Iacopo da Trezzo e Pompeo Leoni), ma anche la sede di una folta committenza cittadina e del mecenatismo di una “sempre brillante corte” (Chabod)714, nella quale la presenza del Governatore valse da collettore per esperienze orientate verso un mecenatismo aulico, attraendo personalità di formazione non locale e allargando gli orizzonti dei maestri emersi dalle botteghe cittadine.

A Milano, poi, il trasceglimento delle personalità ‘lombarde’ operato in sede critica agli inizi del XX secolo ha durevolmente escluso dalle ricostruzioni storiche di riferimento, quelle di Fabriczy (1903) e di Hill (1920), la presenza di personalità di formazione romano- fiorentina (come Pietro Paolo Romano e Cesare da Bagno), il probabile transito di maestri itineranti come il senese Pastorino Pastorini (che passò forse a Milano durante l’assenza di Leone Leoni nel 1545-1550 o poco prima del 1542)715, e il coinvolgimento, forse a

714

Chabod 1971 (1936-37), p. 279.

715 Sul senese Pastorino Pastorini, allievo del pittore Guillaume Marcillat, cfr. soprattutto Vasari 1966-87

(1568), IV, p. 229; Ronchini 1870, pp. 39-44; Heiss 1892, pp. 96-98; Hill 1906, pp. 408-412; Forrer 1902-30, IV, pp. 408-422; Tumidei 2002, pp. 72-73 e 143. A partire dal 1552 Pastorino fu ripetutamente attivo nella pianura a sud del Po: in quell’anno fu assunto alla Zecca di Parma, e dal 1554 al 1565 lavorò in quella di Ferrara, mantenendo frequenti contatti con Mantova e con Bologna (almeno tra il 1555 ed il 1557, e poi tra 1571 ed il 1572). Discuteremo nel capitolo seguente una medaglia di Carlo V riferibile ai primi anni quaranta del XVI secolo e raffigurante sul rovescio una veduta di Milano (Toderi e Vannel 2000, II, p. 586, n. 1738; Cupperi 2002 (2), pp. 41 e 46): se è corretta l’identificazione del suo monogrammista (“TP” o meglio “PSTR”) col Pastorino (ribadita di recente da Toderi e Vannel 2000, II, pp. 581-582), diviene probabile che il senese abbia ritratto l’Imperatore in occasione di una delle sue visite nella città meneghina (1541 e 1543) o

distanza, di maestri come Giovanni da Cavino (la cui fortuna presso Alfonso d’Avalos, intorno al 1538, preluse all’imporsi dell’intonazione classicheggiante impressa ai microritratti asburgici da Leone Leoni)716.

Gli storici della medaglia del XX secolo hanno inoltre considerato il maestro aretino alla stregua dei suoi colleghi milanesi, sganciandolo dal tronco delle riflessioni sansovinesche e antiquarie che egli aveva maturato in Veneto; e hanno incluso nel novero degli artisti di formazione ambrosiana anche il trentino Antonio Abbondio, il cui avvicinamento a Leone Leoni e a Iacopo da Trezzo fu almeno in parte pilotato da committenti come Cristoforo Madruzzo, e la cui presunta attività lombarda rimane tutta da dimostrare. È così parso possibile riunire la produzione di Milano entro una matrice culturale omogenea e sotto un comune denominatore di dipendenza, obliterando sia le manifestazioni di continuità (Giovannantonio de’ Rossi) o di autonomo rinnovamento della tradizione locale (Annibale Fontana), sia l’arrivo di voci (come Anteo Lotelli o Cesare Federighi) che appaiono irriducibili ad una lettura in chiave leoniana o lombarda. Forse in nessun campo, come in quello della mobile microplastica, può risultare insidioso ancorare un linguaggio figurativo alla regione di provenienza, ignorandone la reale diffusione e le fonti visive privilegiate. Nel caso della Milano spagnola, poi, la mancata percezione della convergenza di diverse tradizioni figurative ha portato talora a sopravvalutare le considerazioni di natura iconografica o tipologica in sede attributiva, rendendo possibile la creazione di corpora stilisticamente assai eterogenei. A partire dagli interventi di Georg Habich (1924) e George Francis Hill (1931), ad esempio, è comparsa tra i medaglisti milanesi una fortunata etichetta, quella del “Maestro del cardinal Bembo”, sotto cui sono state riunite con alterne vicende la medaglia di Jean de Guise (un tempo ascritta, come abbiamo visto nel cap. I.4, a Benvenuto Cellini) ed altre opere più o meno affini717. Già Georg Habich aveva però notato

poco dopo la conquista della città da parte degli Asburgo, nel 1535. Forse Pastorino si recò a Milano per candidarsi ad un posto alla Zecca (quello di incisore dei coni fu occupato da Leoni solo dal 1542 al 1545 e poi dal 1550 al 1589). Si ricordi infatti che all’atto di assumere Leoni nel 1542, Alfonso d’Avalos dichiarò di “essersi avvalso dell’opera di diversi in questo lavoro [incidere i coni], ma nessuno ci ha soddisfatto appieno [prima di Leoni]” (il documento è edito in Cupperi 2002 (2), p. 60, app. 1; la traduzione dal latino è nostra). Bisogna infine notare che l’effigie di Carlo V coniata sui denari da 32 soldi imperiali a partire dal 1539 (dove essa è associata ad un verso di fattura diversa e più antico con Sant’Ambrogio: cfr. Crippa 1990, p. 46-49, n. 8) ha un particolarissimo taglio tricuspide adotta da “TP”/Pastorino nelle medaglie di Carlo V e Giulio de’ Medici (Toderi e Vannel 2000, II, p. 586, n. 1740), e presenta altresì lettere e didascalia identiche a quelle del microritratto cesareo. In attesa che il catalogo di Pastorino intagliatore si definisca, anche se gli archivi da noi consultati finora tacciono in proposito, crediamo sia utile tenere in considerazione la possibilità che egli abbia brevemente lavorato a Milano prima di raggiungere Roma nel 1541.

716 Sulle due medaglie realizzate da Giovanni da Cavino per l’Avalos, raffiguranti Carlo V e lo stesso

Marchese, si vedano infra i capp. II.1 e II.4.

717

Sul cosiddetto “Maestro del cardinal Bembo” cfr. Hill 1910-11, pp. 13-21 (1); Hill 1920 (2), p. 88 (“a group round Cellini”, soluzione che rimane invariata in Hill e Pollard 1978, p. 85); Habich 1924, p. 121; Hill 1931, p. 196, n. 422 (riunisce come manifestazioni della “transizione da Cellini a Leoni” le medaglie di Pietro Bembo, Pietro Piantanida, Jean de Lorraine e Giovanni Francesco Martinioni, nn. 423-425); Pope-Hennessy 1985, pp. 87-88 (mantiene la medaglia bembesca nel catalogo di Cellini); Toderi e Vannel 2000, I, pp. 38-39 (la cui datazione al primo quarto del Cinquecento, senz’altro troppo precoce, riprende la lettura stilistica fornita da Fabriczy 1904 (1903), p. 171, tav. XXXIV, fig. 4, che aveva chiamato in causa come possibile autore di queste medaglie il Caradosso); Attwood 2003, I, p. 124 (con un’ottima discussione dello status quaestionis) e supra, cap. I.4. Una medaglia di Ercole II originariamente data al ‘Maestro’ da Hill e mantenuta nel catalogo di Cellini da Pope-Hennessy (1985, pp. 87-88 e tav. 50), è stata condivisibilmente attribuita ad Alfonso Lombardi da Middeldorf 1977 (3), pp. 263-265.

Caduta la denominazione “Maestro del Bembo”, basata su di una medaglia di Pietro Bembo oggi scollegata da qualsiasi ambito celliniano (cfr. Gasparotto 1996, pp. 191-192, dove si avanza l’ipotesi che il ritratto sia postumo, e Attwood 2003, I, p. 168, n. 217, dove si propone l’attribuzione dell’opera a Danese Cattaneo), il corpus individuato da Hill e Habich sopravvive ancora sotto diverse spoglie nel catalogo di Philip Attwood (“unidentified Milanese medallist, I”) e nel recente repertorio di Vannel e Toderi. Ferma restando la presenza

che le suggestioni formali attive sul ‘Maestro’ non erano tali da consentire di localizzarlo in una regione o di identificarlo con un profilo biografico noto, ed è ormai tempo di chiarire che quella commistione di linguaggi figurativi veneti, toscani e romani che lo studioso tedesco evidenziò nel presunto anonimo e più in generale nelle medaglie lombarde fuse intorno alla metà del secolo XVI, leggendo in entrambi i fenomeni le conseguenze dell’opera di Leone Leoni, non è invece riconducibile né ad una sola personalità, né a una sola regione artistica, né ad una matrice unica.

Certo, rimane impossibile rinunciare all’intuizione dello Habich circa la centralità di Leone Leoni negli svolgimenti della medaglistica milanese del secondo Cinquecento. Anche se la sua lezione stilistica non pervade ogni aspetto di quella vasta produzione microplastica, fu l’aretino la personalità che sollevò il tenore della medaglistica locale e ne dettò i temi figurativi. Alla sua produzione aulica, e più precisamente ai tipi medaglistici e ritrattistici da lui codificati, artisti e committenti attinsero per creare un sistema di convenzioni rappresentative adeguate alle nuove autorità e per formulare articolazioni di genere adatte alla restante compagine sociale718.

Nondimeno, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta del secolo XVI, Milano si offrì come un crocevia di tradizioni figurative diverse, un filtro attraverso cui sperimentare e individuare soluzioni ritrattistiche di moda, e al contempo come una via di accesso privilegiata attraverso cui i sovrani di Spagna, di Baviera e dei Paesi Bassi potevano reperire artefici. La fisionomia della plastica milanese si definì decennio dopo decennio in funzione di presenze e avvicendamenti, antagonismi e uscite di scena, secondo una dinamica che è utile ripercorrere nei suoi tratti essenziali per non perdere il senso di una continuità che non fu né l’effetto della stanzialità di alcuni maestri, né tanto meno la conseguenza di un panorama artistico unitario.

Outline

Documenti correlati