Cap I.1 Leone Leon
1. Origini e prima formazione di Leone: la doppia censura della tradizione letteraria
rinvio a Sabine Haag, in Seipel 2003, p. 542, n. VII.1, e a Cupperi 2008, pp. 33-34). Dopo l’intervento di Middeldorf 1975 (1), pp. 84-91, che ha confermato l’attribuzione a Leone Leoni di tre busti bronzei delle collezioni reali di Windsor (Carlo V, Filippo II e Alfonso Álvarez de Toledo), aggiornamenti degni di nota al catalogo delle sculture sono stati proposti da Curie 1996, pp. 161 e 172 (che attribuisce a Leoni un busto reliquiario di san Lorenzo conservato a Ornans); e Zezza 1999, pp. 29-41 (che gli ascrive un busto di Giovambattista Castaldo rimasto a Nocera dei Pagani). Assai più discutibili sono invece le attribuzioni avanzate da Kris 1928 (2), pp. 40-42, a proposito di alcuni bronzetti viennesi. Grassi 2000-01, pp. 55-60, fornisce documenti su alcuni busti reliquiari realizzati per la Chiesa mantovana di Santa Barbara e oggi smarriti.
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Il catalogo leoniano recentemente consegnato da Toderi e Vannel 2000, I, pp. 41-59, ancora alquanto incorerente, può essere considerato ben esemplificativo di questo stato della materia. Per le placchette cfr. invece Molinier 1876, II, pp. 18-21, n. 352 (Trionfo marino di Giannettino Doria) e n. 353 (Apoteosi di Carlo V, una placchetta attribuita a Leoni ancora da Maclagan 1924, pp. 71-72, ma oggi concordemente rifiutata). Una seconda placchetta con Andrea Doria tra Virtù e Fama fu condivisibilmente ascritta a Leoni da Hill 1929, pp. 500-501 (ma cfr. anche Pechstein 1967, p. 54, fig. 6; e Pollard 1989, p. 240, nn. 162-163). Una terza placchetta leoniana con Giannettino Doria sacrificante è stata pubblicata da Thornton 2006, pp. 828-832. L’attribuzione di un ritratto in cera di Michelangelo Buonarroti oggi al British Museum, sostenuta da Fortnum 1875, pp. 1-15, e raccolta ancora da Pyke 1973, p. 79, è basata sul suo legame con la medaglia leoniana di Michelangelo, che deriverebbe dalla cera. Quest’ultima ne differisce però per il disegno del panneggio, il cui andamento aperto induce a forti riserve sul fatto che l’effigie sia stata modellata nel XVI secolo: con tutte le riserve necessarie, sono più propenso a credere che sia il ritratto plasmato (documentato solo a partire dal XX secolo) a derivare da quello fuso, famosissimo e molto replicato: più che di un falso, potrebbe trattarsi di una copia moderna nel gusto del XVIII secolo (o poco più tarda).
99 Spunti per l’inquadramento artistico della personalità di Leoni, importanti ancorché poco seguiti nella
bibliografia più recente, sono forniti da Becherucci 1935, p. 55, Sricchia Santoro 1966, Franco Fiorio e Valerio 1977, p. 130, che si concentrano sulla sua attività come scultore. All’isolamento della produzione medaglistica leoniana fa invece eccezione il profilo sintetico offerto da Collareta 1998, p. 68, nel quale la scultura e i microritratti metallici di Leoni sono posti al centro delle tendenze figurative affermatesi con il consolidamento del dominio spagnolo.
“Nato e nutrito” ad Arezzo o nei suoi dintorni intorno al 1509100, Leone Leoni sembra aver ricevuto i primi rudimenti dell’arte nell’ambito di una bottega orafa: lo provano non solo i lavori in oro, argento e acciaio che egli eseguì ancora nel quinto decennio del secolo, ma anche il fatto che Benvenuto Cellini dia a “Lione aretino” dell’“orefice” in un passo della Vita nel quale, in riferimento a vicende risalenti al 1539, il fiorentino attribuisce al suo concorrente competenze da intagliatore di pietre101. Anche Girolamo Muzio, descrivendo le bottega di Leone nel 1546, riferisce alla Duchessa del Vasto di aver veduto “il modello di una cosetta che egli avea da fare in argento; et [l’artista] avea davanti disegni in carte, e figure di stucco, e secondo quegli esempi andava formando la sua picciola imagine”102. La lettera del Giustinopolitano tentava senz’altro di accreditare l’amico come scultore e inventore in vista della probabile commissione di un monumento funebre per Alfonso II d’Avalos, ma proprio la necessità di tale promozione fa sorgere il sospetto che, se in tale circostanza la maestria di Leone veniva ricordata soltanto attraverso la medaglia da lui realizzata per il Marchese (sulla quale torneremo tra breve), nel 1546 il catalogo del nostro non doveva annoverare ancora quelle opere di grande formato che i suoi contemporanei ritenevano prerogativa degli “statuari”.
D’altronde, la verosimiglianza di un esordio come orafo non stupisce nel caso di Leoni, giacché sappiamo che nella Toscana del primo Cinquecento questa forma di apprendistato (praticata anche dal Bandinelli) era tenuta ancora in grande considerazione per l’“universalità” cui predisponeva e perché avviava allo studio del disegno: tale posizione è testimoniata ancor oggi dalla versatilità tecnica, dalla maestria figurativa e dall’acrimonia teorica di Benvenuto Cellini, che di Leone fu grosso modo coetaneo103.
100 Nonostante la perdita della documentazione relativa ai natali dello scultore, la sua origine aretina, più volte
contestata sulla base di un’erronea notizia di Paolo Morigia (1595, p. 284), è accreditata non solo dalle Lettere di Pietro Aretino (1538), che dichiarano Leoni parente e conterraneo dello scrittore (Aretino 1997-2002, IV (1550) p. 49, n. 38; VI (1557), p. 118, n. 115), ma anche dal fatto che una mallevadoria prodotta nel 1555 da un altro parente residente ad Arezzo, fra Benedetto di San Pier Piccolo, lo dichiara “in quella nato et nutrito” (Helmstutler Di Dio 1999, p. 651), anche se di ascendenza non nobile. Del resto, Leoni si firma invariabilmente come “Aretino” almeno dal 1546. Un documento piacentino segnalato da Nicola Soldini (1991, p. 60) e da noi riscontrato (ASPc, Consiglio Generale e Anzianato, Provvigioni e riformagioni, b. 14, fasc. 44, c. 157r [154r antica], 17 ottobre 1548) lo designa “domino Leoni Arriatino de Carrogiis” o altrove “Carogis”, ma il toponimo (purtroppo assai comune) potrebbe indicare un luogo di residenza piuttosto che di nascita.
101 Secondo Cellini, Leone sarebbe stato incaricato di frantumare un diamante per ucciderlo facendogli
ingerire dello smeriglio, ma avrebbe proditoriamente sostituito la preziosa sostanza con della polvere di vetro, impossessandosi del diamante (Cellini ed. 1996, 1, 125, p. 444).
A proposito dell’attività orafa di Leoni sappiamo da altri fonti che nel 1546 egli eseguì un’“arteficiosa celata” per ingraziarsi il nuovo duca Pierluigi Farnese. Due anni dopo, come dono per l’infante Filippo, l’artista si vide commissionare un modello della città di Piacenza, presa dagli Imperiali nel 1547 (Ronchini 1865, p. 10; Plon 1887, risp. p. 23 e p. 353, n. 2; Soldini 1991, p. 60): il modellino fu però fatto fondere nel 1566 dallo stesso Filippo II, che desiderava recuperarne l’argento. Una lettera di Pietro Aretino dell’aprile 1546 menziona poi una “tazza d’oro” che Leoni cesellava per Ferrante Gonzaga (Aretino 1997-2002, IV (1550), p. 49. n. 38).
Sulla prospettiva storiografica di un Leoni orafo (affrontata purtroppo solo da punto di vista attributivo) cfr. già Hayward 1976, p. 320; Hackenbroch 1979, p. 37 (che gli attribuisce un pendente in diaspro e lapislazuli dorati del Metropolitan Museum di New York); e Venturelli 1996, pp. 153-155 (che gli ascrive anche un pendente della collezione Thyssen-Bornemisza di Lugano e addirittura un Francesco I in collezione privata). Sulla scorta della notizia sulla celata farnesiana, Scalini 1990, pp. 15-16, 26-27, attribuisce a Leone e Pompeo Leoni una serie di pezzi d’armatura istoriati la cui paternità non può essere discussa in questa sede: meritano però particolare attenzione, in vista di una futura revisione del catalogo leoniano, il caschetto all’eroica del Metropolitan Museum di di New York (inv. 04.3.223) e quello con rotella della Waffensammlung di Vienna (inv. A693: Scalini 1990, figg. 3 e 20).
102 Muzio, Lettere, III, 7, in Muzio 2000 (1551), p. 289.
103 Sulla posizione dell’oreficeria rispetto alle altre arti e sul ruolo che essa rivestiva ancora nel primo
Proprio lo statuto problematico assunto dalla professione di Leone e Benvenuto – che a partire dal 1562 si era battuto vanamente per il riconoscimento dell’oreficeria come quarta arte del Disegno nell’ambito dell’Accademia Fiorentina – potrebbe anzi essere all’origine del silenzio che avvolge l’apprendistato di Leone nella biografia dedicatagli nel 1568 dal pittore-architetto mediceo: tale omissione rientra infatti all’interno della più ampia censura che, all’indomani della disputa con Cellini e in consonanza con gli orientamenti opposti prevalsi all’interno dell’Accademia, Vasari operò ai danni dell’arte di Sant’Eligio nella seconda edizione delle Vite (1568). Nella notizia significativamente intitolata Di Lione Lioni aretino e d’altri scultori ed architetti, un’esplicita reticenza del testo vasariano ci conferma infatti che l’autore non ignorava l’attività orafa del suo collega, sul cui conto si era informato di persona due anni prima, ma la considerava trascurabile. Secondo Vasari, infatti, Leone,
avendo […] fatto in sua giovinezza molte bell’opere, e particolarmente ritratti di naturale in conii d’acciaio per medaglie, divenne in pochi anni in modo eccellente, che venne in cognizione di molti principi e grand’uomini, et in particolare di Carlo Quinto imperatore, dal quale fu messo, conosciuta la sua virtù, in opere di maggiore importanza che le medaglie non sono […]
– dove quel “particolarmente” sembra tacere consapevolmente l’esistenza di altri campi di attività artistica104.
Ma come avviene altrove – per esempio dove le Vite accennano allo scultore Domenico Poggini, che aveva ufficialmente abbandonato la professione di orefice per essere ammesso nell’Accademia Fiorentina105 – l’elogio di Leone si sviluppa proprio a partire dalla sua rinuncia alla medaglistica (che viene artificiosamente presentata come un’occupazione giovanile) e tace tutte le opere che Vasari reputava inferiori alle medaglie, come i lavori di ‘grosseria’.
Un secondo elemento della biografia di Leoni deve la sua incertezza alla particolare impostazione delle fonti più antiche sul suo conto, ed è quello, più problematico, dei luoghi della sua formazione artistica. Il nostro fu sì “nutrito” ad Arezzo106, ma è anche vero che nel 1553 l’accoglienza trionfale riservatagli nella sua città natale fu preparata da Pietro Aretino e da Camillo Albergotti107: se il riconoscimento dei diritti di Leone richiedeva mallevadori locali, ed i suoi rientri in Toscana erano così rari da risultare degli eventi, è probabile che egli si fosse allontanato precocemente dalla patria, lasciando di sé tracce labili che solo i successi della sua maturità rinverdirono.
Se ciò è vero (e ne addurremo subito ulteriori prove), dobbiamo prendere atto che anche in questo caso il profilo biografico tramandatoci per via letteraria è stato deformato da due diversi filtri: da un lato, l’interesse di Vasari per i natali aretini di Leone, decantati anche da Pietro Aretino, e al contempo la scarsa attenzione di entrambi gli autori per gli esordi del
104 Vasari 1966-87 (1568), VI, p. 201 (corsivi nostri). Sulla disputa che oppose Vasari, assertore di un sistema
delle arti basato sulla preminenza teorica di pittura, scultura e architettura, a Cellini (che includeva tra esse anche l’oreficeria), cfr. ora Collareta 2003.
Le metope della casa milanese di Leone (1560-63) sembrano alludere alla professione del padrone di casa con sensibilità diversa da quella vasariana: sebbene infatti non si abbia prova alcuna dell’iscrizione di Leone alla Scuola milanese di sant’Eligio, tra gli “strumenti dell’arte sua” rappresentati nei rilievi egli fece includere anche “staffe, martelli, vasi, sigilli, stecchi et simili”, cosa che ancora Lomazzo poté additare come “essempio” di virtuosa corrispondenza tra decorazione e proprietario (Lomazzo 1973-74 (1584), p. 258). Con un significativo ritocco, nella descrizione vasariana del palazzo “le fregiature sono” invece “tutte di varii stromenti dell’arti del disegno”: Vasari 1966-87 (1568), VI, p. 203. Il viaggio in cui Vasari soggiornò a casa di Leone Leoni e poté informarsi dettagliatamente sul suo conto ebbe luogo nel 1566 (Frey 1930, II, pp. 239- 240, n. DXXXV, lettera di Vasari a Vincenzio Borghini del 9 maggio).
105 Vasari 1966-87 (1568), VI, p. 254. 106 Helmstutler Di Dio 1999, p. 651.
nostro; dall’altro, l’intento di ‘naturalizzare’ Leoni come una gloria milanese, che porta i lombardi Paolo Morigia e Girolamo Borsieri a nasconderne le origini toscane e le tappe veneto-emiliane per alimentare il mito di un Leoni “da Menaggio”, vivo peraltro ancora nella tradizione erudita ottocentesca108. Sarebbe bastata invece una lettura attenta delle opere edite di Giovampaolo Lomazzo e dei rispettivi indici per verificare che ancora nell’ultimo quarto del Cinquecento Leone restava inequivocabilmente aretino, e che la sua importanza nel contesto cittadino non era tale da far dimenticare la sua estraneità alla tradizione plastica e glittica lombarda (che Lomazzo preferiva esemplificare spendendo il nome di Iacopo da Trezzo)109.
Per quanto possiamo desumere dalle medaglie, come vedremo nel prossimo paragrafo, il bagaglio culturale di Leone maturò da un’esperienza variegata e verosimilmente itinerante, e non dagli orizzonti di uno scultore residente in Toscana o in Lombardia.
2. 1536: l’esordio ferrarese, i primi sviluppi veneti e una possibile propaggine sforzesca
Allo stato attuale degli studi, un’ipotesi da non scartare è che Leoni lasciasse Arezzo alla volta di Roma prima del 1526, appoggiandosi sin da allora presso il parente Pietro Aretino; o che lo raggiungesse poi a Venezia, dopo la diaspora causata dal Sacco dei Lanzichenecchi nel 1527110.
Durante gli anni trenta sappiamo per certo che Leoni, già maturo, tentò la fortuna presso alcune corti padane: nel 1536 egli lasciò avventurosamente la Zecca di Ferrara, dov’era incisore dei coni, perché accusato di stampare monete false111. Sulla base del rovescio (Maddalena ai piedi della croce) ci pare possibile mettere in relazione con questa fase del nostro gli scudi d’oro emessi da Alfonso II d’Este a partire dal 1534112. L’importanza dell’incarico ferrarese rende tuttavia verosimile che Leoni, già ventottenne, non avesse esordito qui come artista incisore.
Quali che siano stati i suoi primi passi, la singolare vicenda artistica di Leone Leoni, per come è ricostruibile sulla base della documentazione esterna e dei dati sicuri, assume una fisionomia riconoscibile all’ombra dell’Aretino e sulla scia di un evento roboante come la coniazione della prima medaglia dedicata a costui, avvenuta a Venezia nel 1536113.
108 I termini del dibattito ottocentesco sui presunti natali lombardi di Leone Leoni, basati sulle affermazioni di
Morigia e Borsieri 1619, pp. 470-471, e di Borromeo 1997 (1625), p. 54, possono essere ricostruiti a partire da Giovio 1803, pp. 23-25, n. VII; Casati 1884, pp. 1-30; e Dell’Acqua 1889, pp. 73-81. Le tesi di questi autori circa i presunti natali comaschi di Leoni sono confutate da Plon 1887, p. 2, nota 1.
109 Leoni è menzionato nel Libro dei sogni (Lomazzo 1973-74 (1563 ca.), pp. 164-166), nel Trattato dell’arte
della pittura (Lomazzo ed. 1973-74 (1584), ad indicem), nelle Rime (Lomazzo 1587, ad indicem) e nell’Idea (Lomazzo 1973-74 (1590), pp. 279, 360, 371; cfr. anche Lomazzo ed. 1997, ad indicem). Il ruolo di Iacopo da Trezzo nell’economia dei testi lomazziani verrà meglio trattato nel cap. seguente.
110 Sulla biografia ed i contatti di Pietro Aretino cfr. ora Larivaille 1997, pp. 115-129. Di fatto, gli spostamenti
che dal 1525 al 1527 Pietro Aretino compì tra Roma, Arezzo, Mantova, il Milanese e infine Venezia toccarono molti dei centri artistici cui l’attività di Leoni fu poi legata.
111
Aretino 1997-2002, I (1538), p. 154, n. 93. Sulla veridicità dell’accusa di falsificazione non ho trovato riprove documentarie, ma sta di fatto che eccezionali doti d’imitatore di monete antiche furono riconosciute a Leoni sia da Enea Vico (1555, p. 67), sia da Pietro Aretino (1995 (1538), p. 101).
112
Lo scudo in questione è illustrato cfr. Gulinelli e Morelli 1987, pp. 113-115, nn. 286-294. Non solo il panneggio della penitente ricorda quello del doppio ducato di camera romano del 1538(CNI, XV, 2, pp. 405- 407, nn. 37-48, tav. XXIII, fig. 12), attribuito a Leoni su basi documentarie(Martinori 1917-30, IX, p. 14), ma è anche impaginato a cavallo dell’iscrizione, dove forma un drammatico primo piano di profonda coerenza prospettica; anche alcune lettere (T, R, C) sono sovrapponibili a quelle realizzate nelle medaglie del 1536-37.
113 Bibliografia: Van Mieris 1732-35, III, p. 50; Gaetani 1761-63, I, tav. LXIII, fig. 2; Armand 1883-87, I, p.
162, n. 3; Plon 1887, p. 253; Scher 1989, fig. 9; Waddington 1989, fig. 1; Toderi e Vannel 2000, p. 41, n. 21. Esemplari principali: Rizzini 1892, p. 35, n. 223; Álvarez-Ossorio 1950, p. 101, n. 129; Valerio 1977, p. 136,
La medaglia dell’Aretino, così come quella grosso modo coeva di Tiziano Vecellio (forse lasciata incompleta), mostra uno stretto legame con la ritrattistica di Iacopo Sansovino114: le due teste si inscrivono nello stesso filone che entro il 1554 darà vita alle testine delle porte di San Marco a Venezia, mentre non recano traccia alcuna dell’arte fiorentina del secondo e terzo decennio115. L’outsider Leoni rivela dunque sin da subito orientamenti formali che nelle Venezie erano appena stati importati da Roma: se è vero che egli nacque nei dintorni di Arezzo, furono forse la sua stessa origine, le sue prime esperienze centro-italiane e l’amicizia di Pietro Aretino, Francesco Marcolini e Tiziano Vecellio a interessarlo a voci come quella di Iacopo Tatti. Sicuramente, a partire dal 1527 il Sansovino si pose come punto di riferimento di una plastica rinnovata, il cui bronzo animava pastoso e brillante le superfici morbide e tende impietosamente intensi volti. La medaglia di Pietro Aretino traduce tali principi in un’immagine coniata in cui la barba voluminosa e i capelli crespi si muovono ciocca per ciocca senza essere spezzati o trapunti da solchi taglienti. E alla scuola del Sansovino si apparenta indubbiamente anche il taglio dell’effigie, un busto disegnato in alto dal panneggio, ma interrotto a mezzo, sicché in basso il tronco poggia sulla punta del paludamento ormai vuoto. Se si considera che tra le immagini metalliche di Tiziano l’immediato precedente della medaglia leoniana è un tipo unilaterale ancora così vicino all’arte di Giovanni Falier da poter forse essere suo116, si potrà cogliere quanto l’arrivo di Leoni a Venezia marcasse un’alternativa netta rispetto agli antefatti locali della medaglistica, che aveva mantenuto fermo il riferimento alla stagione ritrattistica belliniana anche in soluzioni iconografiche come il taglio dei busti o l’invaso spaziale dei rovesci. Nelle prime opere veneziane di Leoni affiora però anche un asciutto linguaggio all’antica che non può non essere maturato a ridosso di collezioni numismatiche consistenti come
n. 91; Pollard 1984-85, III, p. 1230, n. 716; Cano Cuesta 1994, p. 169, n. 25; Johnson e Martini 1995, p. 111, n. 2209; Börner 1997, p. 170, n. 734; Attwood 2003, I, p. 93, n. 1 (con un’utile bibliografia sulla fortuna iconografica della medaglia); Toderi e Vannel 2003, I, p. 48, nn. 414-416. Il motto è tratto da Ter., Andria, 1, 20. Per quanto gli esemplari noti della prima medaglia rechino sul rovescio la data 1537, nel carteggio dell’Aretino le menzioni del ritratto metallico occorrono a partire dall’autunno del 1536 stile moderno (lettere del Varchi del 9 ottobre e del 17 novembre 1536: Aretino 2003-04, I (1552), pp. 293-294, nn. 304 e 306). Piuttosto che supporre la perdita di un tipo del tutto ignoto alle collezioni, alla letteratura e alle menzioni epistolari, e al contempo così vicino per datazione a quello di Leoni, pare più probabile ipotizzare che la medaglia leoniana abbia circolato qualche mese prima del 1537 con tale data. Sappiamo inoltre che la prima emissione della medaglia, curata personalmente da Leoni in casa di Francesco Marcolini, fu replicata in argento e in bronzo da Battista Baffo dopo che lo scultore toscano era partito da Venezia (cfr. la lettera di Aretino al Baffo del 16 novembre 1537, in Aretino 1997-2002, I (1538), p. 330, n. 234): si può dunque ipotizzare che la data “1537” venisse impressa nel conio solo nella vecchia tiratura, come conferma l’esistenza di un esemplare privo dell’iscrizione, perché risalente al secondo stato (SMB, ae, d. 45mm: Bernhart 1925-26, p. 69; Börner 1997, p. 172, n. 742; Toderi e Vannel 2000, I, p. 41, n. 22). Osserviamo infine che la firma presente sul tipo più diffuso, come quella di alcune medaglie leoniane papali, è apposta sul conio, e non sul tondello stampato: essa permetteva di distinguere i diversi tondelli in possesso dell’effigiato, ma non dice nulla sull’esecutore della medaglia.
114 Bibliografia: Armand 1883-87, I, p. 166, n. 21 (ibrido con un rovescio oggi attribuito a Valerio Belli); Plon
1887, p. 253; Toderi e Vannel 2000, I, p. 41, n. 23. Esemplari principali: Johnson e Martini 1995, p. 130, n. 2212. Esemplari ibridi: Gaetani 1761-63, I, tav. LXXX, fig. 7; Rizzini 1892, p. 35, n. 226; Regling 1911, p. 15, n. 176; Hill 1912, p. 56, n. 34; Álvarez-Ossorio 1950, p. 229, n. 171 (Leoni); Valerio 1977, p. 137, n. 92; Cano Cuesta 1994, p. 169, n. 24; Johnson e Martini 1995, p. 130, n. 2285; Börner 1997, p. 175, n. 757; Attwood 2003, I, p. 93, n. 2.
115
Dopo la classificazione di Leone come araldo della scuola fiorentina, di cui “servì moltissimo a comunicare i modi e lo stile” in Lombardia (Cicognara 1823-25, V, pp. 248-249), più puntuali rapporti stilistici col Sansovino sono stati notati sotto angolature diverse nell’opera statuaria di Leoni: cfr. Franco Fiorio e Valerio 1977, p. 130; Estella Marcos 1994, p. 50; Cupperi 2004 (1), p. 103.
116
Toderi e Vannel 2000, I, p. 282, n. 820, e la bibliografia precedente schedano la medaglia di Tiziano come un pezzo anonimo. A mio avviso anche la datazione stilistica della medaglia va spostata dalla seconda alla prima metà del XVI secolo, all’interno del quale esso trova riscontro in un filone medaglistico poi sbaragliato dagli allievi di Sansovino e di Leoni.
quelle che a Roma e nel Veneto andavano conquistando l’interesse di antiquari sempre più specializzati117. Le medaglie dell’entroterra veneto, del resto, imitavano la monetazione greco-romana non solo nelle singole stilizzazioni e nell’impaginazione della testa, ma anche nelle soluzioni adottate per distribuire il rilievo sul conio – non a caso l’interprete più accreditato di tale orientamento ritrattistico, Giovanni da Cavino (1500-70), presenta un’affinità stilistica indubbia con Leoni, suo contemporaneo stretto118 –.
Nella medaglia leoniana di Pietro Aretino, ad esempio, le ciocche ritmiche delle barba e la raggiera di virgole disegnata dai capelli sono stilemi antichi che superano di molto la semplice adozione di un tipo ritrattistico classico da filosofo119. La moneta antica si configura a questa data come un repertorio di pacate e ferme caratterizzazioni – il cipiglio volitivo, la serenità dell’atleta, la sprezzatura del saggio verso l’acconciatura: essa dispiega all’artista moderno potenzialità espressive e celebrative da spendere in forma di attributo (come già Valerio Belli aveva mostrato nelle sue medaglie di personaggi antichi)120. Ma rispetto a Valerio – disponibile ad imitare e ad attingere tra convenzioni ed epoche diverse della monetazione antica, anche a livello epigrafico – Leone si attiene ad un canone figurativo più ristretto ed evoluto, che individua nelle emissioni imperiali romane in lega di rame dei primi due secoli cristiani un modello da privilegiare per le sue qualità tecnico- formali. Di tale modo di vedere si sarebbe fatto portavoce a Venezia, nel 1555, Enea Vico,