• Non ci sono risultati.

Cap I.7 Appunti per una cronologia degli spostamenti di artisti ed opere

II. I primi anni quaranta

Nel corso degli anni quaranta, la produzione bronzistica milanese aumentò sensibilmente, e la città prese ad attrarre committenti da Genova, da Cremona e dall’Emilia Settentrionale, e di esportare artefici.

A voltare pagina rispetto alla tradizione declinata della coniazione sforzesca era stato il governatore Alfonso d’Avalos, che nel 1542 aveva voluto presso di sé uno scultore come Leone Leoni, forestiero e forte d’esperienze maturate presso le capitali della medaglistica degli anni trenta, Roma, Venezia e Padova (per tacere di Urbino e di Ferrara). In particolare, il ricambio di linguaggio promosso dalla corte dei luogotenenti imperiali fu alimentato da due elementi concomitanti ma distinti: l’introduzione del fuoriclasse aretino, desideroso di mostrare il proprio valore, e la circolazione di medaglie di nuova concezione come i primi microritratti asburgici e quelli di Andrea Doria. Da queste opere gli artefici milanesi avrebbero ricevuto un’iniezione di adrenalina destinata a lasciare tracce durature e a riunificare i percorsi della plastica, della coniazione e dell’intaglio intorno ai modelli offerti dalle medaglie.

La prima fortuna delle medaglie leoniane si misura soprattutto nelle scelte iconografiche legate al ritratto. Un esempio precoce di questo fenomeno è rintracciabile nella medaglia di

a Milano di figure legate alla bottega di Cellini (come “PPR”), i tratti apparentemente milanesi della medaglia di Jean de Lorraine, risalente agli anni quaranta, si spiegano probabilmente come un esito indipendente (forse bellifontano) della medesima rileaborazione di stilemi celliniani che si manifestò in Lombardia dopo l’approdo di “PPR” (cfr. qui il cap. I.4). Basta del resto confrontare il sottile tratteggio dell’effigie cardinalizia o il suo timido emergere dal campo con le prime opere certe di “PPR”, che hanno un rilievo più franco e un modellato meno fine, per raggiungere rapidamente la consapevolezza che anche tra i numerosi allievi di Benvenuto i medaglisti furono più d’uno.

Gianfrancesco Trivulzio (1543-49)719, in cui Pier Paolo Romano adottò puntualmente il taglio e l’impaginazione del ritratto di Andrea Doria (1541)720. Un secondo caso interpretabile sulla base di questa chiave di lettura ci è offerto dalla medaglia cesarea del 1543, che proponeva un’iconografia da semplice gentiluomo ed ebbe un seguito tanto compatto in termini geografici, quanto poco coerente con la classe ritrattistica suggerita dalla dignità del primo effigiato e dal rovescio anticheggiante che ne accompagnava l’immagine. Le sue prime derivazioni ritraggono infatti personaggi milanesi o dell’area imperiale di rango non principesco e in qualche caso nemmeno aristoricatico (il matematico Girolamo Cardano, il giurista Francesco Merati e un agente dei Fugger in Italia, Christoph Mülich)721.

Certo, la frequenza e la distribuzione delle riprese mostrano chiaramente che i tipi leoniani dovevano la loro fortuna ai loro numerosi esemplari e al credito conferito all’artista dalla committenza imperiale; tuttavia, a differenza della medaglia doriana del 1541, quella cesarea del 1543 diede adito a forme di imitazione in cui il rapporto col modello non aveva significati emulativi rispetto al soggetto raffigurato, ma solo rispetto alla qualità formale dell’immagine: esso derivava cioè da un riconoscimento di Leoni da parte dei colleghi722. Quest’affermazione di convenzioni anticheggianti o al contrario assolutamente moderne attraverso il tramite di Leone Leoni è un dato irrinunciabile per la descrizione storica della medaglistica milanese, ed è tanto più rilevante se si considera che ancora nel 1558-59 la medaglia siglata dal monogrammista “VVP” per il gran cancelliere Francesco Taverna (forse non a caso il committente più sordo agli indirizzi artistici incoraggiati dal rivale Ferrante Gonzaga) esemplifica un paradigma ritrattistico diverso, rimasto senza seguito e caratterizzato dalla frontalità del busto, dal forte aggetto del capo e da un’enfasi impietosa sugli accidenti fisionomici723. Si tratta in tutta probabilità dell’opera di un artista di cultura austriaca o tedesca, estremamente vicino agli esordi di Valentin Maler (1540 ca.-1603)

719

Toderi e Vannel 2000, II, p. 506, n. 1502; ma cfr. qui il cap. I.3.

720 Nel ritratto di Gianfrancesco Trivulzio il modellato del nudo e il drappeggio del paludamento ci assicurano

che intorno al 1548 il successo delle invenzioni dell’aretino non corrispondeva ad una tangibile gravitazione stilistica da parte dei medaglisti attivi a Milano, giacché la diversità di linguaggio rispetto al ritratto leoniano di Andrea Doria rimane notevole. Il successo del modello genovese andrà piuttosto motivato a partire dall’aura antica conferita al busto dal suo modello monetale antico e dalla reinterpretazione animata e spaziosa che ne diede Leoni.

721 Toderi e Vannel 2000, I, risp. p. 103, n. 237, del 1544 (per l’attribuzione a Iacopo da Trezzo, cfr. qui il

cap. I.2); p. 101, n. 231 (anni quaranta del secolo XVI?); p. 52, n. 65 (decenni centrali del XVI secolo). Al limite estremo di questa serie iconografica si contano anche imitazioni più prone (per esempio alcune varianti difficilmente databili per medaglie dello stesso Carlo V, e la medaglia di Ottaviano Pallavicini, che è quasi un calco di una di queste: cfr. Toderi e Vannel 2000, risp. pp. 45-46, n. 40; e p. 104, n. 244). Una ripresa tardiva del tipo leoniano può essere segnalata anche nell’effigie di Benedetto Pesaro, governatore di Verona ritratto nel 1556 o poco dopo da qualche medaglista attivo in Veneto: cfr. Toderi e Vannel 2000, I, p. 199, n. 549.

722 A questo proposito giova notare che, dal punto di vista del decoro, la fortuna del tipo leoniano adattò a

banchieri e cattedrati quello che dal punto di vista italiano appariva un abbigliamento poco consono ad un Imperatore, come ancora nel 1584 Lomazzo sottolineava in termini che sembrano alludere proprio alla medaglia cesarea del 1543: “Circa gl’abiti, di grado in grado si hanno a sminuire secondo le genti […]. In questa parte di distribuire gl’abiti, o per ignoranza, o per poca avvertenza, si veggono grandissimi errori; come, per essempio, gl’imperatori con le berrette in testa che gli fa rassembrar più tosto mercatanti che imperatori, cosa che tanto più disdice e spare, quanto che all’aria loro imperiale par che si confacciano solamente le armi” (Lomazzo 1973-74 (1584), p. 377). Le ragioni della diffusione di un’iconografia così semplice vanno forse identificate nella lunghezza del busto (che accentua l’articolazione tridimensionale della figura) e nella terminazione del panneggio (le cui pieghe dissimulano il troncamento in maniera naturale e con una ponderazione che chiama in causa il bordo a mo’ di balaustra).

723 Toderi e Vannel 2000, I, p. 78, n. 148. Il monogrammista “VVP” non è noto che da un’altra medaglia,

quella di Clara Tolentino, moglie del medesimo Taverna (p. 78, n. 149). Sicuramente da escludersi è l’ipotesi, avanzata da Börner 1997, p. 181, che si tratti di un medaglista lombardo.

anche per dettagli epigrafici (la lettera “T”) e morelliani (la pupilla incisa, i riccioli della barba)724.

A proposito del quinto decennio del XVI secolo vale la pena di ricordare anche la nostra ipotesi circa la duratura gravitazione a distanza di Pastorino Pastorini rispetto a Milano: una prospettiva di ricerca cui offrono materia i numerosi episodi che, nei capitoli precedenti, ci hanno mostrato la dipendenza di Pastorino maturo da invenzioni di Leone Leoni, Iacopo da Trezzo e Pompeo Leoni. Se le nostre ipotesi sull’artista senese si dimostrassero corrette, la sua esclusione definitiva da Roma e da Milano, avvenuta dopo l’arrivo di Leone Leoni nelle due città, cioè rispettivamente nel 1537 e nel 1542, conferirebbe un significato molto pregnante al suo successivo vagare tra Reggio Emilia, Parma, Ferrara, Bologna e Mantova: buon ritrattista, ma poco raffinato nei rovesci, il più prolifico medaglista del Cinquecento sarebbe rimasto tagliato fuori dall’area lombarda per l’affermarsi di quella che Mark Jones ha chiamato la “medaglia manierista”. La stanzialità di Pastorino in Emilia avrebbe però consolidato il primato bolognese e ferrarese nel campo del microritratto in cera o in stucco, già avviato in loco da Alfonso Lombardi (che morì nel 1537)725.

Le opere di Leone Leoni diedero inoltre un impulso determinante, anche se probabilmente non esclusivo, alla diffusione lombarda di una forma di rovescio in cui il piano di posa delle figure, caratterizzato come uno zoccolo di terreno sospeso nel campo, definisce uno spazio prospettico che non si limita alla profondità reale dell’aggetto, ma coinvolge rilievi stiacciati e fondali atmosferici estremamente lussureggianti, coerenti con la precettistica gioviana sulle imprese. Il confronto tra la prima medaglia di Girolamo Cardano, risalente al

724 Sappiamo poco degli esordi del moravo Valentin Maler, la cui attività come medaglista è documentata a

Norimberga a partire dal 1568; ma un confronto con una delle sue prime medaglie, quella di Wenzel Jamnitzer (1571: cfr. Karl Schulz, in Scher 1994, p. 292), è molto indicativo sulla sua vicinanza con il monogrammista “VVP”. Non mi è stato ancora possibile esaminare dal vero le medaglie dei Taverna dopo avere concepito l’idea che il mongrammista sia identificabile con Maler, e posso pertanto solo ipotizzare che l’iscrizione “VVP” possa essere meglio letta come “Walentinus pictor”, “W(alentinus) F(ecit)” o qualcosa di analogo.

725 A proposito della genesi del microritratto in cera come opera autonoma credo che vada riconsiderata la

centralità attribuita a Milano da Hill 1909 (2), pp. 31-35 e da Kris 1929, p. 80: come abbiamo visto, uno dei suoi riconosciuti araldi in Europa, Antonio Abbondio, ebbe probabilmente poco a che spartire con la città lombarda, mentre la sua produzione dimostra tangibili rapporti con l’area emiliana (cfr. infra, cap. I.6). Lo stesso può dirsi di Anteo Lotelli, milanese di origine, ma legato più alla cultura e alle tecniche cispadane che alla tradizione di Leone Leoni e di Annibale Fontana (infra, cap. I.5). Torna quindi ad accreditarsi la prospettiva storiografica delineata da Vasari, le cui Vite menzionano medaglie in cera e stucco solo in riferimento ad artisti attivi in Emilia o nell’Italia Centrale (Vasari 1966-87 (1568), IV, p. 630): “Pastorino da Siena à fatto il medesimo nelle teste di naturale, che si può dire che abbi ritratto tutto il mondo di persone e signori grandi e virtuosi, et altre basse genti. Costui trovò uno stuc[c]o sodo da fare i ritratti, che venissino coloriti a guisa de' naturali, con le tinte delle barbe, capelli e color di carni, che l’à fatte parer vive; ma si debbe molto più lodare negli acciai, di che à fatto conii di medaglie eccellenti. Troppo sarei lungo se io avessi di questi che fanno ritratti di medaglie di cera a ragionare, perché oggi ogni orefice [ne] fa, e gentiluomini assai vi si son dati e vi atendano, come Giovan Batista Sozini a Siena, et il Rosso de’ Giugni a Fiorenza, et infiniti altri, che non vo’ ora più ragionare”. E ancora, nella notizia Di Lione Lioni (VI, p. 204, ed. 1568): “Et ultimamente Mario Capocaccia anconetano ha fatti di stucchi di colore, in scatolette, ritratti e teste veramente bellissime, come sono un ritratto di papa Pio Quinto, ch’io vidi non ha molto, e quello del cardinale Alessandrino”. Per un ricordo di Pastorino ceroplasta di Ulisse Aldrovandi (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. Aldrovandi, 21/II, cc. 608r-609v) cfr. Olmi 1977, p. 155. Ulteriori testimonianze sulla realizzazione di medaglie in cera a Bologna sono raccolte da Tumidei 2002, pp. 71-76, che ricorda anche l’attività ceroplastica di Timoteo Refati, altro artista impropriamente classificato da alcuni come milanese (cfr. qui l’Introduzione). L’idea che la genesi della medaglia in cera avesse avuto luogo in Emilia e in Francia nel secondo quarto del secolo è del resto già espressa sulla base di fonti letterarie da Lightbown 1970, parte I, pp. 47-48, e da Böll 1977, pp. 442-444, che sottolinea però anche la probabile genesi fiamminga o tedesca di questo genere ceroplastico. Meno convincente, ivi a p. 50, è invece l’ipotesi che la leoniana “cera de la bela Felipina”, da cui Antoine Perrenot fece fondere una medaglia (Plon 1887, p. 366, n. 32), o le menzionate da Leoni in una lettera del 30 marzo 1552 (Plon 1887, p. 367, n. 35) fossero opere finite e autonome.

1544, e quella del 1550726, che raffigura lo stesso soggetto onirico727, mostra assai eloquentemente che le pulite soluzioni prospettiche mostrate da Leoni a partire dal 1548-49 attecchirono in un ambito che aveva già tentato autonomamente la forzatura dell’invaso spaziale di tradizione quattrocentesca. È probabile che una simile soluzione fosse suggerita agli autori delle due medaglie, per vie rispettivamente romane e milanesi, dalla conoscenza di medaglie e placchette del Caradosso, la cui cultura antiquaria e prospettica aveva trovato un’espressione matura nella raffigurazione della Basilica di San Pietro bramantesca (rappresentata in scorto sul rovescio della medaglia di Giulio II)728.

Outline

Documenti correlati