Capacità e identità
8. Capability before identity
Siamo tornati, dunque, alla questione dell’identità, che sta alla base del discorso metodologico appena affrontato. A questo punto è opportuno capire in che relazione l’etica delle capacità si trovi con la moltiplicazione identitaria, per vedere se davvero la ragione può decidere sull’identità, come sostiene appunto Amartya Sen.
A tale scopo ci supporta nuovamente l’analisi di Marramao198, che distingue due diversi ruoli all’interno del concetto di identità sociale, il primo legato alla funzione percettiva, ovvero al modo in cui un individuo percepisce il mondo e sviluppa le sue credenze, il secondo incentrato sul ruolo definitorio dell’identità, cioè il suo legame con l’idea di bene sociale.
Tenendo presente questa partizione, andiamo a ripercorrere la posizione seniana di reason
before identity, per capire in che modo si struttura la sua riflessione.
Sen sostiene chiaramente che l’identità sociale influenza significativamente il comportamento umano, dunque, come abbiamo visto, che le persone con cui ci associamo hanno una grande influenza sui nostri modi di pensare, tanto che considera fondamentale il ruolo definitorio dell’identità sociale per una corretta formulazione dell’idea di bene sociale e anche per definire i limiti e le applicazioni dell’interesse sociale: «ogni formulazione della nozione di bene sociale non può prescindere dalla domanda: rispetto a quale gruppo di individui si parla di bene?»199. Questa è una demarcazione necessaria della scelta sociale, infatti in qualunque analisi del bene sociale, sostiene Sen, viene posto l’interrogativo circa chi includere nell’aggregazione complessiva. Quindi si opera un meccanismo di identificazione sociale per definire quale sia il bene della comunità, ma per far questo risulta necessario effettuare un ragionamento su quale sia il gruppo su cui concentrare l’attenzione e, soprattutto, perché.
«Non è difficile vedere come tale ruolo definitorio lasci spazio alla scelta e al ragionamento»200: qui avviene la saldatura, secondo l’economista indiano, tra razionalità e identità, proprio nella strutturazione della giustizia, quando risulta necessario dividere le persone in gruppi per distribuire le risorse. Dato che ognuno di noi ricopre più ruoli allo stesso tempo, tale classificazione risulta estremamente difficile e non può basarsi su un unico criterio identificativo ma deve usarne parecchi e contemporaneamente, ad esempio la
198 Per tale classificazione cfr. G. Marramao, La passione del presente, Bollati Borighieri, Torino 2008, p. 64 e A. Sen,
La ragione prima dell’identità, in La ricchezza della ragione, il Mulino, Bologna 2000, p. 12.
199
A. Sen, La ragione prima dell’identità, op. cit., p. 12
nazionalità, il lavoro, il tipo di studi, le problematiche fisiche, il genere, tutti elementi che creano delle griglie trasversali tra le persone e strutturano il loro bisogno di giustizia.
Sembrerebbe necessario l’apporto della razionalità per conferire a ciascun individuo le circostanze di giustizia e per evitare pericolosi e ingiusti squilibri.
Ciò significa che l’identità di riferimento è plurale, ovvero non esiste un metro unico per ripartire la società in categorie fisse, poiché ogni individuo fa riferimento a diverse identità e dunque a diversi tipi di rivendicazione. Nell’analisi del bene sociale queste variabili fanno sì che si possa creare un distacco tra le possibili soluzioni teoriche ai problemi di giustizia e la realtà concreta dei bisogni. Le strade possibili, infatti, sono principalmente due: da una parte il rischio di un individualismo astratto, di stampo liberale, che consideri la persona come una monade immune dalle influenze della società su di lei; dall’altra l’assolutizzazione di una delle identità in gioco, di un solo ruolo, estremizzando il conflitto identitario e non considerando il ruolo delle altre identità, quindi non risolvendo il problema di giustizia.
Queste sono due strade già intraprese dalla filosofia politica contemporanea e i cui rischi sono già emersi e sono stati ampiamente riconosciuti e descritti, basti pensare alle critiche fatte alla Theory rawlsiana e a quelle di stampo opposto, mosse ai teorici del multiculturalismo. Sottolinea ancora Marramao come «ciò di cui l’imperialismo delle identità non si avvede è, prima ancora del fatto del pluralismo evocato dall’ultimo scorcio della riflessione rawlsiana, il dato di fatto della pluralità del Sé con il connesso fenomeno delle lealtà conflittuali»201.
Dunque il Multiple Self sembra essere una variabile impazzita, che né il liberalismo rawlsiano né i comunitaristi sembrano riuscire ad incastonare nelle loro teorie, al contrario di Amartya Sen, che negli ultimi anni ha sviluppato una riflessione sull’identità multipla in sintonia con la teoria delle capacità. Basti pensare al discorso dell’economista indiano citato prima, nel quale si constatava la necessità del pluralismo nel momento in cui si discute del bene comune: avere come riferimento ciò che una data politica può fare ai cittadini significa tenere conto della molteplicità di esigenze da considerare.
Uno dei problemi che possono sorgere, tuttavia, adottando la prospettiva del Multiple Self è costituito dal rischio di non riuscire a concettualizzare i bisogni umani, proprio a causa della difficoltà degli stessi soggetti che, dovendo identificarsi in più ruoli sociali e assumendo più identità, possono scoprire di avere dei desideri sociali in conflitto tra loro.
Per questo Sen ha cercato di dimostrare che reason is before identity, cioè che, nonostante alcune identità vengano scoperte inconsapevolmente, «ciò non vuol dire ridurre l’identità semplicemente ad una questione di scoperta, anche quando la persona scopre qualcosa di molto importante su se stessa rimangono comunque scelte da affrontare»202.
Il punto chiave è che, nonostante le identità possano essere scoperte e non scelte, il concetto di scelta non è subordinato alla passività della scoperta, poiché, una volta assunta la consapevolezza di una o più identità, deve intervenire in aiuto la scelta razionale nell’ orientare il comportamento verso quell’identità che, in quel preciso momento e di fronte a quel preciso problema, può essere chiamata in causa e soddisfare i bisogni.
Le scelte devono essere effettuate anche quando si fanno delle scoperte, perché, continua Sen, «molte pratiche tradizionali e presunte identità sono crollate dopo essere state messe in discussione ed essere state sottoposte ad un giudizio critico»203.
Tuttavia si potrebbe obiettare che, così come l’identità è multipla e, quindi, non può essere utilizzata una singola identificazione in modo assoluto come criterio per le decisioni, altrettanto multipla è la scelta, che rimane in balia dell’incertezza del momento.
Abbiamo, infatti, visto come Pizzorno descrivesse l’identità individuale come mutevole sincronicamente ma, soprattutto, diacronicamente: dunque una scelta operata in un determinato contesto e in un certo tempo può essere giudicata completamente errata dallo stesso soggetto in un tempo successivo, proprio perché alcune caratteristiche del soggetto stesso sono mutate.
Aggiungendo a ciò l’idea che il sé sia multiplo, si crea una moltiplicazione infinita di vecchi e nuovi io, di scelte passate e future, di responsabilità decadute e incertezze paralizzanti, che rendono difficile giustificare sia il discorso seniano che quello di un liberale come Rawls o di un comunitarista come Sandel.
Dunque, per riassumere, l’etica delle capacità è in grado di ricostruire il filo rosso delle necessità individuali nonostante la dinamica del Multiple Self impedisca ogni tentativo di stabilizzazione delle scelte.
Ciò accade attraverso l’adozione dei quattro criteri metodologici:
• il paradigma dell’incompletezza, che permette di operare analisi sulle scelte anche se queste non sono chiare e stabili nel tempo;
• la metodologia del comparativismo, che opera confronti tra decisioni diverse, effettuate in contesti sociali, politici e culturali diversi, cercando, attraverso le capacità
202
A. Sen, La ragione prima dell’identità, op. cit., p. 16.
di base, di trovare un consenso per intersezione e raggiungere l’universalità necessaria per una teoria della giustizia globale;
• l’idea di pluralità della giustizia, che rende unilaterali i diversi criteri stabiliti per calcolare la diseguaglianza, a favore di un orizzonte più ampio possibile sul calcolo del tenore di vita delle persone, dunque sulle diverse motivazioni che spingono un individuo a giudicare la propria situazione;
• il concetto di razionalità molteplice, vera chiave di volta per giustificare la necessità di un criterio basato sulla concretezza dei bisogni umani, come appunto è quello delle capacità, che non si ferma di fronte alla moltiplicazione delle scelte razionali nel tempo ma ancora la riflessione alla contingenza delle situazioni umane.
Questo è il metodo attraverso cui è possibile sostenere come le capacità vengano prima del bisogno identitario perché lo strutturano, attraverso la necessità di alcune dinamiche basilari, dall’essere nutrito al poter vivere in una società dove si è rispettati, pilastri di ogni possibile identificazione successiva, di ogni ruolo sociale investito, di ogni cittadinanza.