Etica delle capacità: una discussione
1. Tra normativo e descrittivo
Alle radici di ogni filosofia politica ci sono due problemi, opposti ma complementari: uno è rappresentato dalla questione del potere, ovvero, parafrasando Machiavelli118, come si conquista, come si mantiene, come si struttura, come si cede, l’altro è quello delle giustizia, che cosa sia, come si misuri, come si mantenga. Potere e giustizia sono le due facce della stessa medaglia, le due facce della politica, che a volte si intrecciano tra loro, a volte si allontanano fino ad essere due idee contrapposte tra loro.
Ma i due concetti sono anche complementari e funzionali l’uno all’altro. Infatti da una parte, per assicurare la giustizia in una comunità politica, è necessario detenere il potere, anche per avere la facoltà di organizzare e strutturare le condizioni che la rendono possibile, dall’altra, perché ottengano giustizia tutti gli individui componenti uno stato, è vitale che il potere venga frenato e non possa creare ingiustizia violando la sfera di libertà individuale. Dunque il potere può aprire lo spazio alla giustizia ma anche metterla in pericolo, come la giustizia può costituirsi in contrapposizione ai potere ma, allo stesso tempo, averne bisogno per esistere.
Il punto è proprio questo: l’esigenza di giustizia emerge sempre più nel momento in cui l’eccesso di potere mette in pericolo le libertà di base e i principi democratici che sorreggono una comunità politica. Da qui nasce il problema della giustizia e le relative questioni dei diritti e della loro tutela.
È in questo sfondo concettuale che si costruisce il discorso delle capacità, come uno dei tanti contributi volti a delimitare lo spazio di manovra del potere e le aree dove l’individuo ha la piena libertà di esprimere se stesso e agire secondo la sua volontà.
Nel momento in cui si affrontano concetti estremamente complessi e non del tutto definiti a livello teorico, si corre il rischio di fallire l’analisi e di fraintendere il significato e gli effetti che l’utilizzo o meno di tali strumenti concettuali comporta. È questo il caso del capabilities
approach, vero e proprio oggetto misterioso della filosofia morale e politica contemporanea.
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Così infatti spiega Machiavelli: «…disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono», dalla Lettera a Francesco Vettori, Firenze, 10 dicembre 1513.
È frequente, infatti, trovare una letteratura piuttosto critica e confusa a riguardo e che, nello spiegare il concetto di capacità, trae valutazioni discordanti, non tenendo conto dell’incredibile effetto pratico che il concetto stesso ha prodotto all’interno degli indici di valutazione delle organizzazioni internazionali. Basti pensare che il rapporto sullo sviluppo umano (UNDP), che annualmente viene redatto dalle Nazioni Unite, utilizza il concetto di funzionamento e di capacità come uno dei principali criteri per misurare lo sviluppo e le condizioni di un Paese.
Dunque siamo di fronte ad un’idea estremamente proficua sotto il punto di vista della potenzialità politica ma ancora avvolta in una nube di incompletezza sul piano teorico. Ciò ovviamente ne mette in discussione anche le stesse realizzazioni pratiche, dato che, se ci fosse più chiarezza nei presupposti, si potrebbero raggiungere migliori risultati.
Per tentare una chiarificazione concettuale dell’etica delle capacità e per dare vita al progetto di ridefinizione di tale concetto, bisogna prestare attenzione alla distinzione tra normativo e descrittivo. Il concetto di “capacità”, come è stato formulato dall’economista Amartya Sen e come si è successivamente sviluppato e modificato, può sembrare di tipo normativo, in quanto il rischio è di vedervi una qualche forma di prescrizione riguardo ai modi in cui vivere una vita buona e giusta. In realtà, nella sua formulazione originaria, è estremamente astratto e assolutamente privo di qualsiasi intento contenutistico, come vedremo in seguito.
Nella filosofia politica spesso si ha a che fare con intuizioni, che inizialmente si propongono unicamente di essere strumenti descrittivi per aiutare la comprensione di una determinata situazione, in seguito sono costrette per forza ad inserirsi in un contesto particolare di tipo giuridico, economico, sociologico e, per poter essere efficaci, devono prendere le parti di questa o quella politica, dunque assumere connotati prescrittivi.
La normatività di un concetto non è qualcosa da condannare tout court, anche perché attiene alla sfera comune di un certo tipo di filosofia morale e pratica. Nonostante ciò, l’intento della presente ricerca è quello di considerare l’etica delle capacità, mantenendone la neutralità prescrittiva e costruendo una rete concettuale di riferimenti (le capacità appunto) che possano ricoprire, in modo più adeguato possibile, il ruolo di strumenti per descrivere il mondo sociale e non di precetti per una certa politica. Tale compito sarà assolto dalle organizzazioni sovranazionali ed anche dai singoli stati, che cercheranno di coniugare i principi espressi nell’etica delle capacità con le strutture concrete e contingenti della sfera pubblica.
Per questo la questione delle capacità emerge pienamente verso la fine degli anni settanta del secolo scorso, in contrapposizione ad una tradizione di pensiero molto influente come l’utilitarismo, ma anche in dissociazione dall’altra grande scuola che si impone nella filosofia politica, il neocontrattualismo liberale di John Rawls.
La teoria è elaborata dall’economista premio Nobel 1998 Amartya Kumar Sen119, di origini indiane ma di formazione specificamente occidentale, nonostante il suo pensiero si contraddistingua per una forma di sincretismo che gli fa analizzare l’occidente con gli occhi di un orientale e viceversa, smontando i luoghi comuni dell’orientalismo e dei valori asiatici.
Le sue osservazioni sulla politica e sull’etica provengono da un intellettuale che introduce, all’interno della filosofia di stampo liberal, categorie escluse da tale orizzonte concettuale, come i concetti di capabilities e functionings, di human flourishing, di felicità e well-being. Lo spostamento dell’attenzione verso le tematiche della felicità e della realizzazione umana, strettamente legate al discorso sul bene, sembrerebbe avvicinare la riflessione seniana alla sponda comunitarista. In realtà non è questa la sua intenzione, in quanto Sen rimane un filosofo liberal avverso a quelle filosofie che assolutizzano l’idea di comunità: semplicemente il suo scopo consiste nel riformulare la teoria della giustizia nel senso di un’apertura verso quella contingenza dimenticata da Rawls, proprio per il suo costante attaccamento alla situazione concreta nella quale vivono gli uomini120.
Il capabilities approach è una delle definizioni date alla sua teoria normativa, poi ripresa da Martha Nussbaum negli anni ‘80, teoria che, successivamente, ha avuto un grande sviluppo fino a trovare applicazione annuale negli Human Development Reports del “Programma di sviluppo delle Nazioni Unite”.
119 «Mi capita spesso di trattare me stesso in modo discretamente amichevole, e quando dico qualche sciocchezza
capisco immediatamente che, con amici come me, non ho bisogno di nemici» (A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari, p. VII). Questa frase, con la quale l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, in un certo senso, presenta se stesso, è forse il modo migliore per entrare nello spirito dello studioso di cui ci accingiamo a trattare. Sappiamo che la sua formazione è diversa da quella di John Rawls, di Robert Nozick e degli altri filosofi politici americani, poiché, nato nel Bengala, ha vissuto il periodo tormentato dell’indipendenza indiana ed anche quello successivo, caratterizzato da profonde divisioni politiche e religiose. Più volte, nelle sue conferenze, ha rievocato le atrocità osservate da bambino e le sofferenze della sua popolazione. Tali elementi possono spiegare il motivo della costante attenzione per le problematiche sociali legate all’emarginazione, alla violazione dei diritti umani, alla povertà e all’incomprensione tra culture diverse, tematiche alla base dei suoi successivi studi teorici, che lo hanno condotto ad una posizione di primo piano sia nel campo della teoria economica che in quello della teoria politica.
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Sergio Filippo Magni ha messo a confronto i due filosofi sul terreno comune delle loro teorie etiche basate sull’approccio alle capacità, precisando che la teoria seniana si riferisce ad un’etica sociale e ha come obiettivo la risoluzione di problemi come, ad esempio, la disuguaglianza sociale, la povertà o le carestie, da Sen particolarmente studiate. Tale approccio non significa negare la rilevanza degli aspetti individuali, proprio perché le capacità sono una prerogativa degli individui e riguardano la piena realizzazione del singolo all’interno della società. Non si vuole, quindi, imporre una particolare concezione del bene ma far sì che un governo possa permettere ad ognuno di raggiungere «[…]un ideale di sviluppo da effettuarsi attraverso l’esercizio delle capacità individuali, un ideale di autorealizzazione e di fioritura umana» (cfr. S.F. Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, il Mulino, Bologna 2006, p. 31).
Ma che cosa significa in concreto l’espressione “etica delle capacità”? Che cosa si intende per “capability”? Quali sono le conseguenze pratiche di questo pensiero e le possibili contraddizioni che emergono nel momento in cui si vuole applicare tali idee alla realtà? Nei prossimi capitoli si cercherà di descrivere il concetto in tutte le sue sfaccettature e si proverà a ridefinirlo in base alle critiche che sono state avanzate e alle nuove esigenze che il mondo attuale impone.