Il teorema dei diritti uman
7. Alla ricerca del fondamento
Da quest’ultimo discorso emerge un dato importante: l’universalismo dei diritti umani ha bisogno di una base comune su cui poggiare per ottenere il consenso necessario tra i popoli. Per arrivare a ciò, si presenta la necessità di riconoscere un fondamento chiaro e distinto dei diritti umani, un punto di partenza condiviso su cui costruire l’impianto giuridico della tutela degli stessi.
In qualunque modo si intenda lo statuto dei diritti e si concepisca la loro efficacia, bisogna preliminarmente affrontare tale discorso, andando a rintracciarne le radici concettuali, sempre che vi siano e siano condivisibili.
Secondo il biologo francese Jean Hamburger, i diritti umani non sono un qualcosa che deriverebbe da una fantomatica nozione di natura umana, in realtà sono una costruzione dell’uomo, una convenzione, un artificio sociale utile a frenare gli impulsi distruttivi che l’uomo allo stato di natura tenderebbe ad avere. Si tratta di un prodotto e di una conquista del cosiddetto homo societatis sull’homo biologicus e niente di più falso sarebbe affermare che i diritti umani siano diritti naturali, secondo una visione giusnaturalistica, quindi diritti coessenziali all’essere umano poiché diretta conseguenza delle proprietà della sua natura umana. Al contrario l’uomo, come essere biologico, è portato a scontrarsi con gli altri esseri umani, ad aggredirli per sopravvivere e dunque risulta piuttosto difficile instaurare una forma di convivenza che possa rispettare la dignità umana così come la intendiamo oggi. Per questo i diritti umani, in realtà, sarebbero, secondo Hamburger, una vittoria dell’io sociale sul quello biologico, imponendo all’essere umano di frenare i propri impulsi e rispettare l’altro. Ciò fa riflettere su quanto possa essere difficile la battaglia per la diffusione di una cultura dei diritti umani, proprio perché, a suo avviso, naturalmente e spontaneamente si preferisce la violenza e la prevaricazione: inoltre questa visione dei diritti umani come costrutto sociale non fa altro che ribadire ancora una volta la scarsa utilità, ai fini pratici, del tentativo di giustificare i diritti su base naturale.
A questo punto è necessario capire se e in che modo si possa parlare di radici culturali e storiche del concetto di diritti umani. Da una parte infatti, come già detto, i diritti umani rappresentano una vera e propria novità all’interno del panorama giuridico globale, proprio perché figli della barbarie del novecento, dall’altra è anche vero che nascono su un terreno già fertile di queste idee, dalla concezione dell’uomo come di un essere dotato di alcuni diritti preesistenti alla comunità politica di appartenenza. Forse è utile in questa sede riferirsi alla posizione di Norberto Bobbio, che sostiene come i diritti da un lato siano il risultato di
una produzione normativa da parte di soggetti come gli organismi internazionali, ma dall’altro nascano da un retroterra culturale di secoli addietro.
Infatti con le teorie giusnaturalistiche della prima modernità si era introdotto un discorso basato sull’idea di alcuni principi che permettono all’uomo in quanto tale di esercitare certi diritti, tuttavia non bisogna dimenticare come, persino con le dichiarazioni di indipendenza americana e francese del XVIII secolo, questo discorso non fosse rivolto a tutto il genere umano ma al maschio bianco europeo, dunque siamo ben lontani da una cosiddetta universalità dei diritti umani.
Come verranno intesi, invece, con la Dichiarazione del 1948, sono universali, rivolti ad ogni essere umano, devono essere rispettati e tutelati anche se ancora non riconosciuti dai singoli Stati. Ciò significa che, in questo caso, un diritto è già valido o, meglio, l’esercizio di un diritto può prescindere dalla sua positività, esiste nonostante ancora non sia presente all’interno dell’ordinamento in questione. Basti pensare a come nei regimi dispotici e nei totalitarismi vengano a mancare le libertà fondamentali perché non previste dall’ordinamento: ciononostante certi diritti vengono lo stesso rivendicati e sostenuti anche dalla comunità internazionale, a sostegno del fatto che l’idea che esistano certi principi viene portata avanti al di là della positività del diritto o della particolarità delle costituzioni locali.
Nell’idea di diritto rientrano sia la sua versione positiva che quella negativa, ovvero sia il concetto di autonomia, il fatto che il soggetto debba essere lasciato libero di esercitare le sue prerogative senza essere ostacolato dall’apparato statale, sia il concetto di libertà positiva, che introduce l’idea, invece, che sia proprio lo stato a dover mettere il cittadino nelle condizioni di poter esercitare alcune libertà fondamentali.
Dopo la seconda guerra mondiale molte nazioni si impegnarono al rispetto dei diritti umani firmando vari trattati e convenzioni; tuttavia oggi il problema dell’identificazione del nemico, soprattutto dopo gli attacchi dell’11 settembre, ha creato una situazione in cui viene mossa spesso l’accusa, nei confronti dell’amministrazione americana, di violazione dei diritti umani: proprio perché tali diritti appartengono a tutti gli individui in quanto esseri umani, non ci si può esonerare dal rispettarli sostenendo che il nemico non sia un nemico tradizionale e che la sua barbarie abbia fatto perdere ai terroristi le connotazioni di umanità. Il problema principale, quando si parla di diritti umani, è riuscire a definire un criterio in base al quale decidere quali diritti possono essere inclusi in un’ipotetica lista e quali no. Con la Dichiarazione Universale i diritti fondamentali non vengono più riconosciuti alle persone unicamente in quanto esseri umani ma in quanto cittadini, prescindendo dunque
dalla sovranità, dall’appartenenza ad un popolo e ad un territorio: sono dunque diritti come esigenza universale dell’uomo. Norberto Bobbio a tal proposito esemplifica magistralmente il percorso che ha portato a tale idea: «La Dichiarazione universale contiene in germe la sintesi di un movimento dialettico che comincia con l’universalità astratta dei diritti naturali, trapassa nella particolarità concreta dei diritti positivi nazionali, termina con l’universalità non più astratta, ma essa stessa concreta dei diritti positivi universali»99. È proprio tale concretezza ad essere la chiave di volta per comprendere in che modo la cultura dei diritti si sia diffusa e potrà e dovrà ancora diffondersi ed aprirsi anche alle società che ne restano ai margini.
Nel caso, ad esempio, dei diritti politici, il giurista Ronald Dworkin fa notare come definiscano e proteggano gli interessi di certe persone, interessi ritenuti più importanti di un’azione politica volta a garantire un vantaggio collettivo. «Chi rivendica un diritto politico fa un’affermazione molto forte: sostiene che il governo non può fare qualcosa che potrebbe andare a vantaggio di tutta la collettività. Deve quindi dimostrare che gli interessi individuali a cui fa riferimento sono talmente importanti da giustificare una tale rivendicazione»100. Nel caso dei diritti umani bisogna cercare di capire come si debba intenderli per giustificare la tesi che anche tali diritti siano politici, benché di un particolare tipo. Secondo Dworkin si può dire che «il diritto umano fondamentale è il diritto ad essere trattati con un certo atteggiamento: un atteggiamento che scaturisce dalla convinzione che ogni persona sia un essere umano la cui dignità conta»101.
Il punto di partenza risulta quindi essere il diritto di essere trattato in linea con il riconoscimento, da parte di chi detiene il potere, dell’importanza intrinseca della vita di ognuno e della responsabilità personale nella sua realizzazione. In poche parole tutto ruota intorno al rispetto della dignità umana, sia per quanto riguarda i diritti concreti, di base, come quello di non essere torturato, che per quanto riguarda l’idea che un governo non possa agire contro chiunque contraddicendo la stessa concezione dei propri valori. Con questo secondo principio si rimanda ai tradizionali diritti liberali della libertà di parola e di espressione, di coscienza, di attività politica e di religione.
Nel caso della tortura, ad esempio, dove si viola la dignità della persone negandone l’umanità, il problema che si presenta è anche un discorso di coerenza: infatti un governo è chiamato a rispettare l’idea di dignità fatta propria dalla nazione, dunque, se facesse delle
99 N. Bobbio, L’età dei diritti , Einaudi, Torino 1997, p. 24. 100
R. Dworkin, La democrazia possibile, Feltrinelli, Milano 2006, p. 47
eccezioni, starebbe immediatamente operando una discriminazione nei confronti di quelle persone.
«Decidiamo di rinunciare a una situazione di maggiore tranquillità perché siamo convinti che privare qualcuno della libertà rinchiudendolo in carcere significherebbe violare sia la sua condizione di persona dotata di un valore intrinseco, sia la sua responsabilità nella conduzione della propria vita»102. Quindi, partendo da una concezione dei diritti umani che si riferisce ai due principi della dignità umana, si può evincere come la detenzione a tempo indefinito dei sospetti terroristi costituisca una violazione dei diritti umani.
Il punto è che, secondo Dworkin, la questione non potrà essere risolta finché non si stabilirà un punto fermo, cioè finché non si deciderà che cosa si intenda per essere umano e che cosa significhi rispettare la dignità umana di una persona, poiché tali concetti non sono universalmente riconosciuti nella pratica concreta. Sorge qui il problema dell’oggettività delle proposizioni dell’etica e della moralità.
Tale questione rimanda ad un’altra parallela, ovvero se i diritti umani siano assoluti o meno: perfino nella Convenzione europea sono inserite clausole in cui si sostiene che la libertà di parola può essere limitata dai governi se ciò fosse necessario per tutelare l’ordine pubblico o morale. Secondo Dworkin ciò è solo il frutto di una cattiva interpretazione causata dall’eccessiva astrattezza delle enunciazioni, difatti «se il diritto che ci interessa è stato definito con chiarezza, non ci sono problemi ad affermare che è un diritto assoluto e non ammette violazioni»103.
Ma di fronte a scelte effettive di governi, che a volte ritengono giusto limitare alcune libertà a scapito della sicurezza, lì il problema è di più difficile soluzione: come si può impedire di sventare un imminente pericolo attraverso il ricorso a pratiche che possono violare la dignità di una persona?
Secondo Dworkin è necessario calcolare il rischio e capire che, eccezion fatta per un caso di emergenza gravissimo, per tutti gli altri casi non si può barattare l’onore e la dignità propria con la sicurezza collettiva, perché, facendo perdere la dignità altrui, si lede anche la propria: «dobbiamo trovare un equilibrio tra la sicurezza e l’onore. Siamo terrorizzati al punto che l’onore non conta più nulla?»104.
102 R. Dworkin, La democrazia possibile, op. cit., p. 56 103
R. Dworkin, ivi, p. 61