Il teorema dei diritti uman
6. Comunitarismo ed empatia
Il problema è come riuscire a migliorare il contesto di riferimento e a considerare i diritti umani calati in tale contesto senza però cadere nella trappola del condizionamento comunitario, che spesso mette in discussione alcune della libertà di base ottenute dagli individui. Una delle domande principali si riassume nella frase: che cosa deve essere uguale affinchè le opportunità siano uguali?
Secondo Catharine A. MacKinnon, bisogna osservare le tesi dei movimenti femministi del nord America, in particolare del Canada, che hanno puntato su una diversa idea di eguaglianza in relazione ai diritti umani, basata non più sulla parità ma sull’assenza di gerarchia, un tipo di eguaglianza che riguarda soprattutto il contesto sociale, inteso sia in senso generale che particolare e che ha di mira l’eliminazione delle stratificazioni imposte. Si parte, come nel caso di Amartya Sen, dallo specifico della diseguaglianza, per promuovere l’eguaglianza di fatto, non soltanto di diritto. Secondo MacKinnon, «i diritti umani internazionali sono talmente astratti che anche persone di idee diametralmente
91 Inoltre, come acutamente nota Francescomaria Tedesco nel suo testo Diritti umani e relativismo, nelle stesse
costituzioni e nelle norme dei paesi asiatici si riscontra una mancanza dei precetti contenuti nei valori asiatici; inoltre tali forme di giuridificazione, in realtà, hanno comunque come riferimenti di sfondo il costituzionalismo liberale, quindi il richiamo ai diritti collettivi è meno diffuso di quello che si pensa e la contaminazione giuridica liberale, che ha come riferimento l’individuo, non è del tutto assente.
opposte possono in linea di principio trovarsi d’accordo su di essi negandone a tutti egualitariamente il godimento»92. Il principale terreno di scontro e di incomprensione è la dialettica tra i diritti umani internazionali, intesi in senso astratto, e i diritti civili concreti, collocati in situazione: «I diritti civili iniziano a casa nostra, o poco lontano; i diritti umani, invece, sembrano tanto più solidi quanto più ci si allontana da casa»93.
Questo perché, se scegliamo di affidare direttamente a chi è vittima della diseguaglianza il mandato di porvi rimedio sul piano civile, concediamo una delega del potere dal governo alla popolazione e, dunque, una riappropriazione della capacità decisionale da parte dei cittadini.
La logica dei diritti umani, invece, tende a considerare il potere statale come un nemico dell’eguaglianza, identificando l’uguaglianza stessa con l’eliminazione di ogni differenza personale e perciò, nel momento in cui ci si batte per conquistare il diritto ad essere riconosciuti come simili, si tende a voler diventare simili agli altri, ovvero a considerare l’assimilazione come unica garanzia dell’eguale diritto a vivere, a scapito delle differenze. Si paga, quindi, il prezzo dell’omologazione per poter vivere in condizioni di tutela delle proprie libertà di base.
Al contrario nei movimenti canadesi «l’eguaglianza è definita in termini di rispetto per la propria persona anziché di isolazionismo, in termini di autodeterminazione anziché di segregazionismo»94, è un concetto non assoluto ma relativo a quanto può migliorare nella società, soprattutto agli standard di vita di coloro che si trovano nelle condizioni peggiori. Il problema principale, che dall’ottica femminista viene suscitato in questa sede, è il fatto che i diritti umani abbiano ricevuto un principio ed un’impronta causati da una realtà maschile che ne governa l’attuazione pratica. Inoltre il fatto che il modello della violazione dei diritti umani si basi sull’azione dello stato rende di fatto privi di punizione quei crimini eseguiti da privati in nome di odio etnico, crimini che, se compiuti da uno Stato, sarebbero puniti a livello internazionale: «poiché le donne costituiscono un gruppo le cui rivendicazioni di uno status di umanità sono deboli e sistematicamente soffocate, il tentativo di applicare la legge dei diritti umani alle donne in quanto tali rende ancora più complicata la soluzione di due problemi più generali: i diritti umani non hanno fondamento e non hanno forza di imporsi»95.
92 Catharine A. MacKinnon, Crimini di guerra, crimini di pace, in S. Shute, S. Hurley (a cura di), I diritti umani.
Oxford amnesty lectures 1993, Garzanti, Milano 1994, p. 120.
93 Catharine A. MacKinnon, ivi, p. 120 94
Catharine A. MacKinnon, ivi, p. 122
La questione della ricerca di un fondamento dei diritti umani è estremamente complessa e di difficile soluzione. Il tentativo è talmente arduo che si rischia facilmente di perdersi in questioni di principio dimenticando l’urgenza pratica di applicarli.
A tale proposito Richard Rorty ha esposto un particolare punto di vista in grado di dirimere la questione, o quanto meno di accantonarla momentaneamente, in nome di una necessità cogente, teoria che ha ricevuto anche impulso dal retroterra cognitivo di tipo pragmatista. Per dare sostegno alla sua tesi, Rorty cita un’espressione chiave, prendendola a prestito dal giurista e filosofo argentino Eduardo Raboussi, ovvero l’espressione «cultura dei diritti umani». In sostanza si tratta dell’idea di una nuova cultura globale che si sarebbe diffusa subito dopo la seconda guerra mondiale, in particolare come conseguenza della tragedia dell’Olocausto, che avrebbe segnato un nuovo anno zero nella storia dei concetti. A partire da quell’evento, dunque, si sarebbe diffusa tale cultura, un modo di pensare legato alla tutela dei diritti umani, alla consapevolezza che esistano dei limiti oltre i quali non deve essere lecito andare, dei limiti universali e rintracciabili in ogni essere umano.
Proprio a causa della constatazione dell’esistenza di tale cultura, sarebbe perciò impensabile andare a ricercare un possibile fondamento del concetto di diritti umani, dato che ormai tale nozione è divenuta così comune e conosciuta da ogni persona. L’introduzione del concetto di “cultura”, nel caso dei diritti umani, significherebbe, dunque, il superamento definitivo di ogni tipo di fondazionismo e di ogni discussione attorno alla legittimità o meno del fondamento. Secondo Rorty è perfettamente inutile provare a dimostrare l’esistenza di una natura umana universale, perché dovremmo andare alla ricerca di un attributo specificamente umano, quando in realtà, ai fini del conferimento di un valore morale, non serve a nulla la giustificazione a priori: «non è chiaro per quale motivo il rispetto della dignità umana debba necessariamente presupporre l’esistenza di un attributo di questa specie»96.
Se il vero scopo è diffondere la cultura dei diritti umani e rafforzarla quanto più possibile, cercando di renderla accettabile anche a chi ne combatte i presupposti, non ha alcun senso volerne dimostrare la superiorità morale universale in nome di qualche valore transculturale di difficile giustificazione. Una certa cultura dei diritti umani o una qualche visione del mondo non dipendono da una presunta accresciuta conoscenza morale, inoltre, se non si ottiene alcun risultato insistendo nelle ricerche di una natura umana metastorica, significa che questa natura non esiste o comunque non contiene alcun elemento fondamentale per una
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R. Rorty, Diritti umani, razionalità e sentimento, in S. Shute, S. Hurley (a cura di), I diritti umani. Oxford amnesty lectures 1993, Garzanti, Milano 1994, p. 133
ricerca morale. «In breve, i miei dubbi sull’efficacia degli appelli alla conoscenza morale sono dubbi sulla sua efficienza causale, piuttosto che sul suo statuto epistemologico»97. Questa tesi, che potrebbe essere tacciata di relativismo culturale, in realtà si fonda su di una teoria molto particolare della ragion pratica, o meglio una teoria del sentimento morale, che si può forse far risalire agli empiristi inglesi e ad Adam Smith.
Nel discutere su che cosa differenzi, in ultima analisi, l’uomo dall’animale e nel tentativo di individuare lo specifico umano, Rorty utilizza la sfera concettuale del “sentire” al posto di quella del “ragionare”, non per allontanarsi dalla sfera della razionalità, anzi per ampliarla in campo morale. Gli esseri umani sono capaci di sentire l’uno verso l’altro molto più degli animali, per questo è necessaria una vera e propria educazione sentimentale rivolta al rispetto dei diritti umani, perché solo così si potrà agire concretamente ed in maniera efficace secondo tali precetti.
Non avrebbe alcun senso parlare di umanità come di un concetto astrattamente generico, che ognuno di noi dovrebbe aver chiaro e distinto nella mente in nome di una qualche ragion pratica accessibile a tutti; chi calpesta quotidianamente la dignità di altri esseri umani non viene toccato per nulla da affermazioni sull’umanità perché tale concetto non viene ritrovato nel suo nemico. Chi giudica un altro non umano non ci penserà due volte a calpestarne i più elementari diritti, ciò può avvenire comunque, che esista o meno un fondamento morale. I due pilastri sui quali poggia l’educazione sentimentale proposta da Rorty sono perciò la sicurezza fisica e la compassione altrui: «l’educazione sentimentale funziona soltanto dove la gente è abbastanza rilassata da permettersi di ascoltare»98.
Come si può dunque convincere chiunque ad occuparsi di qualcuno che si trova lontano, estraneo e per me indifferente? Soltanto attraverso l’immedesimazione, la consapevolezza della sofferenza da spartire con lui, l’estrema sensibilità morale che spinge molti individui ad accettare e ad impegnarsi per i diritti umani e per diffonderne la cultura in maniera più efficace possibile.
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R. Rorty, Diritti umani, razionalità e sentimento, op. cit., p. 135.