Il teorema dei diritti uman
1. Genealogia dei diritt
Sull’origine e il significato dell’espressione diritti umani si corre il rischio di innescare un dibattito senza fine e, soprattutto, senza soluzione, proprio perché è la definizione del concetto stesso ad essere oggetto di controversie nell’interpretazione e a dare adito a diverse posizioni teoriche spesso contrapposte tra loro.
Si può intanto cominciare col dire che la questione cardine è sicuramente la genesi di tali diritti, ovvero le radici storiche, culturali e sociali, che hanno contribuito all’elaborazione concettuale e alla loro introduzione nella sfera pubblica, con l’adozione, a partire dall’immediato dopoguerra, di carte internazionali volte a tutelarli, delle quali la principale è sicuramente la Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Ciò costituì una vera e propria novità nel panorama giuridico globale, anche se bisogna tener conto che la Dichiarazione è di fatto un documento non giuridicamente vincolante, sia perché l’Assemblea non ha la facoltà di produrre norme che siano imperative, sia, soprattutto, perché risulta sprovvista di norme secondarie che ne garantiscano la tutela e l’efficacia.
Fu con la stesura della Carta dell’ONU che, per la prima volta, si introdusse il concetto di diritti umani all’interno degli strumenti giuridici internazionali; l’inizio delle discussioni fu alla conferenza di San Francisco nel giugno 1945, dove però emersero subito le prime contraddizioni. Proprio gli Stati Uniti, infatti, puntavano sulla richiesta che il rispetto dei diritti umani fosse recepito dalla Carta unicamente in chiave programmatica, cioè come un fine dell’Organizzazione, per evitare eccessive ingerenze nella sovranità degli Stati. Quindi nel 1945 non c’era ancora alcun accordo su una singola concezione universale di diritti umani, in particolare perché le potenze occidentali da una parte e quelle del blocco sovietico dall’altra spingevano per diverse interpretazioni degli stessi, senza contare i paesi
dell’America Latina, che insistevano per introdurre l’esistenza di un vero e proprio obbligo per i paesi aderenti alla comunità internazionale di rispettare i diritti umani.
Dunque la carta dell’Onu non ottenne il risultato sperato, era necessario stendere un catalogo generale dei diritti accettabile da tutti: si creò quindi una Commissione nel 1946 per redigere la Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, testo che, come già detto, venne adottato il 10 dicembre 1948 non senza controversie circa la natura di tale accordo. I paesi occidentali erano d’accordo per favorire principalmente solo i diritti civili e politici e solo nella connotazione sostanzialmente individualistica a scapito di quelli economico- sociali, che tuttavia alla fine vennero aggiunti. Lo scontro tra il blocco dell’est e quello occidentale portò ad una dichiarazione finale piuttosto variegata, frutto di più ideologie, di diverse concezioni dell’uomo e della società in un compromesso, che vede la compresenza di quattro corpi eterogenei: i diritti della persona, i diritti che spettano agli individui nei rapporti con i gruppi sociali di cui fanno parte, i diritti politici, i diritti che si esercitano nel campo economico e sociale.
Cassese individua tre fonti ideali della dichiarazione dei diritti umani: la prima è la matrice giusnaturalistica, poi l’influenza dello statalismo dei paesi socialisti, che ha contribuito ad introdurre i diritti economici, sociali e culturali, frutto dell’idea che l’individuo non vive isolato ma inserito in un contesto sociale e culturale, infine il principio nazionalistico della sovranità. Tale principio si evince soprattutto dal fatto che la Dichiarazione non venne considerata a carattere giuridico vincolante ma solo come una promessa che, pur impegnando sul piano etico-politico gli stati, frenava gli eccessi umanitari che potevano mettere a rischio la sovranità dei singoli stati; a tale scopo venne anche attenuato, se non eliminato, il diritto di ribellione alla tirannide.
Ma lo straordinario valore che la Dichiarazione esprime è principalmente quello di «formulare un concetto unitario e universalmente riconosciuto dei valori che dovevano essere difesi da tutti gli Stati nei loro ordinamenti interni»70.
Nel tentativo di creare uno strumento giuridico che fosse, tuttavia, a carattere vincolante, subito dopo l’elaborazione della Dichiarazione universale la Commissione per i diritti umani cominciò a stendere una Convenzione, che avrebbe posto una serie di obblighi giuridici formali per i contraenti. Tale Convenzione sarebbe stata ufficializzata solamente nel 1966 e si sarebbe sviluppata in due strumenti giuridici diversi, ovvero il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali: l’importanza storica di questi atti risiede nell’inizio della diffusione di quella cultura dei
diritti umani su cui ha insistito molto Richard Rorty, ovvero quell’insieme di sentimenti, idee, argomentazioni, principi morali sorti subito dopo la barbarie della seconda guerra mondiale e del nazismo.
Si hanno due patti distinti, fondati sulla diversa natura dei diritti sanciti: infatti, per quanto riguarda i diritti civili e politici, il patto ha carattere precettivo, ovvero suscettibile di immediata applicazione all’interno degli ordinamenti statali, mentre quello che si occupa di tutelare i diritti economico-sociali ha un carattere unicamente programmatico, poiché la sua attuazione non può essere immediata ma necessita di importanti cambiamenti all’interno dell’assetto economico-amministrativo della società: ciò si spiega con la diversa importanza data a tali diritti, che si rendono autonomi rispetto alla tradizione liberale e comportano spesso un ripensamento di alcuni cardini del liberismo economico.
In ogni caso l’effetto finale è che un’eventuale violazione degli obblighi a tutela dei diritti umani fa sì che tutta la comunità internazionale possa considerarsi lesa dalla violazione stessa. Da ciò discende che «ogni Stato ed ogni organizzazione internazionale competente sono giuridicamente legittimati a richiedere agli stati che commettono gravi e sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo di porre fine immediatamente a esse»71. Tale legge è un obbligo consuetudinario, scaturito dal sempre più evidente potere dell’Assemblea Generale, che ha rafforzato la dottrina dei diritti umani tramite norme che vincolano tutti gli stati della comunità internazionale indipendentemente dal fatto che abbiano o meno ratificato le convenzioni: «le norme consuetudinarie a tutela dei diritti umani hanno assunto lo status di diritto cogente, ovvero sono dotate di una particolare resistenza giuridica: nessuno Stato potrà concludere un trattato in cui rende legittima la violazione di una di quelle norme, da cui non si può in alcun modo derogare mediante accordo»72, proprio perché tali norme esprimono dei valori fondamentali per l’intera comunità internazionale.
Il salto costituito dall’introduzione della categoria di diritti umani nella giurisdizione internazionale è molto rilevante proprio perché si sancisce l’esistenza di alcuni diritti che non appartengono al cittadino di una data comunità politica, ma ad ogni essere umano in quanto tale, in quanto appartenente al genere umano, al di là di nazionalità, fede religiosa, sesso o altro. Dunque al centro della comunità internazionale non vi sono più gli Stati con i loro cittadini particolari o le società politiche nel loro insieme ma vi è l’individuo, con i suoi bisogni e le sue prerogative. Ciò viene reso possibile soprattutto dalla mediazione delle varie Costituzioni nazionali, che hanno il compito di tradurre quei principi morali in vincoli giuridicamente validi all’interno del loro ordinamento giuridico.
71
A. Cassese, I diritti umani oggi, op. cit., p. 49.
Uno degli organi principali per la tutela dei diritti umani, di competenza diretta dell’ONU, è l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituito nel 1993, che ha il compito di attirare l’attenzione su gravi violazioni, richiamando gli Stati a conformarsi ai parametri internazionali. L’altro è il Consiglio dei diritti umani, composto da rappresentanti statali e organo sussidiario dell’Assemblea generale, istituito nel 2006 al posto della Commissione, per controllare che gli Stati rispettino i diritti umani utilizzando la procedura dell’universal periodic review. Il problema che tali procedure comportano è che, nel momento in cui si cerca di valutare l’adempimento degli obblighi in materia dei diritti umani gravanti sugli stati, si incontrano inevitabilmente le resistenze delle sovranità nazionali; servono dunque forme di pressione e sollecitazione usate in modo molto diplomatico. Tuttavia il vero scopo di tali organizzazioni è focalizzare l’attenzione su alcune gravi violazioni dei diritti umani, favorendo la mobilitazione della comunità internazionale e delle ONG, che esercitano comunque una forte pressione sugli Stati e creano una sorta di etica internazionale che abbia a cuore soprattutto la tutela della dignità umana.
La dottrina dei diritti umani in un certo senso ha operato una vera e propria rivoluzione all’interno del diritto internazionale, proprio perché ha contribuito a distruggere il muro che copriva la sovranità statale e che le permetteva di coprire tutte le azioni che si svolgevano all’interno di uno stato. Con l’introduzione di una giurisdizione dei diritti umani ogni stato deve rendere conto alla comunità internazionale di come tratta i suoi cittadini, in un’auspicabile situazione di trasparenza.
Tuttavia rimane il problema del contrasto tra l’ONU e i singoli stati sulla questione delle sfere di competenza in materia di intervento internazionale: l’annosa questione dell’articolo 2 par.7 della Carta. Fortemente voluto dagli stati occidentali al momento della sua stesura, rappresenta il vincolo imposto alla comunità internazionale dalle potenze occidentali, il cosiddetto dominio riservato73, che impone all’Organizzazione di trattare la questione dei diritti umani solo in modo generale ed astratto, senza intervenire in casi concreti. Ma questa disposizione in realtà nel corso degli anni è stata più volte ignorata, dando luogo ad interventi che andavano contro le singole sovranità statali proprio in nome di quel mantenimento della pace nella comunità internazionale, fondamentale motivo per cui era nato l’ONU.
Si può vedere come sorga un vero e proprio paradosso: nel momento in cui, a livello internazionale, si formalizzano diritti propri di ogni essere umano in quanto tale al di là della sua cittadinanza, dunque si prospetta un superamento della concezione statuale
derivante dal modello Westfalia degli stati-nazione, proprio in questo momento si ha più bisogno della componente politica statale per assicurare alle persone che tali diritti vengano effettivamente tutelati, in quanto, se non venissero assorbiti all’interno della costituzioni nazionali, forse rimarrebbero dei meri principi morali di massima, incapaci di imporsi proprio perché privi di quella forza sanzionatoria che sola ne assicura l’effettiva applicazione.