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Il teorema dei diritti uman

5. Minimalismo giuridico e Asian Values

L’idea dell’interdipendenza delle varie categorie di diritti e della loro moltiplicazione, alla luce delle modificazioni che intervengono nelle odierne società, è stata criticata e rappresenta, in realtà, un modo particolare di analizzare la questione.

Un’altra teoria dei diritti umani, infatti, è convinta del legame non necessario dei vari tipi di diritti, anzi dell’importanza intrinseca solo di alcuni di essi a scapito di altri. Questa posizione, conosciuta come minimalismo dei diritti umani, è stata portata avanti, tra gli altri, da Michael Ignatieff, giurista e politico canadese, che considera pericoloso aggiungere nuovi diritti al pacchetto di base, proprio perché così tutto l’insieme sarebbe difficilmente accettabile da comunità non abituate ad avere a che fare con simili problematiche. Quindi i diritti umani sarebbero ridotti a pochi principi, includenti soprattutto quelli civili e politici, relativi alla libertà del singolo, ed escludenti quelli sociali ed economici.

La sua teoria è rivolta ai singoli stati, che dovrebbero decidere di volta in volta quali nuovi diritti aggiungere e quali no, considerando soltanto un ristretto ambito di principi, senza, tuttavia, assicurare la rete di cui si parlava prima, dunque mettendo a rischio l’effettività degli stessi, perché senza una reciproca implicazione tra diritti diversi viene meno il vincolo di tutela: infatti l’idea di ridurre i diritti fondamentali a pochi principi, se da un lato garantirebbe l’universalità degli stessi, dall’altra creerebbe il rischio di possibili ingiustizie. L’esigenza di stabilire un pacchetto minimo di diritti umani, che possano essere accettati da più comunità possibili e che, dunque, possano essere pienamente universalizzabili, muove anche dalle teorie di John Rawls, in particolare del suo ultimo scritto di politica internazionale, The Law of Peoples, in cui sosteneva l’esigenza di concepire l’idea di diritti collettivi, proprio per venire incontro a quelle società non occidentali, definibili “decenti”, dunque in grado di tutelare i diritti umani di base.

Tali società, non essendo improntate al modello individualistico occidentale di stampo liberale ma basate sull’idea di collettività, attraverso l’introduzione dei diritti collettivi potrebbero tutelare le libertà di base dei propri cittadini senza per questo adottare una politica culturale imposta dall’occidente e totalmente altra rispetto alla loro. Ciò significherebbe non solo che la democrazia non sarebbe completamente necessaria al fine della tutela dei diritti umani, ma che molti diritti, non inclusi nel pacchetto di base, rischierebbero di essere assolutamente non tutelati, comprese alcune libertà fondamentali.

La posizione minimalista non è nient’altro che la logica conseguenza del fatto che i diritti umani vengono spesso concepiti come etnocentrici, dunque come il frutto di un processo storico avvenuto in occidente e non facilmente esportabile.

Abbiamo visto prima come non sia possibile slegare l’idea di diritti umani dal contesto storico e dalle vicissitudini contingenti che hanno portato al fiorire di una vera e propria cultura della tutela dei diritti. Ma se dunque anche il diritto alla proprietà privata, uno dei principali tra quelli civili, va ricondotto al particolare periodo storico in cui è stato teorizzato da Locke, nel momento in cui nascevano le controversie tra privati cittadini e stato, e soprattutto durante le battaglie per l’indipendenza delle colonie americane, è chiaro che non può essere così facile esportare questo particolare modello in società così diverse da quelle occidentali.

È anche vero, tuttavia, che alla Dichiarazione universale del 1948 hanno aderito anche stati non occidentali, come ad esempio i Paesi socialisti, che infatti hanno introdotto la visione dei diritti sociali ed economici, sottovalutata dagli altri Paesi.

Questo può costituire un esempio di concezione, che si è allontanata dal modello storico originario e ha assunto nuove forme in linea con le nuove tendenze culturali e sociali del tempo contemporaneo.

Tale discorso porta alla consapevolezza che è difficile rintracciare un chiaro fondamento dei diritti umani e che ogni tentativo di fondazionalismo rischia di fallire, proprio perché è difficile fornire un criterio chiaro sul quale costruire una concezione dei diritti umani senza per questo rischiare di imporre una particolare visione dell’uomo.

Una tale conclusione rischia di portare ad un relativismo che potrebbe bloccare il pensiero e la riflessione, quindi è oppurtuno trovare un equilibrio tra l’esigenza di universalità e la necessità di non cadere in principi primi difficilmente accettabili da tutti i popoli.

Ad esempio un criterio, spesso menzionato come adatto a rendere universali i precetti dei diritti umani, è quello della dignità che ogni essere umano possiede in quanto tale, al di là delle sue acquisizioni e delle sue differenziazioni. Che tale concetto scaturisca da un’idea giusnaturalistica di derivazione dell’uomo da Dio, dunque dalla necessità di rispettare ogni essere umano proprio per questa sua natura divina, o che si sviluppi dalla concezione kantiana, secondo cui ogni uomo è dotato di ragione, attraverso la quale può creare la legislazione adatta da seguire per raggiungere il regno dei fini e non essere più trattato come un mezzo, resta il fatto che rimanga alquanto vago, difficile da spiegare e soprattutto da definire in pieno, inoltre facilmente strumentalizzabile per diversi scopi e applicabile a varie situazioni.

Dunque da un lato ci troviamo di fronte a tentativi di fondare l’universalismo attraverso la ricerca di un minimo comun denominatore di umanità, che possa comprendere tutte le persone e creare un sistema di diritti umani facilmente accettabile da tutti i popoli; dall’altro lato si rischia di cadere in un relativismo, che considera ogni tentativo di teorizzare l’universalismo come un fenomeno contingente, che derivi da una particolare storia e denoti una cultura particolare, dunque difficilmente realizzabile in altre parti del mondo.

L’ultima posizione ha senz’altro dei fondamenti molto validi, basti pensare a tutto il filone dei cosiddetti Cultural Studies, o studi post coloniali, tra cui il famoso testo di Edward Said

Orientalism, da cui si evince che la descrizione portata avanti dal mondo occidentale nei

confronti della galassia orientale è senza dubbio parziale e figlia di una visione allo specchio da parte degli stessi occidentali, che vedevano nell’oriente tutto ciò che di altro da loro può esistere.

Il tentativo, dunque, di descrivere l’altro come un nemico o come un qualcosa costruito per opposizione a se stessi, nonché la convinzione di poter racchiudere le complessità del mondo non occidentale ad una sola formula (l’Oriente) ha portato di riflesso una ghettizzazione di una parte stessa della galassia non occidentale, che si è sentita svalutata e anche minacciata ed ha sviluppato concezioni speculari. È il caso, ad esempio, della teorizzazione degli Asian Values da parte del sovrano di Singapore Lee, che ha portato avanti una battaglia contro i diritti umani provenienti dall’Occidente proponendo un'altra versione di precetti, di valori asiatici fondati sulla comunità e non sull’individuo, come risposta asiatica alla Conferenza mondiale sui diritti umani indetta nel 1991 dall’Assemblea generale dell’Onu e tenutasi a Vienna dal 14 al 25 giugno 1993. Prima di tale incontro venne compilata dai rappresentanti degli stati asiatici la Bangkok Declaration, dove venivano alla luce alcune importanti idee relative agli Asian Values ma dove era presente anche una dichiarazione di accettazione e rispetto della Dichiarazione universale del 1948. Il concetto cardine di fatto era questo: poiché in molte culture non occidentali la nozione di diritti soggettivi individuali può incontrare dei problemi di recezione, proprio perché spesso le persone non sono pensate come cittadini autonomi di fronte al potere statale ma come inserite in una rete di appartenenze che definisce le loro identità, come può essere un clan, una casta, una famiglia, una classe sociale, si possono avere diversi diritti a seconda del tipo di appartenenza al gruppo in questione.

È chiaro che, come ha anche sostenuto Gayatri Spivak, l’affermazione degli Asian Values, nonostante rappresenti comunque una voce critica e differenziata rispetto alle dichiarazioni

umanitari, rimane comunque un tentativo speculare a quello occidentale di rispecchiare l’opposto di se stessi nell’altro. È infatti il risultato di una lettura essenzializzante e riduzionista dell’Asia, lettura che vede le culture come dei sistemi chiusi, compatti al loro interno e destinati ad uno scontro bipolare tra oriente ed occidente, quando è già difficile parlare di più occidenti e di più orienti, se non addirittura di elementi occidentali ed orientali presenti in più culture91.

Quindi risulta chiara la valenza soprattutto politica dell’introduzione di un concetto come quello di Asian Values, nonché la relativizzazione delle categorie di oriente ed occidente e la commistione esistente tra le varie concezioni.

Parlare di diritti soggettivi o collettivi in modo astratto, come etichette che si applichino agli usi e costumi anche giuridici di una data cultura, è un errore che rischia di sviare l’analisi e il tentativo di teorizzare una qualche forma di universalismo dei diritti umani: i diritti vanno visti in situazione, come diritti di per sé, senza considerarne l’aspetto soggettivo e collettivo.

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