Capacità e identità
3. La metodologia del comparativismo
Ciò che può apparire un’ovvietà in realtà non lo è: qui non si sta muovendo una critica ad un intero sistema teorico in quanto tale, ma al modo in cui la teoria viene strutturata per applicarsi alla realtà, sovrastandola e non interpretandola. Sen definisce tale problema come superfluità della ricerca di una soluzione trascendentale a tutti i costi; al contrario un esercizio della ragion pratica diretto ad una scelta concreta richiede un quadro comparativo che consenta di scegliere fra alternative praticabili. Dunque l’obiettivo di individuare un unico fondamento della giustizia ed una sola strada da seguire cede di fronte alla possibilità che siano sostenibili più tesi argomentate sulla giustizia, tra loro concorrenti, come ad esempio l’egualitarismo o il liberalismo o l’utilitarismo.
Di fronte a dilemmi di questo tipo risulta difficile individuare delle giustificazioni sufficienti per l’adozione di questo o quel criterio di giustizia capace di guidare la società e di eliminare le ingiustizie. È proprio nel tentativo di risolvere il problema che si situa l’etica delle capacità: come sostiene Sen, individuando il punto cardine da cui partire, è «la necessità di una teoria che non si limiti né alla scelta delle istituzioni né all’individuazione degli assetti sociali ideali. L’esigenza di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta è legata all’idea che la giustizia non può essere indifferente alla vita che ciascuno di noi è effettivamente in grado di vivere»180.
Tutto ciò difficilmente può essere considerato pienamente da una teoria che si occupa principalmente di determinare le istituzioni e le regole da seguire nel vivere in comune, senza dare la giusta importanza alle diverse vite, realizzazioni ed esperienze umane. In altre parole, la ricerca di una giustizia perfetta potrebbe non riuscire ad eliminare le ingiustizie concrete che si riscontrano quotidianamente, poiché solo uno studio accurato sulle effettive possibilità di azione delle persone può andare a fondo nell’individuazione e nell’eventuale eliminazione dei casi carenti di giustizia. Per ottenere ciò, è essenziale che una teoria si occupi dei processi che permettono l’esplicazione delle libertà e dei diritti, nonché delle dinamiche che permettono lo svilupparsi dell’ingiustizia, non limitandosi a registrare gli esiti finali, quanto piuttosto a considerare i risultati come la fase finale di un percorso preciso di azioni. Questo, ad esempio, è ciò che ha fatto Sen nei suoi studi sulle carestie: occupandosi delle morti per mancanza di cibo in alcune regioni indiane, è giunto alla conclusione che tali sciagure non erano causate da un’effettiva carenza di derrate alimentari quanto da una cattiva distribuzione e da una sconsiderata gestione della crisi. In altre parole
uno stesso risultato, in questo caso il morire di fame, può essere considerato o come una calamità naturale, di cui nessuno è responsabile, o come una pianificazione sbagliata o comunque una precisa gestione della situazione che ha causato quei decessi.
L’attenzione è rivolta, quindi, soprattutto ai processi ma non solo: in questa diversa impostazione è fondamentale considerare il maggior numero possibile di punti di vista fondati su differenti esperienze personali e varie tradizioni di diverse comunità. Tale procedura serve ad evitare che il criterio di giustizia adottato possa in qualche modo ignorare i possibili effetti collaterali non previsti, proprio perché non è affatto detto che la sua generale sottoscrizione trovi poi riscontro nei comportamenti effettivi che si producono nella società.
Premesso che la giustizia di una società dipende da una serie di elementi istituzionali e di dati fattuali relativi ai comportamenti effettivi delle persone, risulta estremamente difficile riuscire a individuare delle istituzioni realmente giuste senza tenere conto di tali comportamenti o, comunque, senza considerarli necessari per la struttura delle istituzioni. L’etica delle capacità preferisce utilizzare una prospettiva comparativa piuttosto che limitarsi ad una soluzione di tipo trascendentale, considerando le concrete realizzazioni sociali e prestando attenzione a coloro che non sono inclusi nel gruppo di persone chiamate a decidere abitualmente. L’imposizione di un modello istituzionale troppo univoco e poco attento alle diversità culturali, sociologiche ed economiche non può che dar vita, in modo esponenziale, a nuove ingiustizie, questa volta globali. La troppa fiducia nei confronti di un modello di deliberazione pubblica liberale, che trova difficoltà a diffondersi perfino nelle società che hanno fatto del liberalismo la struttura portante dell’organizzazione della vita sociale, si scontra con la moltiplicazione dei bisogni e la complessità dei contesti sociali nei paesi non occidentali. Per colmare la lacuna che separa la tradizione liberale con le sempre più pressanti richieste identitarie provenienti dalle comunità altre dalle nostre non basta ipotizzare un modello teorico di istituzioni giuste ma serve uno studio attento delle situazioni contingenti che gli individui si trovano a vivere.
La riflessione di Sen sulla giustizia ha indicato una strada che possa superare le limitazioni del trascendentalismo istituzionale verso una visione comparativa e più attenta ai reali bisogni individuali. Ciò è riscontrabile in modo lampante non solo nelle sue analisi incentrate sulla critica della nozione rawlsiana di beni primari ma, più in generale, nei confronti dell’approccio contrattualista e della sua dubbia capacità di aprirsi a regolamentare questioni di giustizia globale. A tale scopo Sen riconduce la sua riflessione alla filosofia di Adam Smith, operando un interessante lavoro di attualizzazione del pensiero
dell’economista scozzese e riconoscendolo come vero e proprio punto di riferimento per la ridefinizione della teoria della giustizia. L’obiettivo di Sen è accogliere la concezione smithiana dello spettatore imparziale, dimostrando come sia migliore di quella contrattualista, ma per raggiungere l’ obiettivo è necessario preliminarmente liberare il pensiero di Smith dalla tradizione interpretativa sedimentata nel tempo. Sen reinterpreta la visione smithiana dello spettatore imparziale, della felicità e dell’economia in generale per avvicinarlo alle sue posizioni relative alla molteplicità dei bisogni umani e alla necessaria cooperazione in società.
Secondo Sen, la prospettiva adottata da Smith si basa su di un modo particolare di concepire l’impersonalità nel campo della riflessione etica, attraverso il concetto di spettatore imparziale. In sostanza la regola generale della moralità sarebbe fondata su esperienze personali, che sorgono nelle situazioni in cui noi approviamo o disapproviamo una determinata azione, quindi si dà grande importanza al ragionamento morale, comprendendo però, al suo interno, il forte valore dell’esperienza interiore. Smith arriva a sostenere ciò attraverso una sorta di procedimento induttivo riferito ad una serie di casi capaci di suscitare determinate sensazioni di piacere o dispiacere, per poi passare al ruolo della riflessione, che ha il compito di sistematizzare i concetti morali che derivano dalle sensazioni stesse. A tal proposito utilizza l’immagine dello spettatore, cioè di colui che non è direttamente coinvolto nei fatti ed in grado di formulare un giudizio sulla situazione valutando gli interessi che si contrappongono. Il tentativo è quello di arrivare ad una forma di universalismo morale partendo dalle prospettive individuali, in modo da coprire ogni possibile punto di vista e, dunque, affrontare i problemi di giustizia in maniera più approfondita, considerando le iniquità particolari che si creano a più livelli.
La differenza con il contrattualismo sta nel fatto che lo spettatore, pur avendo un alto grado di imparzialità, non è parte del contratto e, quindi, può avere un quadro della situazione, grazie al sentimento della simpatia, più ampio e più attento alle situazioni degli altri contraenti. Sen sostiene, in realtà, che la differenza tra il modello smithiano e quello contrattualistico, riferito a Kant e Rawls, si può paragonare a quella esistente tra un arbitrato e una negoziazione181.
Nel modello smithiano dell’arbitrato ci si può rivolgere a chiunque per aiutare la deliberazione, ovvero importanti giudizi possono provenire anche dall’esterno, da chi non è protagonista del contratto, dunque da uno spettatore imparziale; al contrario nel modello rawlsiano della negoziazione la partecipazione è limitata ai membri del gruppo impegnato
nell’elaborazione del contratto originario. Con l’arbitrato si permette la partecipazione di individui estranei al gruppo, quindi si dà spazio a voci non per la loro appartenenza alle parti coinvolte ma perché rappresentano altre opinioni da ascoltare.
Il modello dello spettatore imparziale è il frutto teorico di una metodologia volta ad abbandonare la riflessione solitaria in favore di un maggiore ascolto delle opinioni e dei suggerimenti altrui che possono essere utili per modificare le nostre idee iniziali.
Tale procedimento è adottato ovviamente anche nelle teorie della giustizia, basti pensare all’importanza del dibattito pubblico e del consenso per sovrapposizione di John Rawls, tuttavia l’apertura nei confronti di differenti orizzonti valoriali risulta sempre piuttosto determinata e poco incline a considerare l’imprevisto e la precarietà di ogni schema concettuale.
L’individuazione dei requisiti per una società giusta può mettere in secondo piano il modello comparativo, rivolto a dare risposte su vari tipi di questioni di giustizia, relative magari alle realizzazioni sociali.
Ma il punto fondamentale, su cui le teorie della giustizia risultano carenti, è il loro presupporre di arrivare ad un accordo chiaro e distinto a livello di posizione originaria e che, soprattutto, le persone si debbano comportare in modo ragionevole rispettando tale accordo. Ora, questa opinione è assolutamente confutabile, non tanto per l’esistenza dei cosiddetti
free rider, cioè di coloro che sfruttano i vantaggi del vivere in società senza partecipare ai
costi, ma proprio di quei cittadini che, pur avendo volontariamente sottoscritto il contratto, si trovano poi in condizioni di doverlo violare a causa degli imprevisti contingenti a cui sono sottoposti.
Al contrario, attraverso il comparativismo, è possibile avere un quadro più chiaro delle numerose variabili che influenzano il comportamento umano e, quindi, si possono raggiungere dei livelli alti di consenso e di sottoscrizione di principi generali, che regolano la società.
È chiaro che, adottando questa metodologia, viene meno l’illusoria certezza di poter, attraverso un unico criterio, regolare tutte le questioni di giustizia, ma ciò rappresenta proprio la forza di teorie come quella di Sen, teorie che fanno dell’incertezza una risorsa, come vedremo nel prossimo paragrafo.