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Il teorema dei diritti uman

10. Diritti fondamentali e globalizzazione

Dopo aver illustrato la teoria di Ferrajoli e alcune critiche che le sono state mosse, si può ora vedere come tale teoria, apparentemente astratta e formalistica, possa essere applicata alle problematiche globali di giustizia.

Nel progressivo processo di globalizzazione ci si è trovati di fronte ad un’irrefrenabile debolezza del potere statale a favore di altri poteri, come quello economico e finanziario. Ciò ha avuto ripercussioni sulla teorizzazione stessa dei diritti, che hanno subito quindi una de-nazionalizzazione e si sono aperti all’intero globo, sradicando le antiche appartenenze alle comunità statali.

Quindi oggi sembra poco legittimo declinare i diritti fondamentali in termini statalistici, proprio perché la sovranità statale si è delocalizzata ed un ruolo importante, in questo processo, l’hanno avuto le organizzazioni sovranazionali, in particolare i loro apparati giuridici, che hanno permesso agli stati di delegare su alcune materie fondamentali quali la giustizia, la difesa, l’economia.

Attraverso la globalizzazione ci si è posti di fronte a nuovi problemi, relativi soprattutto alle migrazioni e agli spostamenti di persone da una parte all’altra del globo, spostamenti in vari sensi, non solo dai paesi meno sviluppati a quelli più ricchi in cerca di lavoro ma anche dislocazioni di multinazionali che, allettate dal basso costo del lavoro, affidano le sorti delle loro industrie a manodopera locale diversa da quella di origine. Tali flussi migratori di persone e capitale contribuiscono a disgregare la categoria di cittadinanza, ovvero a de- statalizzarla.

In questo senso il diritto d’asilo è l’altra faccia della medaglia della crisi della cittadinanza e della nazionalità, perché è sempre stato ancorato ad una visione della cittadinanza di tipo liberale e statalistico, che considera come realmente tali solo i diritti riferiti alla libertà negativa o i diritti politici. Il modo in cui l’idea di cittadinanza si è modificata attraverso la globalizzazione ha portato ad una variazione sul tema della concettualizzazione dei diritti fondamentali, dall’idea che i diritti siano legati all’appartenenza ad uno stato, dunque legati alla cittadinanza stessa, a quella che siano conferiti agli individui in quanto persone.

Ciò significa attribuire loro valenza universalistica e, soprattutto, una validità che si estende ad ogni persona e non solo agli abitanti di una determinata zona del mondo o ai cittadini di una società. Tale universalismo normativo non può essere negato nel momento in cui gli stati da soli non hanno la possibilità di essere autosufficienti dal punto di vista giuridico,

perché verrebbe a mancare la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, non più protetto né dal proprio paese di origine né da un organismo sovranazionale.

La tesi di Ferrajoli di fatto va a favore di un universalismo dei diritti umani, che si possa instaurare attraverso un processo di giuridificazione globale, che abbia a cuore la tutela non solo dei diritti negativi ma anche e soprattutto di quelli positivi, come vedremo. Dunque la critica ai diritti patrimoniali e alla cittadinanza va nella direzione di mettere al centro la persona, slegata dalle appartenenze nazionali.

Dall’altra parte abbiamo versioni più edulcorate del realismo politico, quale quella precedentemente citata di John Rawls con il suo diritto dei popoli, per cui di fatto, al di fuori degli stati, vige un sistema di poteri contrapposti basati sulla forza, nel quale cerca di inserirsi il sistema della società dei popoli liberali, pur scendendo a compromessi con le società situate fuori dal recinto liberale, da Rawls definite decenti.

Ora entrambe le posizioni potrebbero trovare posto nello scenario contemporaneo delle relazioni internazionali, dove si alternano strutture sovranazionali e rapporti tra sovranità statali tout court.

È chiaro che il globo risulta attualmente sempre più interconnesso anche a livello giuridico, basti pensare alla creazione dei tribunali internazionali per i diritti dell’uomo o ai vari accordi commerciali che regolamentano il movimento delle merci tra paesi.

Ma esiste un’ovvia differenza tra un’istituzione sovranazionale come l’Unione Europea e un semplice accordo economico tra stati come il Nafta (accordo nordamericano per il libero scambio), una differenza che riguarda il diverso modo in cui si costituisce il legame tra le sovranità, passando da una situazione, in cui le relazioni si incentrano sugli scambi commerciali, ad una in cui investono la vita dei cittadini dei vari paesi a più livelli. Una struttura sovranazionale come l’Unione Europea, con l’abbattimento delle frontiere non solo commerciali ma anche di mobilità degli individui, mette a rischio il concetto di cittadinanza, creando uno spazio comune in cui ogni persona è allo stesso tempo cittadino italiano o francese o tedesco e cittadino UE. Tale molteplicità di livelli di cittadinanza crea una moltiplicazione giuridica, oltre ad uno sdoppiamento del senso di appartenenza delle persone, fattore in grado di modificare le identità collettive classiche e di modularle nuovamente di volta in volta a seconda degli interessi coinvolti e delle necessità da rivendicare.

Così accade che la classica teorizzazione di Thomas Marshall sui diritti, incentrata sull’idea di cittadinanza come presupposto per ogni diritto fondamentale, se da una parte colloca

sullo stesso piano di importanza diritti civili, politici ed economici, dall’altra appare anacronistica, anche in modo pericoloso per la tutela stessa dei diritti.

Se la cittadinanza non è concepita come uno specifico status soggettivo da affiancare alla personalità, cioè alla caratteristica di persona dell’individuo, ma viene ipostatizzata come presupposto dei diritti, ecco che automaticamente verranno esclusi da tale discorso tutti coloro che cittadini non sono, perché migranti o rifugiati.

Come un contratto sociale che favorisce i contraenti ignorando coloro che stanno fuori dall’accordo, così oggi il numero dei non cittadini è talmente grande da obbligare a ripensare tale concetto, se l’obiettivo è sempre quello di tutelare gli individui come persone e abitanti del pianeta piuttosto che come agenti in uno specifico contesto statale.

Come puntualizza Ferrajoli, «le odierne costituzioni europee e le carte internazionali dei diritti hanno aggiunto, ai classici diritti di libertà negativa, una lunga serie di diritti umani positivi, disancorandoli dalla cittadinanza e facendo anche del loro godimento la base della moderna uguaglianza en droit e della dignità della persona»117.

Tuttavia nell’attualità le cose sono diverse dalla teorizzazione dei diritti, proprio perché, nei confronti del fenomeno dell’immigrazione, si attua una strategia restrittiva che non tiene conto delle violazioni più gravi di diritti economici e politici ma tende soltanto ad assicurare il minimo indispensabile in termini dei più elementari diritti civili, a volte neanche quelli, creando situazioni dove la diseguaglianza dei diritti genera razzismo: l’altro è considerato inferiore proprio perché non situato sullo stesso livello di possesso di diritti rispetto al cittadino dello stato ospitante.

Attraverso la teoria dei diritti fondamentali si può, al contrario, riuscire a gettare un ponte tra giuridificazione senza fine, dovuta al proliferare di organismi sovranazionali e al sorgere di nuove questioni morali ed etiche, e minimalismo dei diritti, causato da un colpo di coda della sovranità che, chiudendosi a riccio su di un concetto ristretto di cittadinanza, ignora alcune sfere di diritto della persona, essenziali per il pieno sviluppo dell’individuo.

Ma, se è vero che i diritti fondamentali sono portatori di un chiaro significato normativo, perché investono le vite concrete delle persone e danno rilevanza giuridica alle necessità, ai bisogni, alle rivendicazioni, allora è essenziale che aumenti la comprensione, da parte delle diverse collettività, del significato di tali diritti.

Più la loro formulazione sarà chiara e andrà a rappresentare i reali bisogni delle persone, più facilmente si potrà espandere ciò che Richard Rorty definisce la cultura dei diritti umani.

Una precomprensione della loro importanza si ha proprio grazie al fatto che i diritti stessi riguardano i bisogni fondamentali dell’agire e dell’esistere.

Senza un’adeguata nutrizione non si potrebbe condurre una vita degna di essere vissuta, quindi si tratta di un diritto fondamentale da tutelare: questo passaggio, che può sembrare ovvio, in realtà svela l’importanza del lavoro di Amartya Sen sulle capacità, incentrato sulla concretezza dell’esistere, sulla contingenza delle situazioni quotidiane in cui i diritti vengono messi alla prova. La cultura dei diritti umani può diffondersi maggiormente proprio grazie alle capacità, vettori di significati universali e diretti, non mediati da tradizioni filosofiche di difficile esportazione.

Parlare di piena titolarità e di pienezza dei diritti ha un preciso significato: i diritti hanno bisogno dell’agire per essere concretizzati, quindi è necessario che ad una loro generale attribuzione consegua poi l’azione concreta, come ad esempio poter andare a votare.

È chiaro che il diritto esiste anche senza le sua effettiva realizzazione pratica ma, se spostiamo il discorso alle capacità e rovesciamo il ragionamento, senza la possibilità di attuare concretamente l’azione relativa al diritto ottenuto, questo non serve a nulla, è come se non esistesse.

La sfida che Sen lancia è proprio in direzione di un’unione completa tra ambito giuridico e azione contingente, a partire dal basso, dalla possibilità concreta di poter agire nei modi che più competono alla pienezza della persona e che più favoriscono il suo pieno sviluppo, in maniera assolutamente autonoma e dipendente unicamente dall’individuo stesso.

Capitolo III

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