Tale analisi, sulle conseguenze della globalizzazione, fa emergere ed amplia il fatto che il fenomeno di moltiplicazione delle identità individuali, esistenziali, sociali, culturali, mette in discussione il concetto di responsabilità dell’individuo, dunque anche la sua facoltà di rivendicare i propri bisogni e riuscire a renderli formalizzabili in uno stato di diritto, soprattutto a livello internazionale.
Per diffondere la cultura dei diritti e la giustizia serve che i principali interessati, coloro che subiscono ingiustizia, siano in grado di dare voce ai loro bisogni. Per farlo serve un linguaggio comune e chiaro, che sappia identificare i singoli problemi e le relative soluzioni: sorge il dubbio che il ritorno del conflitto identitario in tale versione onnicomprensiva e molteplice metta in pericolo proprio questa possibilità.
Per comprendere in che modo si strutturano i bisogni umani e quale sia la gerarchia da attribuire agli stessi non bisogna trascurare il contesto sociale ed ambientale nel quale è inserito l’individuo. La moltiplicazione identitaria, infatti, fa sì che non solo l’individuo ricopra oggi più ruoli nello stesso tempo ma che abbia a che fare con altre persone come lui, capaci di scivolare tra diverse espressioni sociali e in grado di confrontarsi su più livelli. A questo punto è chiaro che la stessa teoria della scelta razionale rischia di non essere più adatta a spiegare le scelte di una persona, tenendo soprattutto presente che il significato delle scelte stesse non è ricavabile semplicemente dai suoi atteggiamenti proposizionali, come possono essere desideri e credenze, ma è centrale il ruolo dell’interpretazione che gli altri danno sulla formazione delle sue preferenze.
Il sociologo Alessandro Pizzorno sottolinea proprio la necessità di considerare il fattore temporale come centrale nell’analisi di una decisione, poiché un singolo atto non si apre e si chiude in un momento preciso ma è duraturo nel tempo. Ma, se interviene il fattore tempo e si considera la molteplicità identitaria in cui l’individuo è gettato e la cornice della globalizzazione, capace di accelerare le dinamiche e modificare rapidamente i costumi, è chiaro che il significato di un’azione rischia di rimanere nascosto anche all’agente stesso.
Il filosofo della mente Davidson, analizzando il fenomeno della debolezza della volontà, arriva a concepire una mente divisa, un modello in cui una sua parte opera sulle altre perché necessitata a operare in tal modo, mentre l’altra fa una scelta che può essere interpretata solo riferendosi all’intenzione. Dunque la lotta tra ragione e passione si ripropone, in maniera attuale e più sofisticata, rivelando un conflitto che avviene all’interno della singola mente e sancendo l’impossibilità di spiegare tutte le azioni riconducendole a ragione, teoria propria di Davidson29.
L’incapacità a spiegare la concettualizzazione dei bisogni, di fronte alla complessità dell’azione sociale e dei comportamenti individuali, viene risolta dalla teoria economica
main stream come decifrabile alla luce delle conseguenze, cioè a posteriori, risalendo alle
preferenze dell’individuo, che si rivelerebbero nelle scelte effettuate.
Ciò significa, tuttavia, escludere il soggetto dall’interpretazione delle sue azioni, idea che l’economista Amartya Sen30 ha sempre criticato sostenendo invece come, proprio per dare un senso all’ordinamento individuale delle preferenze, sia opportuno conoscere ciò che i suoi oggetti rappresentano per l’individuo interessato.
In altre parole l’agente, nel momento in cui compie l’azione, si trova in un determinato contesto e ricopre un certo ruolo, ruolo e contesto che non possono essere ignorati, cioè occorre identificare la posizione sociale dell’agente e aver conoscenza della natura di tale posizione per poter definire la razionalità della scelta.
Ma è possibile definire un ruolo riconoscibile una volta per tutte da parte dell’agente, anche in un singolo momento ben preciso?
È opportuno considerare l’importanza e l’influenza dell’identità sociale sui comportamenti degli individui e sui motivi della scelta individuale, solo così si può riuscire a ricostruire il tessuto di tutele giuridiche necessario per l’eliminazione delle maggiori diseguaglianze. Sen ha posto in più occasioni il problema del rapporto tra razionalità e scelta e il forte ruolo dell’identità; anche Marramao, come già visto, considera la fondamentale importanza del discorso identitario per spiegare i conflitti odierni e, riferendosi a Sen, problematizza la questione: «è lecito sostenere che l’idea di identità sociale divenga priva di senso quando si tratta di spiegare le regolarità del comportamento individuale, dal momento che nessun’altra identificazione è chiamata in causa se non quella con se stessi?»31
29 Cfr. a tal proposito le tesi di Davidson sulle ragioni e le azioni, in D. Davidson, Problems of Rationality, Clarendon
Press, Oxford 2004.
30
A. Sen, Scelta, benessere ed equità, il Mulino, Bologna 1984, p. 54.
Ma l’identificazione con noi stessi è estremamente problematica proprio perché soggetta ad un processo di frammentazione e moltiplicazione, oltre ad essere strettamente dipendente anche dal riconoscimento intersoggettivo. Precisa Marramao, infatti, che «le persone con le quali ci associamo e le comunità nelle quali ci riconosciamo e a cui ci sentiamo appartenenti hanno una parte decisiva e costitutiva nel formare la nostra coscienza individuale e il nostro modo di vedere la realtà»32.
Per Sen la valorizzazione della dinamica identitaria non deve, tuttavia, portare alla sopravalutazione della stessa, ovvero a considerare come più importante il ruolo dell’identità sociale rispetto alla libera scelta del soggetto e alla razionalità che entra in gioco nel momento della decisione. Sen contesta il carattere determinante dell’identità collettiva perché metterebbe a rischio il principio di autonomia dell’individuo e, cosa ancora più grave, potrebbe negare la possibilità dell’esistenza di giudizi normativi interculturali. Su questo punto Marramao non è pienamente convinto dell’esigenza seniana che una pratica interculturale consenta di superare le posizioni contestualiste, ovvero che si possa veramente parlare di una ragione antecedente all’identità. Anche il sociologo Pizzorno ha dei dubbi su questo e rimane fortemente scettico sull’idea che la razionalità riesca a governare la pulsione identitaria e non ne sia invece schiava e dipendente.