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4 Multiple Self: da Pizzorno a Parfit

9. Oltre l’identità culturale

A questo punto, dopo aver osservato come si struttura la concezione multipla del self, quali sono le sue conseguenze e come entrano in relazione i vari io all’interno di una rete di relazioni sociali, è opportuno comprendere come il concetto di Multiple Self possa essere applicato anche alla globalità dei vari sistemi sociali esistenti e, in particolare, come tale concetto non si applichi unicamente all’individuo ma possa divenire una cifra dell’intrinseca multivocità degli stessi gruppi sociali, dunque delle culture.

Tale intuizione teorica si deve a Seyla Benhabib, che, nel suo testo La rivendicazione

dell’identità culturale, adotta una prospettiva di costruttivismo sociale, volta a contrastare

l’oggettivazione delle culture e l’essenzialismo culturale, due fenomeni spesso in relazione con il multiculturalismo, che risulta essere il vero bersaglio polemico della filosofa turca. «Ciò che distingue la mia critica dell’essenzialismo da quella che essi propugnano è la prospettiva narrativa delle azioni e della cultura che l’informa»63: sta in questa frase la diversa ipotesi di fondo da cui partono le analisi sulla globalizzazione.

Il punto di partenza è la necessità di distinguere tra l’osservatore sociale e l’agente sociale: infatti la confusione tra i due piani porta a delle analisi errate e priva del giusto grado di imparzialità. Siccome spesso si crea un’unità culturale semplicemente mediante disparati interventi discorsivi esterni, come si è visto anche nel caso di un riconoscimento arbitrario da parte di un’autorità, e dato che noi identifichiamo ciò che facciamo attraverso la descrizione che ne diamo, è conseguenza logica che «la cultura si presenti attraverso descrizioni narrative controverse»64 e che sorgano conflitti basati proprio sulle diverse interpretazioni che emergono da un particolare fenomeno.

Contro il normativismo improprio dell’odierna teoria politica, di fronte alla molteplicità identitaria del mondo globale, Benhabib avanza l’idea di un modello di democrazia deliberativa che contenga in sé un’ampia conflittualità culturale nella sfera pubblica, necessaria perchè le culture in realtà sono multiple al loro interno, dunque dobbiamo favorirle inserendole in un orizzonte di inclusione democratica.

Il problema principale è lo scontro tra i diritti alla libertà individuale e diritti della collettiva espressione culturale di sé, che tuttavia non devono rischiare di operare un’assolutizzazione delle culture a scapito degli individui.

63

S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, op. cit., p. 23.

Come si vede, qui il concetto di cultura viene inteso come un sinonimo di identità, o meglio indicatore o differenziatore di identità. La sociologia riduzionista della cultura ipostatizza tale concetto avanzando un processo di ghettizzazione di culture come entità discrete, compatte e non comunicanti tra loro.

Benhabib vuole considerare la cultura in maniera non essenzialista, a partire da una prospettiva narrativa delle azioni e della cultura stessa, attraverso la distinzione tra osservatore teorico e agente sociale, protagonista di varie narrazioni. Le culture subiscono narrazioni controverse, causate dal modo di interagire degli attori con le azioni, attraverso sia descrizioni che valutazioni, e si formano per opposizioni binarie perché gli esseri umani vivono in un universo valutativo65.

L’eguaglianza democratica dovrebbe creare istituzioni pubbliche imparziali nella società in modo che la lotta per il riconoscimento si svolga senza pretese egemoniche da parte delle varie culture.

Benhabib introduce l‘ipotesi dell’universalismo interattivo, che permette di costituire un’identità attraverso le narrazioni. I riferimenti da lei usati risultano essere la teoria discorsiva dell’etica, la costituzione dialogica e narrativa del sé e la concezione del discorso come prassi deliberativa fondata sulla negoziazione di interpretazioni situazionali condivise. Tutto ciò per ridefinire e criticare il modello multiculturalista, interessato unicamente ad operare distinzioni ed applicare etichette ai vari gruppi culturali.

Un modello di democrazia deliberativa fondato sulle narrazioni non dovrà semplicemente esaurirsi all’interno di una sfera pubblica ufficiale, ma dovrà aprirsi alla rete di comunicazioni non ufficiali e di contesti extraistituzionali: non solo pluralismo giuridico dunque.

Secondo Charles Taylor e Axel Honnet, le pratiche sociali di riconoscimento sarebbero necessarie per la sana o la difettosa comprensione del sé. Essi credono nella tesi della costituzione intersoggettiva del sé attraverso pratiche morali di tipo dialogico: «L’assenza di riconoscimento da parte di altri che contino può recare danno ai tre aspetti del benessere morale e psicologico, cioè sicurezza, rispetto di sé e autostima»66, dice Honnet.

Tuttavia non c’è alcun nesso, secondo Benhabib, per cui «la ricerca individuale di autenticità, di espressione della propria peculiare identità dovrebbe assumere la forma di una ricerca della collettiva espressione del sé»67. È il problema della vita autentica e delle sue connessioni con l’identità: come riuscire ad assegnare all’ideale dell’autenticità un

65 S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, op. cit., p. 25 66

S. Benhabib, ivi, p. 79.

contenuto morale evitando la caduta in un essenzialismo identitario? Dunque un conto è la ricerca di un’identità particolare dell’individuo, un conto è l’affermazione di gruppi particolari all’interno nella società. Bisognerebbe adottare la visione di Nancy Fraser, secondo cui la politica del riconoscimento non può essere identificata con la politica dell’identità.

Secondo Kymlicka esiste un vero e proprio diritto alla cultura, giustificato dalla constatazione dell’esistenza di culture societarie, una sorta di identità pubbliche istituzionalizzate, che tuttavia difficilmente si trovano nella realtà. Per Fraser è un’idealizzazione che non considera la porosità connaturata a ciascuna cultura, non sempre gruppo chiuso e perfettamente omogeneo al suo interno, accomunato da unità linguistica e tradizioni. Inoltre non è ammissibile una gerarchia tra culture. Quel che propone è un’idea di autovalutazione identitaria da parte di ciascuno, poiché le dinamiche identitarie e di riconoscimento all’interno della società hanno un’elevata complessità e dunque vi è il rischio, come fa Kymlicka, di privilegiare quei gruppi che hanno alle loro spalle una lunga serie di lotte a scapito di altri raggruppamenti. Se lo stato sociale cerca di appianare maggiormente le differenze, allo stesso tempo incoraggia nuove forme di unione identitaria, ovvero nuove nascite di gruppi uniti da particolari rivendicazioni. La rivoluzione dei diritti avviene proprio nel momento in cui si mette mano alla diseguaglianza sociale. Nascono così nuove identità giuridiche. L’obiettivo sarebbe quello di orientare una società democratica verso un modello di vita pubblica in cui le narrazioni di autoidentificazione risultino fattori maggiormente determinanti dello stato individuale di quanto non siano indicatori e indici imposti all’individuo da altri: «quantunque esista in verità un rapporto simbiotico tra l’attribuzione oggettiva d’identità da parte di altri e la comprensione individuale di sé, non si dà mai un rapporto biunivoco»68.

Si è visto, così, come da queste analisi emerga l’intrinseca molteplicità dello stesso concetto di cultura, derivante proprio dal presupposto teorico del Multiple Self. Tuttavia risulta difficile parlare in termini di assolutezza nel momento in cui si discute di fedi religiose o politiche e non bisogna correre il rischio di portare a decostruzione ogni forma di universalismo. Infatti è proprio in nome del rispetto dei diritti umani che tali pensatori si muovono, pur consapevoli di non voler relativizzare a tutti i costi ogni forma di moralità condivisa. La sfida al multiculturalismo deve dunque muoversi su due fronti: da una parte introdurre il concetto di molteplicità all’interno dell’identità personale e di quella dei gruppi

sociali, delle culture, dall’altra insistere sull’universalismo dei diritti umani come unica forma di tutela della persona.

Ma anche il discorso sui diritti umani è esposto a numerose critiche, soprattutto nel momento in cui si vuole sottolineare l’idea di Multiple Self. Il passo successivo sarà perciò dimostrare come un nuovo approccio ai diritti umani sia auspicabile, in particolare ci si riferisce al Capabilities Approach di Sen e Nussbaum, come vedremo.

Il presupposto del Multiple Self può fornire un interessante appoggio teorico per costruire una teoria politica globale attraverso un paradigma come quello introdotto da Amartya Sen in termini di capacità di base e superare l’empasse che tuttora blocca e rende problematica l’applicazione del concetto di diritti umani.

Se, come sostiene Benhabib, «la negoziazione dei dialoghi culturali complessi in una civiltà globale è ora il nostro destino69», non si può far altro che trovare un terreno comune, una base di partenza condivisa per estendere una tutela universale a tutti i soggetti del mondo globale: tale tutela dovrà, per forza di cose, partire dalla più estrema concretezza e contingenza della vita umana.

Capitolo II

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