Etica delle capacità: una discussione
6. La vita buona aristotelica
A questo punto, è necessario analizzare brevemente quale sia la visione aristotelica della politica e del ruolo dell’uomo all’interno della società, per capire come il pensiero seniano si inserisca in una tradizione, come quella liberale, che si allontana dalla deriva perfezionista aristotelica, pur condividendone l’obiettivo di tutelare la più ampia definizione di realizzazione umana.
La filosofia politica di Aristotele è strettamente legata alla sua concezione dell’etica, in quanto il fine della πόλις è il raggiungimento della felicità di ogni singolo cittadino. Tale teoria è estremamente diversa da quella che si svilupperà nei secoli XVI e XVII attraverso il pensiero di Machiavelli e di Hobbes, per i quali il bene comune, come fine a cui deve tendere la politica, passerà in secondo piano o scomparirà del tutto. Il concetto di fine, invece, è un concetto cardine nella filosofia di Aristotele, secondo il quale la natura ha un suo τέλος ed ogni forma è programmata per raggiungere uno scopo, per realizzare la propria essenza dispiegando e attualizzando tutte le sue potenzialità di sviluppo.
Anche la natura umana si inserisce nella visione teleologica, in quanto viene considerata il fine dell’individuo, la cui perfezione avviene al termine dello sviluppo, non come un qualcosa che preesista, e la storia e la cultura ne costituiscono l’espressione propria: l’uomo
151 Si ricordi che tale principio è contenuto nell’articolo 3 della Costituzione Italiana, che impegna lo stato ad
intervenire per rimuovere gli ostacoli economici e sociali, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
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E. Berti, Aristotele nel novecento, op. cit., p. 224.
è per natura portato a vivere con gli altri in una comunità politica come quella che realizza di fatto nella storia, vi è un unico percorso di sviluppo, non due piani distaccati tra loro, come sarà nella contrapposizione illuminista tra ragione e cultura. Ed è proprio la realizzazione delle capacità insite nell’uomo a condurre alla felicità, fine naturale di ogni individuo, intesa come vivere bene nell’attuazione delle funzioni più complesse della natura umana, quindi nel ragionamento più elevato, nella possibilità di condurre una vita teoretica, vera caratteristica che distingue l’uomo da ogni altro essere vivente. In tal modo anche il processo conoscitivo ha una sua gradualità, attraverso la quale si giunge dall’esperienza sensibile alla vita teoretica.
Ma qual è il ruolo dell’agire umano e, in particolare, dell’agire politico all’interno di questa concezione? Innanzitutto per Aristotele l’uomo esprime la sua essenza realizzando la buona vita, che non si identifica con l’edonismo tout court ma è una vita qualitativamente alta, lo sviluppo delle potenzialità insite nel sentire e nel conoscere, qualcosa che oltrepassa la mera necessità e sopravvivenza. Tale vita è etica in quanto si tratta di realizzare il τέλος all’interno dell’ individuo. Per far ciò occorre un tipo di saggezza diverso da quello richiesto per le scienze teoretiche, occorre la φρόνησις, cioè la capacità di essere saggi sul piano della vita pratica, di saper scegliere i mezzi in vista di un fine, di mantenersi nella medietà, ossia il fuggire dagli estremi per raggiungere il più alto grado di saggezza possibile nelle scelte concrete. Questo è il modo attraverso cui ogni uomo perviene alla felicità, che coincide con il proprio fine individuale.
Il passaggio da etica a politica è inizialmente il passaggio da individuo a comunità. Il legame è strettissimo in quanto il τέλος della politica deve essere quello di realizzare le condizioni comunitarie della vita buona. Senza lo spazio creato dalla politica sarebbe impossibile, per il singolo individuo, raggiungere la felicità. Lo scambio biunivoco tra i due ambiti è evidente nel momento in cui si considera che una πόλις, costituita unicamente di cittadini non educati alla ricerca del giusto mezzo, e quindi alla φρόνησις, non potrebbe mai reggersi. Al contrario di ciò che dirà Kant, è impossibile che una comunità di diavoli si riunisca per creare uno stato, non siamo ancora giunti al momento del contratto come sigillo della volontà di collaborare per ricercare la sicurezza; per il pensiero antico il passaggio da individuo a stato è naturale, cioè corrisponde al fine per il quale gli uomini vivono, di conseguenza una πόλις, che non creasse le condizioni per il raggiungimento della felicità individuale, non sarebbe tale e sarebbe destinata ad autodistruggersi. Quindi il τέλος dell’etica e quello della politica sono complementari, in quanto l’uno si esplica nell’agire bene, l’altro nel vivere bene all’insegna della felicità, l’ευ̉δαιµονία, il demone propizio, una
sorta di armonia tra ciò che si fa e ciò che si deve fare. Ogni costrutto artificiale all’interno della comunità, come la costituzione, le leggi, i precetti religiosi, è un mezzo per raggiungere tale felicità individuale, una condizione di possibilità, attraverso cui il singolo trova la sua via all’ευ̉δαιµονία. Pertanto anche la πόλις, che è il prodotto finale dell’organizzazione comunitaria degli individui, è un mezzo e non lo scopo del vivere. Sappiamo che, nell’ Etica Nicomachea, Aristotele definisce il concetto di bene sommo, quello dal quale tutti gli altri dipendono, individuandolo nella felicità, la cui ricerca è l’oggetto primo e fondamentale della scienza politica, perché è tale bene a rappresentare il criterio per regolare la vita degli uomini riuniti in una comunità: «[…] diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione. Orbene, quanto al nome, la maggioranza degli uomini è pressoché d’accordo: sia la massa sia le persone distinte lo chiamano “felicità”»154. Più arduo è lo stabilire in che cosa consista tale felicità o, meglio, in che senso vada interpretata. L’uomo sarà felice solo se vive secondo ragione, conducendo una vita virtuosa, abituandosi ad esercitare le virtù etiche che caratterizzano la filosofia morale aristotelica. Ma qui è della politica che si vuole parlare e dunque, traslando il discorso sul piano del vivere insieme, ambito necessario per realizzare il bene di ogni singolo uomo, è necessario trovare una interpretazione più precisa di tale felicità. La teoria del bene aristotelico afferma che la politica deve creare le condizioni affinché i cittadini possano condurre una buona vita. Ma in che cosa consistono tali condizioni? Nella storia della filosofia politica numerosi pensatori si prodigheranno nel fornire esempi di società perfette o modi procedurali per giungere a tali società, sino ad arrivare a teorie politiche contemporanee. Per John Rawls si tratta di assicurare a tutti il massimo della libertà individuale, intesa nel senso di diritti fondamentali, in conformità con la scelta di una società in cui «le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da risultare ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno155». Sappiamo, però, che un altro punto di vista è possibile, quello fornito da Amartya Sen, secondo cui nell’individuazione dei beni bisogna tenere conto delle funzioni per le quali tali beni sono utili. In altre parole, non è possibile valutare un dato bene se non lo si inserisce nel contesto in cui si troverebbe ad esistere, cioè bisogna fare i conti con le capacità umane di utilizzarlo, con le possibilità di ognuno di trarne vantaggio o meno. Ciò si collega all’idea aristotelica di bene comune inteso nel senso della capacità, insita in ogni uomo, di esercitare la funzione propria, di realizzare se stesso in modi diversi, perché diverse sono le esigenze e i bisogni. Quindi ευ̉δαιµονία non come felicità in senso
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Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2000, p. 55.
utilitaristico, semplice appagamento dei desideri, ma come pienezza, piena realizzazione di sé. Sen ha dedicato il saggio On Ethics and Economics a spiegare le interconnessioni tra le due discipline e la necessità di avere sempre presenti gli obiettivi morali da conseguire all’interno dell’analisi economica. Infatti, nel giudicare dell’efficienza di una data società, sostiene che «[…] la valutazione deve essere più pienamente etica e considerare in senso più ampio il bene. Questo è un punto di una certa importanza nel contesto dell’economia moderna del benessere156». Nel momento in cui si valuta il benessere di una persona non bisogna scindere tale aspetto dalla sua facoltà di agire e modificare il risultato finale: «[…] non c’è veramente alcuna solida base per esigere che il benessere e la facoltà di agire di una persona debbano essere aspetti indipendenti l’uno dall’altro…la cosa importante è la possibilità della loro distinzione […] L’importanza di un risultato favorevole dal punto di vista della facoltà di agire non si basa totalmente sul miglioramento del benessere che può indirettamente provenirne…Nella misura in cui il calcolo del benessere basato sull’utilità si sofferma solo sul benessere della persona, ignorando l’aspetto della facoltà di agire, va perduto qualcosa di veramente importante157». L’attenzione di Sen per la facoltà di agire, ossia per la capacità, che ogni uomo può avere, di usare un bene in modo diverso, fa escludere che il benessere tout court sia l’unica condizione per la felicità, in quanto si deve declinare il discorso nei termini di una dialettica tra potenziale benessere ed effettiva possibilità di azione, tenendo a mente che la felicità conseguita per un’azione non si identifica immediatamente col benessere. Possiamo capire ora come possono entrare in relazione le concezioni seniane e aristoteliche e vedremo come spesso Sen chiamerà in causa lo Stagirita per chiarire come questo sia il fondamento più importante ma non l’unico. È opportuno puntualizzare come l’aristotelismo di Sen non si avvicini a quello esplicitamente richiamato da Martha Nussbaum ed, inoltre, come il pensiero di Sen non tenga conto di altri fattori presenti nel pensiero politico aristotelico, ad esempio la schiavitù e la ristretta libertà di scelta degli individui che facevano parte della comunità: è chiaro che le affinità si limitano a certi presupposti teorici e non investono in alcun modo le concezioni politiche che dominavano all’epoca e che oggi, invece, appaiono estremamente illiberali. Le enormi distanze di vedute tra i due filosofi «[…] comunque non hanno toccato l’origine genuinamente aristotelica dell’idea complessiva prospettata da Sen e che si compendia in quella di una stretta connessione tra economia ed etica e tra politica ed etica»158.
156 A. Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 10. 157
A. Sen, ivi, p. 57.