Capacità e identità
2. La plurivocità della giustizia
Amartya Sen individua il problema della plurivocità in tema di giustizia proprio tramite lo studio sui confronti interpersonali delle preferenze, spesso impossibili da risolvere proprio a causa dell’esistenza di differenti e distinti fondamenti di giustizia, ciascuno dei quali rivolto verso direzioni contrastanti, addirittura «lungi dall’essere necessariamente un riflesso dei valori di comunità diverse, plurivocità di questo genere possono sussistere anche all’interno della stessa comunità e perfino in una stessa persona»177, riconducendo il discorso al tema delle identità multiple, vera chiave di volta della sua argomentazione.
Quindi, di fronte a differenti fondamenti di giustizia e a continue diversificazioni nell’identificazione delle ingiustizie globali, il vertice ottico da cui impostare un discorso sulla giustizia deve essere quello dei concreti bisogni degli esseri umani, ovvero la sfida è
costruire un discorso che possa avere a che fare con la vita vissuta dalle persone in carne ed ossa, non con un loro ipotetico rappresentante ideale, utile forse a strutturare modelli astratti di redistribuzione di risorse ma fuorviante nel momento in cui si deve venire incontro a rivendicazioni che partono dal basso e si muovono nella concretezza dei problemi quotidiani.
In riferimento a questa sentita esigenza di maggior avvicinamento, da parte della teoria, alla concretezza dei problemi da affrontare, emerge la critica di Sen alla teoria della giustizia in quanto tale, responsabile di aver diffuso un modello di analisi filosofica non del tutto sbagliato ma, in un certo senso, estremamente parziale e riduttivo. Si tratta del modello rawlsiano, debitore del contrattualismo classico ma riproposto come una sua versione aggiornata, nata proprio per andare incontro ad un maggior realismo nell’impostazione dei problemi di giustizia, in contrasto con l’astrattezza degli utilitaristi, la cui analisi si incentra unicamente sul punto di vista limitato dell’utilità acquisita. Tuttavia, come hanno osservato numerosi critici, tra cui prima di tutto Michael Sandel, proprio Rawls, utilizzando un concetto come quello di velo di ignoranza, ha di fatto costruito una strategia sociale non solo irrealizzabile ma soprattutto molto lontana dalla concretezza dei problemi in campo. L’individuo rawlsiano viene accusato in varie sedi, non solo tra i communitarians, di essere un personaggio astratto, lontano dalle sollecitazioni quotidiane e incapace di tenere conto dell’estrema varietà dell’agire umano, non tanto perché si distacca da una presunta comunità d’origine, quanto perché – e questa è la critica più grave, in quanto riguarda lo stesso ambito liberale – è la razionalità stessa ad essere complessa, oltre all’identità. Dunque, nel momento in cui si parla di libertà e diritti da acquisire, non si può ignorare la complessità dello scenario sociale, che costringe l’individuo a sdoppiarsi per considerare i differenti punti di vista, con l’auspicio che risolva i contrasti che, di volta in volta, emergono nelle situazioni concrete.
La riflessione razionale, il cui ruolo è stato valorizzato da Rawls insieme al criterio della discussione pubblica, è un elemento chiave, a cui la teoria della giustizia ha dato rilevanza, tuttavia lo stesso Amartya Sen, partendo da una prospettiva liberale, ha riproposto l’ottica del comparativismo, incentrata proprio sulle realizzazioni concrete, come una prospettiva non tanto da contrapporre ma da sovrapporre alla teoria della giustizia.
L’attenzione verso tali realizzazioni concrete rappresenta un’alternativa nei confronti del trascendentalismo istituzionale, ovvero di quelle teorie della giustizia basate sulla formazione di uno schema comportamentale incentrato su istituzioni giuste, capaci di coprire ogni ingiustizia presente nella società. Schemi di questo tipo sono sicuramente utili e
hanno fatto la storia della filosofia e della teoria politica, da Hobbes a Locke a Kant, per arrivare fino ai giorni nostri, con la teoria di Robert Nozick e John Rawls, ma non hanno tenuto conto del concetto di molteplicità e differenza che alberga nella stessa razionalità, che dunque non può più assurgere a fattore esplicativo delle decisioni pubbliche o private proprio a causa della plurivocità della scelta razionale.
A conferma di ciò basti citare i risultati raggiunti, ad esempio, da Kenneth Arrow178 nell’ambito della teoria della scelta, con il suo cosiddetto teorema di impossibilità, che dimostra la difficoltà di ordinare le preferenze individuali accordandole tra loro, ma già, precedentemente, il paradosso di Condorcet179 aveva messo in serio dubbio il modello della
democrazia, facendo emergere la difficoltà di considerare un unico tipo di razionalità, un unico modello di deliberazione, un unico set di motivi per l’azione. Arrow postula la necessità che le decisioni sociali soddisfino certe minime condizioni di ragionevolezza, dalle quali poi emergono le adeguate gerarchie e scelte di assetti sociali. Ma il suo intento giunge a risultati diversi da quelli immaginati, ovvero mostra come una procedura di scelta sociale qualificabile come razionale e democratica non sia in grado di soddisfare simultaneamente nemmeno un numero non elevato di condizioni piuttosto blande. Ciò significa la difficoltà di una democrazia qualora le scelte libere delle persone non si accordino reciprocamente.
Quindi, nel momento in cui le teorie della giustizia, ispirate dalla volontà di individuare istituzioni trascendentali giuste, considerano le probabili conseguenze delle istituzioni, assumendo schemi di comportamento individuale, devono tenere presente che non sempre i comportamenti razionali degli individui rispettano tali schemi, proprio a causa della complessità della realtà.
178 L’economista statunitense Kenneth Arrow ha formulato, nel 1951, il celebre teorema di impossibilità, riferito
all’impossibilità di aggregare in una ragionevole funzione del benessere sociale le preferenze individuali, teorema che ha consentito un nuovo approccio allo studio della scelta sociale.
179 Il Paradosso di Condorcet è una situazione indicata, alla fine del XVIII secolo, dal Marchese de Condorcet, secondo
cui le preferenze collettive possono essere cicliche (cioè non transitive) anche se le preferenze dei votanti non lo sono individualmente. Si tratta di un paradosso, perché significa che i desideri della maggioranza possono essere in conflitto gli uni con gli altri e questo succede quando le maggioranze stesse sono composte di individui differenti.