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Culture del rischio: ambientalismo integrato vs ambientalismo radicale

IL MONDO AL BIVIO

5. Limiti all’organismo sociale

5.3 Culture del rischio: ambientalismo integrato vs ambientalismo radicale

Considerata monoliticamente, la cultura ambientalista emerge dal presupposto di una necessaria azione intelligente (umana) che si prefigga la tutela della natura e dell’ambiente come suo fine precipuo. Il concetto di natura e di ambiente naturale si staglia in questo modo principalmente in contrapposizione al concetto di ambiente antropomorfizzato o umano. Antonietta Mazzette (1994) distingue in tal senso tra «ambiente urbano» e «non urbano»72, intendendo i due termini in senso ideal tipico. Si tratta di una sorta di metafora che ci permette di definire più chiaramente il nuovo significato del rapporto uomo/natura.

Con la modernità, la città, come ambiente puramente umano cioè adibito alla vita e alle necessità delle comunità umane, si è progressivamente trasformato: da centro ben delimitato delle attività economiche, tipico delle città medievali, avente funzione prevalentemente difensiva nei confronti di pericoli esterni, l’ambito urbano ha esteso sempre più il proprio spazio trasformandolo. L’ambiente urbano, l’ambiente antropomorfizzato, si estende progressivamente e intensifica il proprio impatto, diventa nodo delle reti e degli scambi globali, perde progressivamente la propria natura difensiva ma al contempo diventa sempre più insicuro e alieno.

L’estensione del dominio tecnico e della razionalità economica sull’ambiente naturale ha finito per estendere l’ambito di dominio dell’umano. Questo significa che la città non ha più bisogno di mura: tutto quello che sta fuori può essere finalmente soggiogato e trasformato facilmente, tuttavia la conquista di questa libertà paga lo scotto paradossale dell’interiorizzazione del pericolo (Bauman 1998).

In questo senso, l’ambiente naturale, da matrigna malvagia, dalla quale ci si doveva sempre guardare e difendere, diventa, con la modernità, da prima un rinnovato campo di conquista (forze produttive) e, in fine, madrina buona che sussiste la nostra vita.

In questa ultima accezione, viene riconosciuto il cordone ombelicale che lega l’uomo alla natura, il suo esservi inserito nel ciclo biologico stesso. La dicotomia uomo/natura tende, in qualche modo ad essere annullata in virtù dell’interiorizzazione del pericolo

71 Una simile cultura condivisa mi sembra si possa riscontrare nella tematizzazione crescente dei cosiddetti «beni comuni», la quale si allontana dalla definizione di bene pubblico soprattutto nel sottolineare la rinnovata responsabilizzazione collettiva che subentra alla tutela statale, d’altronde sempre più in difficoltà per quanto riguarda questo suo compito. Il concetto di bene comune, quindi, è un concetto «nebuloso», come ebbe a definirlo Stefano Rodotà, cui vine affidata una sorta di «palingenesi sociale», tuttavia, esso sgorga principalmente dal rischio, accentuato dalla globalizzazione, di una privatizzazione dei beni ritenuti fondamentali da una comunità.

72 Scrive la Mazzette: «i significati che attribuiamo ai termini “urbano” e “non urbano”, […], sono assai generali. Per il primo intendiamo quella parte di territorio radicalmente sconvolta dal fenomeno di antropomorfizzazione e nella quale la presenza umana è predominante […], per il secondo indichiamo ciò che non ha subito modificazioni profonde nel sistema morfologico» (1994, p. 115).

all’interno stesso delle società umane: se il pericolo per noi stessi siamo noi stessi, non esiste più alcun nemico esterno, così come lo sfruttamento di noi stessi perde del tutto senso e annulla ogni possibile vantaggio.

Si tratta di quella che può essere definita «ecologia superficiale» in contrapposizione al concetto di «ecologia profonda»73, due concetti che, in una sorta di continuum, ideale, rappresentano le posizioni estreme e in un certo senso opposte della cultura ecologista. L’ecologia superficiale, pur professando una forma di riconciliazione dell’uomo con la natura, mantiene fondamentalmente un carattere antropocentrico per cui «la Terra deve servire l’umanità. Se l’umanità scomparisse, la sorte della Terra non avrebbe più alcuna importanza per nessuno»74.

Allo stesso modo, James Lovelock sottolinea come ogni cambiamento indotto dall’uomo sull’ecosistema difficilemente rappresenta una minaccia per il pianeta, nel senso che la Terra ha una capacità di rigenerazione capace di far rifiorire la vita anche dopo un’era gloaciale o l’impatto disastroso di un meteorite. Tuttavia, osserva Lovelock «Se riusciamo ad alterare l’ambiente in maniera significativa, come può accadere con la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, allora potrà rendersi necessario un nuovo adattamento. E questo potrebbe non essere a nostro vantaggio» (cit. in Mazzette 1994, p. 37).

In quest’ottica, i guasti all’ecosistema vengono messi in rilievo cioè principalmente in quanto possono nuocere all’uomo. In questo senso l’uomo stesso viene ricontestualizzato all’interno dell’ecosistema pur rimanendovi il centro di gravità permanente e la «misura di tutte le cose». Si tratta, in definitiva di una sorta di «ambientalismo integrato», in quanto si muove all’interno del pensiero dominante e che definisce la differenza «tra l’ecologia (come scienza) e l’ecologismo (come pratica politica)» (Benoist 2005, p. 233). La natura è ancora fondamentalmente vista come un capitale non del tutto rinnovabile e quindi per quanto possibile tesaurizzabile. Come afferma Baudrillard: «la natura, l’aria l’acqua, dopo essere stati semplici forze produttive, diventano beni rari ed entrano nel campo dell’economia politica» (cit. in Mazzette 1994, p. 36). Questo permette a Alain de Benoist di affermare che «Per i liberali […] gli ecologisti sono semplicemente degli adepti come tanti altri dell’economia dirigista; sono peraltro dei neo-malthusiani, sostenitori di un’economia stazionaria o addirittura regressiva» (2005, p. 233). In effetti, per molti versi tale approccio propone anche questo, ma non solo. Come insegna Beck, si tratta di affrontare in maniera nuova le conseguenze che un approccio indiscriminato pone immediatamente come rischi. Si tratta di far divenire profittevole ciò che prima non lo era, inserendo nella “valutazione”, intesa come processo di formazione del valore, anche elementi che prima non venivano considerati.

Si potrebbe in altri termini sostenere che ad una «razionalità strumentale, finora dominante l’economia di mercato, tende a subentrare una «razionalità orientata al

73 Riprendiamo qui i due concetti da Alain de Benoist (2005), il quale a sua volta li riprende direttamente dall’ecologista norvegese Arne Naess.

74 Si tratta di un’affermazione del geologo e vulcanologo Haroun Tazieff riportata da Alain de Benoist (2005, p. 233).

valore», con l’unico limite della definizione mai univoca del concetto di valore. In questo senso, l’unico orizzonte valoriale che possa essere veramente comune è rappresentato dalla categoria del «rischio globale».

Vale chiaramente la pena chiedersi se, in quest’ottica, i provvedimenti possibili siano davvero all’altezza dei problemi posti e se la prospettiva emergente di un “mercato dell’ambiente” o di un “capitalismo verde” (greeneconomy) non firmi piuttosto la propria condanna a morte nel momento in cui continua a porsi «all’interno di un sistema di produzione e di consumo che è la causa essenziale dei danni ai quali tenta di porre rimedio» (Benoist 2005, p. 237).

L’alternativa, dal punto di vista della cultura ambientalista, è rappresentato dagli approcci per così dire “radicali”, i quali tendono a riproporre la dicotomia uomo/natura, ponendo l’accento sulla preservazione di quest’ultima e il contenimento degli spazi antropomorfizzati come “naturalmente” antitetici alla natura stessa.

Questo tipo di sintesi culturale è ben riassunta da Dominique Bourg, il quale descrive come segue il pensiero dei teorici dell’ecologia profonda: «Essi sono portati a respingere la conseguenza stessa di questa elevazione [dell’uomo al di sopra della natura e dell’individuo al di sopra del gruppo], ovvero la proclamazione dei diritti dell’uomo. Essi se la prendono inoltre con la religione giudeo-cristiana – accusata di essere stata all’origine dell’antropomorfismo – con lo spirito scientifico, analitico e dunque inadatto alla comprensione della natura come totalità, ed in fine con le tecniche, accusate di tutti i mali. Niente di ciò che è moderno sembra trovare grazia davanti ai loro occhi» (in Benoist 2005, p. 239).

Solo la natura può salvare se stessa ed in questo senso bisogna separarla definitivamente dall’uomo: l’ambiente urbano non può essere al contempo anche non urbano perché laddove si estende il dominio dell’uomo sulla natura esso non può fare altro che distruggerla o, che è lo stesso, fissare da sé i limiti “tollerabili” di tale distruzione. In questo senso, è qui l’uomo a non essere annoverato tra i chiamati alla grande adunanza dell’Arca. La salvezza della natura, quindi, non ammette più alcun Noè. L’ideale di una natura “incontaminata”, cioè del mondo nella sua mera “datità”, guida queste forme di ambientalismo radicale che si risolve, fondamentalmente, in una sorta di paradossale “ascesi del mondano”75 come “culto della natura”, che trova il suo contrappunto forse solo nella celebrazione del progresso come “culto dell’umano”. Al «disincanto» weberiano subentra allora una sorta di «reincantamento» che ha come oggetto (e soggetto) la natura76. Questo neo-paganesimo tende quindi sovente a

75 Come scrive Benoist: «Mentre taluni ecologisti mettono sotto accusa la responsabilità cristiana nella nascita di un atteggiamento di dominio eccessivo della natura altri auspicano invece di veder sorgere un nuovo sentimento religioso della natura; la difesa dell’ambiente diventa allora “un dovere sacro”, che va di pari passo con la riscoperta di una dimensione di trascendenza che si impone all’azione umana» (2005, p. 256).

76 Questa forma di re-incantamento è molto diversa da quella ravvisata, ad esempio, da George Ritzer (1997; 2000) , il quale la contestualizza nell’ambito della cultura di consumo. In questo caso si tratta piuttosto di un rifiuto del consumismo e di tutto ciò che può essere “moderno”. Qui l’«autenticità» - che MacCannell (2005) stima essere la cifra dell’esperienzialità tardo-moderna - è riscontrabile solo al di là dell’uomo (o delle forme più estreme di antropomorfizzazione dell’ambiente). Seppur, bisogna notare, che il ritorno alla natura diventa sempre più spesso uno dei moventi del consumismo e delle strategie economiche recenti.

riproporre un animismo panteista che si esprime in forme di approccio sacralizzato alla natura che trova il proprio archetipo tanto nelle comunità tradizionali, contadine e tribali, quanto nella concezione romantica, nella quale, molto spesso, le passioni dell’uomo trovavano un contrappunto nella quietezza senza tempo della natura77.

Parafrasando Horkeimer e Adorno si potrebbe dire quindi che tanto più l’Illuminismo mostra la sua essenza mitologica, tanto più il mito torna a fare capolino nel mondo. Questo aspetto all’apparenza irrazionale, in realtà, si fonda perfettamente con lo spirito postmoderno, con una soggettività cioè di stampo intimistico che contrappone alla funzionalità e formalità dei rapporti personali l’edonismo e il dionisiaco e alla “bruttezza” del mondo (umano) razionalizzato, la ricerca estetica di un mondo naturale immediatamente perfetto e apparentemente privo di contraddizioni78.

6. Un primo tentativo di sintesi. Tra cultura del consumo e politicizzazione

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