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IL MONDO AL BIVIO

5. Limiti all’organismo sociale

5.1 Il concetto di sostenibilità

Negli ultimi cinquant’anni, accanto all’autonomizzazione progressiva dei percorsi di vita, si è assistito ad un riassorbimento dei conflitti sociali, prontamente assorbiti nell’ambito istituzionale e politico della regolazione statale. L’organizzazione collettiva delle dinamiche del lavoro ha aperto all’avvento della «classe media» e la concomitante estensione delle chances di vita ha finito col rigettare nell’ambito privato degli individui i moventi di una rinnovata contestualizzazione pubblica, liberando il principio di un progresso indefinito subordinato ad una crescita senza limiti dell’economia67. Accanto alle assicurate libertà politiche e civili, si è venuto a rafforzare quindi il principio acquisitivo tipico dell’homo oeconomicus. Il mito del collettivo ha finito per cedere il passo al pragmatismo della crescita economia, intesa come presupposto stesso per l’allargamento delle possibilità di vita, sviluppate per lo più all’interno della vita privata degli individui, mentre allo Stato è demandato il controllo collettivo, più o meno

67 Solo assicurando una crescita economica costante, organizzata sempre più burocraticamente all’interno di una apparato statale ridotto alla mera funzione di redistribuzione, sembrava possibile rispondere a qualunque rinnovata richiesta di possibilità e libertà.

stringente, sull’economia. Uno dei compiti principali dei governi è così diventato quello di sostenere la crescita del Pil, mentre tutte le altre questioni finiscono per perdere in rilevanza.

Le negatività di tale modello di sviluppo sono state per lungo tempo esternalizzate sull’ambiente naturale68, il quale ha finito per essere sempre più colpito e trasfigurato. Nel corso dello sviluppo economico e industriale, l’uomo ha a tal punto esteso il suo ambito vitale e antropomorfizzato il pianeta, che oramai esso non ci rimanda altro che la nostra stessa immagine distorta. L’uomo (noi), in preda ad una sorta di delirio d’onnipotenza, è caduto vittima di un patologico narcisismo, tanto da non riconoscere più l’immagine originaria del mondo. Come il dipinto maledetto di Dorian Grey, l’ambiente naturale ha pagato per lungo tempo le intemperanze e la dissolutezza del nostro comportamento.

La perdita di un parametro di differenza, attraverso il quale ritrovare la propria identità, ha gettato l’umanità in una sorta di vicolo cieco entro il quale la rincorsa al “progresso” non ha significato altro che la rappresentazione distorta dell’ego smisurato dell’umanità. Il mondo umano si è sostituito progressivamente al mondo della natura della quale però anche l’uomo fa (ancora) parte, innescando non tanto l’inizio del suo imperio, bensì, piuttosto, l’inizio della sua autodistruzione.

Il pensiero dei «nuovi movimenti sociali» (Della Porta e Diani 1997) ha continuato tuttavia, come un fiume carsico, tra le maglie sempre più strette di una realtà automatizzata e solo la crescita costante in seno alla modernità stessa dei rischi ambientali come conseguenze inaspetatte del processo di industrializzazione e sfruttamento della natura, ha comportato, come dice Beck, una postuma vittoria della controcultura ambientalista e un ripensamento verso una correzione riflessiva (autoconfronto) del modello di sviluppo prevalente. Una riflessione forse tardiva che echeggia ancor oggi attualissima nelle parole del biologo americano Barry Commoner (1972), il quale già negli anni ‘70, con l’umiltà di chi avanza i primi passi ma con la fermezza dell’urgenza, affermava: «Io credo che il continuo inquinamento della terra, se incontrollato, finirà per annullare l’idoneità di questo pianeta quale sede di vita umana». Commoner proponeva fin da allora la necessità di un nuovo patto uomo–natura per ristabilire un equilibrio capace di tutelare l’uomo e il suo ambiente. Egli sintetizzò per primo le quattro leggi fondamentali dell’ecologia: 1) Ogni cosa è connessa con qualsiasi altra; 2) Ogni cosa deve finire da qualche parte; 3) La natura è l’unica a sapere il fatto suo; 4) Non si distribuiscono pasti gratis. Una rivalutazione delle leggi naturali contro la dittatura della tecnocrazia scientifica che non prende in considerazione gli effetti perversi dell’industrializzazione della vita produttiva.

Negli stessi anni, un gruppo di scienziati, intellettuali, premi nobel e imprenditori guidati dal manager Aurelio Peccei e noti come “Club di Roma”, elaborarono uno studio, commissionato al MIT di Boston, che diede un forte colpo al mito dello sviluppo

68 Come osserva Alain de Benoist: «Per decenni se non per interi secoli l’attività economica si è svolta nell’ignoranza delle leggi fisiche fondamentali secondo le quali l’ambiente e l’economia non formano mai delle entità radicalmente distinte. Il libero funzionamento dei mercati permetteva ai decisori di massimizzare i propri interessi senza tener conto delle esternalità delle iniziative assunte» (2005, pp. 231 e 232).

illimitato. L’opera, resa nota nel 1972 a pochi mesi dalla prima crisi petrolifera, ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica. Prese il nome di “Rapporto sui limiti della

crescita” (o “Rapporto Meadows” dal nome di Donella Meadows che più di altri curò la

simulazione al computer che mise in allarme il mondo). Seppure i dati del Club si rivelarono successivamente in parte falsificabili, per la prima volta venne sottolineata la probabilità di un esaurimento delle materie prima e di una decadenza con esiti drammatici della capacità di carico del pianeta. Il concetto di limite per la prima volta entra con forza nel dibattito sullo sviluppo.

L’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo è di tutta evidenza se si pensa che già i Paesi emergenti stanno sviluppando la loro strada allo sviluppo che, come nel caso della Cina, ripercorre in gran parte le tappe fondamentali dello sviluppo economico occidentale con tutte le conseguenze che ne derivano.

Il pericolo più imminente riguarda, infatti, l’incapacità delle risorse naturali di far fronte ad una popolazione mondiale che cresce in modo esponenziale e che, se dovesse anche solo ambire ad un benessere paragonabile a quello dei paesi OCSE, necessiterebbe di un’economia 15 volte quella attuale (75 volte quella del 1950) entro il 2050, e pari a 40 volte quella attuale (200 volte quella del 1950) entro la fine del secolo (Bologna G., in Brown 2011, p. 11).

Lo sviluppo del pensiero ecologista e la sempre più palese incapacità del pianeta di far fronte ad uno sviluppo economico dissennato, ha fatto in modo che si articolasse con sempre maggiore precisione e urgenza il concetto di uno «sviluppo sostenibile».

Il concetto di «sostenibilità» in merito al modello di sviluppo, fu introdotto ufficialmente con il famoso «Rapporto Brundtland», elaborato nel 1987 dalla

Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED). Vi si sostiene che «Lo

sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». Oltre ad un approccio universalistico che non precluda forme di sviluppo economico agli altri Paesi è quindi al contempo sottolineata la necessità di un’equità rispetto alle generazioni future: «Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali»69.

È già presente, in filigrana, tutta la questione dei rischi globali posta da Beck e la necessità di ripensare il modello di sviluppo dei Paesi Occidentali che, in quest’ottica diventa immediatamente il problema di uno «sviluppo sostenibile» attuabile solo attraverso un pensiero cosmopolitico.

69 La Commisione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED), facente capo all’Onu, fu incaricata di valutare gli effetti dello sviluppo industriale sull’ecosistema ed i suoi eventuali limiti. Il rapporto finale della Commissione, significativamente intitolato “Our Common Future”, fu redatto nel 1987 e prese anche il nome di “Rapporto Brundtland” dal nome della coordinatrice Gro Harlem Brundtland che in quell’anno era presidente del WCED ed aveva commissionato il rapporto stesso. Una versione completa e ipertestuale del Rapporto è rinvenibile online al seguente indirizzo http://www.un- documents.net/wced-ocf.htm

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