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IL TURISMO TRA GLOBALE E LOCALE

3. Il paradigma emergente della sostenibilità

3.3 Eco-turisti o ego-turisti?

Aprire chiaramente ad una interpretazione soggettivistica della sostenibilità significa anche, come non abbiamo mancato di sottolineare, un certo depotenziamento ed una certa relativizzazione del concetto stesso.

In questo modo, infatti, le pratiche sostenibili, ivi compresa quella turistica, possono essere facilmente ricondotte alla mera soddisfazione egoica che giustifica il fascino di una pratica di viaggio che limita non tanto l’impatto sui territori, quanto piuttosto il senso di colpa nei confronti del proprio essere turisti, attraverso un’azione connotata positivamente e in linea con le buone pratiche rispettose degli equilibri ambientali (Cfr. Camuffo e Malatesta 2009, p.47).

Da questo punto di vista le critiche non mancano e si avvicinano più o meno tutte all’idea che ogni pretesa sostenibilità nel turismo sia automaticamente greenwashing, oppure che serva primariamente a sottolineare, ancora una volta, distinzioni di status all’interno della società globalizzata. É la tesi sostenuta, ad esempio, da Rosaleen Duffy nel suo libro dal significativo titolo A Trip Too Far (2002). La Duffy appare piuttosto critica nei confronti del turismo responsabile e denuncia la fallaccia delle sue pretese riassumibili nella massima “Take only pictures, leave only footprints”.

Il termine ecoturismo, afferma la Duffy, sta diventando una buzzword utile solo all’industria turistica per vendere i propri prodotti. In linea con la critica al capitalismo culturale di Jeremy Rifkin, anche la studiosa brittannica, ritiene che nell’industria globale del turismo «le culture e le società diventano prodotti di consumo per un pubblico esterno» (ibidem, p. 73)179.

Nella loro «auto-indulgenza», spiega l’autrice, gli ecoturisti sono poco diversi dai turisti tradizionali; anch’essi infatti «hanno scarso potere di minimizzare il loro impatto», neppure se viene offerta loro tale possibilità.

Attraverso una puntuale disamina di quello che potrebbe essere definito l’intero ciclo della vacanza, la Duffy giunge alla conclusione che «a livello individuale, [gli ecoturisti] non possono invocare alcuna riduzione dell’impatto sociale ed economico delle loro vacanze» (ibidem, p.46).

Dall’ex colonia britannica di Belize da lei studiata – ora popolare meta ecoturistica nell’America Centrale – Duffy riferisce storie di visitatori che durante le immersioni

subaquee o lo snorkeling, si sono aggrappati, o hanno calpestato coralli fragilissimi e perseguitato la fauna marina, nonostante l’invito a “lasciare solo bolle” al loro passaggio. Nella loro ricerca di scogliere, foreste pluviali e rovine, scrive Duffy, essi non riflettono sull’impatto ambientale della costruzione degli hotel, sull’uso delle compagnie aeree, sulla fabbricazione delle attrezzature subaquee, sul consumo delle merci importate o anche su qualcosa di palese come prendere un motoscafo per raggiungere le scogliere e il conseguente inquinamento delle acque.

In questo senso, gli ecoturisti di Belize, vengono paragonati dalla Duffy a turisti ricreazionali, in cerca solo di nuove e alternative «occupazioni edonistiche». Il loro modo di viaggiare e fare turismo viene quindi ricondotto ad un più tradizionale marcatore di posizione sociale, per cui gli eventuali disagi o proibizioni cui si sottopongono, rappresentano solamente una sorta di sottoconsumo ostentativo: «La loro abnegazione dei lussi di viaggio convenzionale è motivato dalla necessità di dimostrare a se stessi che possono affrontare le difficoltà che non devono affrontare nelle loro confortevoli vite a casa. Vogliono credere che la loro vacanza non abbia lo stesso impatto di quella dei turisti di massa da cui amano distinguersi» (ibidem, p. 25).

Certamente, non si può nascondere che, in moti casi, il richiamo ad una vacanza sostenibile venga usato alla stregua di una stretegia di marketing e che i maggiori costi molto spesso sostenuti dai turisti per una sorta di vacanza eco “all inclusive” rappresenti una forma di distinzione sociale. D’altrocanto non ci si poteva certo aspettare nulla di diverso dall’analisi del turismo in romantiche ed esotiche isole nel bel mezzo del Mar dei Caraibi frequentate abitualmente da star del cinema o altre élite più o meno ricche e potenti.

Tuttavia, quello che ci preme qui sottolineare, è che l’analisi che fa la Duffy, si riferisce in gran parte all’aspetto quantitativo della sostenibilità, per cui, a conti fatti, il turismo certamente più sostenibile è sempre quello fatto rimanendo a casa davanti al computer o alla televisione o, perché no, immersi nella lettura di un bel libro di Salgari.

Ma anche questi viaggi immaginati o “virtuali”, come abbiamo visto nel capitolo precedente, in realtà alimentano l’immaginario turistico il quale tenderà, prima o poi, a concretizzarsi nel viaggio reale, in una performarce esperienziale che interessa il corpo e i propri sensi.

In altri termini, appare piuttosto puerile supporre che il turismo, inteso come spostamento concreto ed esperienza sensibile, dopo uno sviluppo incessante e tumultuoso, possa regredire proprio in un mondo globale caratterizzato dal paradigma della mobilità. Il turismo rappresenta la metafora stessa della mobilità globale ed è un fenomeno in continua espansione e sviluppo con il quale bisogna fare i conti. Anzi, è proprio questa consapevolezza, che contribuisce allo sviluppo di turismi alternativi e sostenibili, al pari della consapevolezza dei rischi globali cui è sottesa una più generale «azione collettiva individualizzata» dalle forti valenze etiche e politiche.

Per questo, continuando a guardare all’aspetto quantitativo della sostenibilità, si rischia di non riuscirne mai abbastanza soddisfatti. Quindi, seppur importantissimo e determinante per una valutazione effettiva della riduzione dell’impatto antropico, il paradigma quantitativo va sempre visto alla luce anche di quello qualitativo, con l’emergere cioè di un’esigenza “etica” alla sostenibilità la cui diffusione contribuisce a

radicare forme alternative di azione che vanno nella direzione di una maggiore attenzione, rispetto e conservazione dei territori e delle culture.

Il che contribuisce anche a trasformare il turismo stesso proprio nel momento di suo massimo sviluppo, inserendolo all’interno di una sensibilità emergente che appare come il tratto peculiare del processo di riflessività sociale che, nell’era della globalizzazione, deve trovare strade alternative alle consuete vie istituzionalizzatesi nel corso della modernità.

Come non mancano di sottolineare Camuffo e Malatesta nel loro approccio pur critico al fenomeno dell’ecoturismo, è necessario tenere presente che negli ultimi decenni «gli individui si muovono in uno spazio nel quale la crisi ambientale non è più localizzata in singoli luoghi stigmatizzati e facilmente evitabili, ma è parte integrante del loro sistema sociale di riferimento» (2009, p. 52). Lo studio dell’ecoturista, «in quanto soggetto che fa della mobilità una delle categorie fondamentali del suo essere», non può non tener conto della natura pervasiva, globale, della percezione di una crisi ambientale generale. L’ecoturismo allora va inquadrato all’interno di un paradigma di riferimento nel quale è possibile pensare ad una fuga del turista “eco” proprio dallo spazio di tale crisi, come rifugio in uno spazio “altro”, «libero, o liberato, dalla presenza della società del rischio» (ivi).

L’ipotesi quindi degli autori, supportata anche da altri studi, è che «lo spazio turistico diventa il mezzo attraverso il quale si realizza il legame tra ambientalismo e turismo “eco”» o “sostenibile”.

I due termini diventano anche in questo caso interscambiabili nel momento in cui il turismo rivolto all’esperienza degli spazi naturali incontaminati diventa anche la principale via d’accesso cognitiva ai concetti astratti dell’ambientalismo e della sostenibilità.

Come scrivono ancora i due autori: «mettendo in atto viaggi responsabili in aree protette, rivolti alla conservazione delle risorse ambientali, e avendo la consapevolezza di sostenere economicamente progetti indirizzati alla sostenibilità e alla crescita del benessere delle popolazioni locali, ovvero seguendo i dettami istituzionalmente stabiliti per l’ecoturismo, si entra intenzionalmente in contatto con la dimensione materiale degli ideali ambientalisti. All’interno dello spazio ecoturistico gli oggetti che nella letteratura scientifico-divulgativa hanno forma astratta (heritage, bene pubblico, ecologia) vengono trasformati in realtà concrete, tangibili e fruibili» (ibidem, p. 53)

Appare chiaro, in questa prospettiva, come la natura performativa del viaggio ecoturistico diventi il fattore essenziale per l’affermazione e il radicamento stesso degli ideali di sostenibilità. Attraverso l’adesione e la sperimentazione di pratiche turistiche alternative maggiormente attente all’ambiente, alle popolazioni e alle culture, gli individui “conoscono” ed imparano ad essere più attenti e rispettosi.

In altre parole, essi assumono su di sé, riflessivamente, i problemi sociali e ambientali dei luoghi, responsabilizzandosi per ciò che è possibile e, allo stesso tempo, sperimentando azioni concrete.

Per questo, come abbiamo cercato di dire, porre eccessiva enfasi sugli aspetti quantitativi rischia da un lato di estremizzazione le posizioni ecologiste – per cui diventa buono o responsabile solo il turista mancato – dall’altro di rendere poco

operativo il paradigma della sostenibilità il quale deve, oserei dire di necessità, passare per successivi aggiustamenti ed esperimenti. Senza contare il rischio di demotivazione dei turisti stessi, per i quali, se ogni loro azione finisce con l’essere definita come inutile e vana, allora tanto vale non tentare nulla.

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