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La spettacolarizzazione degli spazi pubblic

Etica romantica e socializzazione dell ’ esperienza di consumo

4. Una vita spettacolare

4.2 La spettacolarizzazione degli spazi pubblic

La dimensione spettacolare della vita ha bisogno del proprio set. E siccome non sono più gli oggetti a venir consumati, se non accidentalmente, bensì la vita stessa e le sue relazioni, è il mondo stesso a dover diventare un grande set dove al centro vi possa essere l’esperienza e i beni rappresentino lo sfondo. In questo modo, i luoghi stessi del consumo finiscono per assumere il carattere ad un tempo materiale della merce e il carattere “smaterializzato” dello spettacolo, diventando una sorta di «supermerce» (Codeluppi 2000).

Questi spazi sono quelli che solitamente Augé (1992) definisce anche «non-luoghi», spazi anonimi che non posseggono solide radici ancorate al loro contesto sociale e storico. Luoghi che non possono neppure ambire a costituirne uno nel tempo. Si tratta infatti di luoghi “a-storici”, luoghi di passaggio per individui erranti e altrettanto anonimi che gli spazi attraversati. Si tratta di luoghi, in realtà, che manifestano una sola cultura, quella del consumo.

Secondo Codeluppi (2000), proprio come la merce ha un carattere «paradossale» in quanto privata e pubblica allo stesso tempo, anche la supermerce rappresentata dai luoghi del consumo ha un carattere “semi-pubblico”, nel senso che si colloca esattamente a metà tra il privato e il pubblico. Si tratta di luoghi percepiti come pubblici perché socializzati nella cultura del consumo, una cultura che, come hanno mostrato Douglas e Isherwood (1978) è possibile oramai ricostruire definitivamente come antropologia.

Secondo il sociologo americano George Ritzer (2000), infatti, per gli individui (post)moderni, ipersocializzati ai consumo, questo svolge molte delle funzioni tradizionalmente svolte dalla religione42, con tanto di “luoghi di culto” rappresentati proprio da quella supermerce che sono i luoghi del consumo, vere e proprie «cattedrali del consumo» “consumate” a loro volta come spettacolo. Come afferma Debord, infatti, «Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. […]. Essa non respinge più nel cielo, ma alberga presso di sé il suo ripudio assoluto, il suo ingannevole paradiso» (1967, p. 58).

Allo stesso modo, secondo Ritzer, i «nuovi strumenti di consumo», rappresentati per l’appunto dalla supermerce, per funzionare devono essere caratterizzati da una razionalità crescente, determinata, in ultima analisi, da cinque elementi: efficienza,

prevedibilità, calcolabilità, controllo e irrazionalità della razionalità (2000).

Secondo Ritzer (2000), infatti, soprattutto la calcolabilità e il controllo necessari alla gestione delle moderne supermerci43, determinano quella che egli definisce come «irrazionalità della razionalità», cioè il fatto che una crescente razionalizzazione determina una disumanizzazione e una irragionevolezza dei contesti la quale finisce per creare un effetto di “disincanto” del tutto simile a quello che Max Weber definiva come proprio dell’intera società occidentale in via di secolarizzazione.

Per questo motivo, le cattedrali del consumo devono ogni volta elargire ampi sforzi per riproporre il loro “incanto” e «la rigenerazione dell’incanto […] dipende da una loro progressiva spettacolarizzazione» (ibidem, p. 113). Questa, secondo Ritzer, passa non solo attraverso lo spettacolo in sé e la «messa in scena», ma anche attraverso la «simulazione», termine con il quale il sociologo americano rievoca Baudrillard, ma, soprattutto, attraverso l’«implosione», forse la forma più tipicamente post-moderna, nella quale cadono i confini e le demarcazioni che solitamente attraversano la società, fino a creare un vero e proprio spazio «eterotopico», una sorta «di utopia effettivamente realizzata […], una sorta di luogo che si trova al di fuori di ogni luogo per quanto possa essere effettivamente localizzato» (Foucault 1994, cit. in Codeluppi 2000, p. 25).

Infatti, non solo i più classici non-luoghi ma l’intera struttura architettonica e logistica delle città tende a venire plasmata dalla cultura del consumo. Ogni spazio pubblico tende sempre più a commercializzarsi senza neppure più la necessità di essere prima “privatizzato”. Man mano che la cultura del consumo esce dai non-luoghi, i non-luoghi stessi tendono a divenire il riferimento per gli spazi pubblici: «Lo spettacolo non è più confinato in momenti delimitati o in luoghi chiusi, esso si è capillarizzato nel quotidiano della città e nel reticolo degli spazi e dei tempi dell’esperienza metropolitana» (Amendola 1997, cit. in Codeluppi 2000, p. 24). La città stessa tende a farsi, in ultima istanza, spazio «eterotopico» per eccellenza.

In questa sorta di luogo magico, viene a saltare «ogni distinzione tra attori e pubblico, scena e platea, rappresentazione e realtà. Lo spettatore è immerso nello spettacolo e opera perciò anche come attore, realizzando il vecchio sogno delle avanguardie artistiche novecentesche di dare vita a una vera e propria opera d’arte totale» (Codeluppi 2000, p.24).

Al pari dello spazio fisico, anche lo spazio pubblico simbolico e politico viene pervaso dai medesimi meccanismi. Come scrisse un acuto commentatore politico del New

Yorker, «l’arte del governare è diventata una forma di consumismo, non di cittadinanza:

si compra il partito che sembra promettere affari o servizi migliori» (cit. in Bauman 2002, p. 41).

La concorrenza dello spazio pseudo-pubblico dominato dalla logica commerciale della spettacolarizzazione costringe infatti la politica a piegarsi a queste stesse logiche dovendo conquistare l’elettorato di massa. La denuncia sempre più insistente di “personalizzazione” e “spettacolarizzazione” della politica, che va di pari passo con una

43 Secondo Ritzer (2000) i «nuovi strumenti di consumo», rappresentati per l’appunto dalla supermerce, per funzionare come tali, devono essere caratterizzati da una razionalità crescente determinata, in ultima analisi, da cinque elementi: efficienza, prevedibilità, calcolabilità, controllo e irrazionalità della razionalità.

sua crescente tendenza al “populismo” e all’infoteinment (Campus 2008), non rappresentano altro che la manifestazione più esplicita dell’avvenuta supremazia della cultura del consumo e della smaterializzazione del consumo stesso in spettacolo.

Ogni spazio pubblico e quella che un tempo era definita “vita pubblica” (o sfera pubblica) diventa supermerce.

L’incantamento dell’esperienza prodotto dalle supermerci corrisponde, quindi, alla spettacolarizzazione dell’esperienza, una spettacolarizzazione opportunamente creata affinché la vita stessa possa essere “spesa” in maniera commercialmente profittevole. È questo, in definitiva, il trionfo della cultura del consumo: la trasformazione dell’esperienza in consumo e, quindi, del consumo in vita.

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