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Monocultura globale o differenziazione culturale?

IL MONDO AL BIVIO

2. Verso una società mondiale dei consumi?

2.1 Monocultura globale o differenziazione culturale?

Società globale significa anche, e forse innanzitutto, espansione su scala globale del cosiddetto processo di «modernizzazione», inteso come quel processo che ha caratterizzato lo sviluppo delle società occidentali nel recente passato e che chiama in causa, quindi, i processi di razionalizzazione, individualizzazione, industrializzazione produttiva e crescita dei consumi.

Le relazioni economiche fortemente sbilanciate da parte di paesi dall’economia avanzata versus paesi per così dire ancora arretrati dal punto di vista tecnico-produttivo, hanno posto spesso la questione dello “sviluppo” dei cosiddetti paesi terzomondisti, cioè di quei paesi al di fuori dei due pricipali sistemi economico-organizzativi sviluppatesi nella modernità occidentale, quelli capitalistico-liberale, a forte vocazione mercantile e quelli socialisti-collettivisti, fortemente incentrati su di un dirigismo statale.

La caduta del cosiddetto “blocco comunista”, quindi il sostanziale disfacimento dei sistemi economici dirigisti e la conseguente “vittoria” delle politiche neoliberali inaugurate tra le due sponde dell’Atlantico, hanno determinato un rivoluzionamento delle economie su scale planetaria ed un trionfo del sistema capitalistico di mercato svincolatosi definitivamente dal controllo politico-statuale e, quindi, trasformatosi immediatamente nella principale forza di cambiamento sociale e culturale.

In questo senso, la globalizzazione come fenomeno primariamente economico determina un’intensificarsi dei traffici commerciali, ma anche di uomini e di comunicazioni “all over the world”, ovunque nel mondo.

I flussi globali del capitale portano con se flussi umani i più disparati, dagli uomini d’affari, ovunque bene accetti, ai reietti e ai profughi di ogni guerra e di ogni miseria. Le immagini del mondo opulento scavalcano ogni barriera e arrivano ovunque rapidamente grazie ai satelliti e alle telecomunicazioni. Il mondo si fa piccolo e diventa una sorta di «Villaggio globale» (tanto per riprendere la nota metafora di McLuhan) nel quale, potenzialmente, tutti possono essere in contatto con tutti: lo spazio ha smesso di essere un ostacolo e la dimensione temporale si riduce all’immediatezza dell’istante. Questi movimenti e queste comunicazioni estese a tutto il mondo determinano uno scambio culturale e simbolico veicolato dalla relazione personali, come dalle merci e dalle comunicazioni impersonali, pubblicitarie e di servizio fortemente connotate da quelle stesse culture già fortemente definite da sistemi economici di tipo capitalista, come ad esempio gli Stati Uniti d’America. Dal punto di vista culturale la globalizzazione si tradurrebbe quindi in dinamica di uniformazione e omogeneizazione delle culture su di una unica indistinta cultura globale. Come affermava Marx: «la borghesia modella il mondo a sua immagine e somiglianza».

Ma qual è questa immagine? Ovvero, in cosa consiste l’essenza omologante, se esiste, della globalizzazione?

Attraverso l’estensione della rete di comunicazione di cui ha bisogno per i propri affari, la nuova borghesia mondiale porterebbe a termine un modello di «omogeneizzazione» culturale da molti identificata con una sorta di «americanizzazione», dato che gli Stati Uniti vengono identificati dai post-marxisti come il paese “imperialista”.

La cultura “yankee”, quella della Coca-cola e dei cow-boys, di Happy days e dei Fast-

food, delle Star di Hollywood, dell’individualismo egoistico, del denaro e del successo

rappresenterebbe, quindi, la monocultura dominante che imponendosi con il processo di globalizzazione, sarebbe una delle principali cause dell’anomia e della standardizzazione globale imperante.

La cosiddetta mcdonaldizzazione del mondo (Ritzer 1997) corrisponderebbe, secondo Beck, esattamente a questo modello: «essa indica una sempre più marcata tendenza all’universalizzazione, nel senso di una progressiva unificazione degli stili di vita, dei simboli culturali e delle maniere transnazionali di comportamento» (199, p. 63). Tale modello comporterebbe, ad esempio, che «in un villaggio della Bassa Baviera così come a Calcutta, a Singapore o nelle favelas di Rio de Janeiro vengano consumate le serie televisive di Dallas, indossati i blue jeans e fumate Marlboro […]» (ivi). Secondo questa «utopia negativa», come la definisce Beck, «l’industria culturale globale significa sempre più convergenza di simboli culturali e forme di vita» (ivi).

L’accusa di neoimperialismo economico e culturale spesso avanzata nei confronti dei paesi capitalisti che guidano, almeno culturalmente, la globalizzazione, non ha tuttavia retto la verifica dei fatti. Ben presto ci si è resi conto che la globalizzazione non rappresenta in senso stretto un fenomeno di imperialismo (almeno come lo si era conosciuto nel XIX secolo). I singoli stati nazionali, infatti, non si pongono più alla testa dei processi economici, per quanto possano favorirli. Nella globalizzazione odierna sono istanze direttamente private, per lo più società per azioni multinazionali, a dettare la direzione del processo economico globale e, anzi, molto spesso gli stati sono visti come vincoli di cui liberarsi piuttosto che utili alleati.

Inoltre, appare del tutto superato l’etnocentrismo ideologico che caratterizzò tanto il colonialismo che l’imperialismo tradizionali. La globalizzazione è dominata per lo più dalle mere forze del mercato che, quando occorre, si piegano docilmente alle declinazioni culturali dei paesi o delle popolazioni ove si trovano ad operare.

Lo stesso Beck contrappone una visione meno “deterministica”, per cui, nel “libero flusso delle informazioni” globali, si creerebbe una forma di resistenza o quantomeno di “selettività” nei confronti del segnale o, in questo caso, dei segni e simboli della cultura cosiddetta dominante (Cfr. 2002, p. 65).

Come scrive ancora il sociologo tedesco, «I cultural studies respingono l’immagine di singole società separate e dei loro corrispondenti spazi culturali e descrivono un processo immanente e dialettico di globalizzazione culturale nel quale divengono

possibili e reali cose contemporaneamente contrapposte» (Beck 1997, p. 65).

Per cui, seguendo le linee tracciate dalla Cultural Theory, anche secondo Beck «globalizzazione culturale non significa che il mondo diviene culturalmente omogeneo» (1997, p. 50), bensì che si trova in balia di forze transnazionali diversificate, tra le quali figurano “anche” gli Stati-Nazionali. Gli attori in gioco sono essenzialmente tre: gli Stati-Nazionali, la società civile globale e le forze economiche trasnazionali (Cfr. Ghisleni e Privitera 2009, p.60). Queste forze transnazionali fanno in modo che il territorio globale sia attraversato da forze molteplici in quanto tutti questi soggetti sono in grado di agire in forma differente alle sfide della globalizzazione e di mettere in atto proprie strategie.

La prima, anche in termini di tempo e portata, è stata sicuramente quella degli attori economici transnazionali46. Tuttavia, la risposta organizzata della «società civile globale» non si è fatta certo attendere e ovunque sono sorte Organizzazioni non governative (ONG) transnazionali e movimenti di protesta anti globalizzazione (tipo Seattle) che hanno iniziato a operare anch’essi - seppur spesso con mezzi limitati - sul piano globale della sub-politica che, al pari dell’azione delle multinazionali, sfugge in gran parte ad una legittimazione democratica e assume piuttosto forme minoritariamente organizzate di “resistenza” dal basso.

In questo senso la globalizzazione assume tinte meno fosche e, piuttosto che presentarsi come un processo di progressiva omogeneizzazione culturale, può definirsi sempre più come una sorta di dialettica tra culture, anche se certo non direttamente democratica in senso universalistico. All’interno di tale dialettica si contrappongono comunque le spinte spesso divergenti della «razionalità strumentale» propria del sistema economico da un lato, e quelle di una «razionalità comunicativa», propria degli spazi pubblici, dall’altro47.

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