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La spettacolarizzazione dell ’ esistenza

Etica romantica e socializzazione dell ’ esperienza di consumo

4. Una vita spettacolare

4.1 La spettacolarizzazione dell ’ esistenza

La crescente differenziazione e autonomizzazione delle sfere del consumo (Di Nallo 2004) permette all’individuo postmoderno un gran numero di esperienze di consumo diversificate e sempre nuove, attraverso le quali può mutare continuamente la propria apparenza conservando, nel profondo, la propria intima identità e adattandola di volta in volta alle diverse sfaccettature della dimensione sociale che si trova a vivere.

Questa esperienza si articola in una crescente successione di ruoli sociali e di esperienze in gran parte mediate dalla cultura di consumo, entro la quale l’individuo propone

esige il massimo rispetto e l’impresa può sperare di introdurvisi, per così dire, solo in punta dei piedi, conquistando, se vi riesce, una quota parte consistente del valore simbolico del gruppo e una posizione di rilievo all’interno delle sue logiche di consumo.

33 Un esempio emblematico è fornito dal caso della Apple, la famosa azienda informatica di Cupertino. Da sempre la Apple contrapponeva i propri prodotti, di nicchia, alla più attestata Microsoft. Mentre la prima aveva la propria nicchia nei prodotti altamente professionali, la seconda aveva la fetta maggiore di mercato con prodotti generalisti e di massa. A partire dal lancio dei nuovi prodotti Apple come l’iPod, l’iPhone e, in fine, l’iPad, la Apple è stata accusata dalla propria community di essersi “commercializzata”.

continuamente un oscillante andirivieni tra scena e retroscena, tra manifestazioni del sé e tutela del proprio sé più intimo in una duplicità che conferisce alla vita e all’esperienza quel tipico carattere moderno di “messa in scena” scoperto da Goffman (1959).

Ma questo moltiplicarsi degli ambiti di esperienza non mina per nulla l’unità del sistema ma anzi non fa che rafforzarlo.

Tanto più la società postmoderna si fa, per così dire, «policentrica»34, tanto più la cultura di consumo si va differenziando al suo interno in sfere sempre più autonome (Di Nallo 2004). Tuttavia, tale differenziazione, se apparentemente può apparire come il superamento di una società di massa indistinta, la piena realizzazione dell’uguaglianza nella differenza, in realtà non significa altro se non che il consumo ha raggiunto in fine ogni sfera della vita: «L’estensione è sempre anche diversificazione» (Carmagnola 2004, p. 52).

Mentre le dimensioni del consumo si autonomizzano, il consumatore postmoderno, immergendovisi, regala ogni manifestazione di originalità individuale, presto carpita dal circuito commerciale per trasformarsi in innovazione di prodotto, in moda, in trend35, e i testimonial migliori di questi stessi trend vengono a loro volta prontamente cooptati all’interno di un rinnovato star-system funzionale agli interessi commerciali ma che cerca, in maniera inedita, di mettere al centro proprio il singolo individuo36.

Come nota Carmagnola: «L’innovazione sociale del costume viene trasferita nel fashion system con una impressionante rapidità, e in una sorta di loop le invenzioni del fashion e del design vengono travasate continuamente, attraverso i racconti della comunicazione, dell’editoria specializzata e della pubblicità, nelle abitudini sociali» (2004, p. 52).

Ma se prima lo star-system era limitato ad una schiera ristretta di personalità del cinema e dello spettacolo, cioè da una ristretta élite che, seppur «senza potere», poteva comunque contare quantomeno su di una disponibilità economica di tutto rispetto e soprattutto su forme di vera e propria idolatria di massa, la grande innovazione contemporanea sta nel fatto che, oggigiorno, lo star-system si è per così dire democratizzato e il suo slogan implicito tende ad essere: “You are the star!” O, meglio ancora: “I am the star!”37.

34 Di Nallo (1998) assume la posizione di Vincenzo Cesareo (La società flessibile), il quale sostiene il passaggio dal monocentrismo al policentrismo esistenziale il quale, radicato nella struttura sociale, si ripercuote nell’ambito appunto esistenziale e, quindi, nell’ambito simbolico dei consumi.

35 Come sostenuto da Bauman, «Essere in anticipo nell’ostentare i segni delle figure emblematiche, delle mode del branco, è l’unica ricetta sicura per convincersi del fatto che il branco prescelto ci riconoscerebbe e ci accetterebbe senz’altro, se fosse al corrente della nostra esistenza» (2007, p. 16). 36 La figura paradigmatica di questa ricerca spasmodica di carpire le “tendenze” del mondo sociale per

reintrodurle prontamente nel processo produttivo (materiale e simbolico), è il cool hunter. Scrive Carmagnola in merito: «il cool hunter è un po’ flâneur, un po’ antropologo: cndivide le abitudini e i costumi che osserva, vi partecipa, e nello stesso tempo mantiene un distacco cinico che gli permette di ricavare indicazioni circa la potenziale forma-valore di ciò che gli sta di fronte. […]. Si tratta a tutti gli effetti di un agente dell’economia del simbolico e dell’immaginario, che trasformerà ciò che ha osservato direttamente sul campo in una nuova fiction, o in prodotti che sono aggregati di narrazioni e di abitudini estetiche» (2004, p. 51).

37 Le strategie comunicative delle grandi aziende di beni di consumo di massa è quella di superare ogni delimitazione tra mondo aziendale e mondo del consumo. Quindi la tendenza, abbracciata per primi

Di pari passo con l’attenzione crescente alla propria singolarità individuale, viene a cadere anche la tendenza all’identificazione con le star che, infatti, vengono sempre più umanizzate piuttosto che idealizzate, mentre, contemporaneamente, si sposta l’attenzione sugli individui, sui fruitori, sul pubblico, facendolo, per quanto possibile, sempre più diventare protagonista di un’esperienza al cui centro ci sia sempre e solamente l’Io dell’individuo: è questa, in altri termini, la grande scoperta del «marketing esperienziale» definito e sistematizzato per primo da Pine e Gilmore (2000). Si tratta, in questo senso, solo dell’ultimo sviluppo della «società dello spettacolo» intuita già oltre quarant’anni fa da Guy Debord (1967), la quale non è che la manifestazione più eclatante di una società demassificata ma tuttavia ancora imperniata attorno al consumo, il quale, andando via via smaterializzandosi in forma culturale (e divenendo, in fine, cultura di consumo), finisce per abbracciare la vita stessa rendendola a sua volta “consumabile”, facendone cioè “spettacolo”.

Abbiamo già avuto modo di notare come i topoi dell’industri culturale tendano a pescare ampiamente all’interno della vita privata e intima degli individui mettendola in qualche modo in scena, esaltando modelli impliciti di successo e di vita felice. Di conseguenza, gli individui stessi tendono a spettacolarizzare le loro relazioni intime affinché, apparendo alla luce della sfera semi-pubblica (o pseudo-pubblica) commercializzata, assumano una sorta di statuto di maggior realtà. In questo senso, il pubblico tende a diventare sempre più il protagonista diretto: non è più la vita privata ed intima più o meno idealizzata ad essere messa in scena, bensì la vita reale, così spettacolarizzata, a farsi direttamente spettacolo e, quindi, oggetto di consumo.

La critica più pregnante in tal senso viene dal cinema d’autore. The Truman Show, un film del 1998 di Peter Weir, interpretato da un inedito Jim Carrey, ne è l’esempio forse più mirabile. Esso rappresenta il paradigma in forma artistica di quello «spettacolo integrato» che in Debord esprimeva la sintesi dialettica e il superamento delle due forme spettacolari della società moderna, quella «diffusa» a carattere commerciale delle democrazie liberali e quella «concentrata» propria degli apparati di propaganda totalitari (Debord 1967).

The Truman Show è un film che porta all’estremo la moda nata negli anni ‘90 (e non

ancora defunta), dei Reality show, forse l’apoteosi della spettacolarizzazione dell’esistenza e la forma più compiuta di quel travaso tra vita privata e pubblica, intimità e spettacolarizzazione, che fece pronosticare ad Andy Warhol l’avvento di un’era in cui ciascuno avrebbe avuto «il suo quarto d’ora di notorietà» e che mirabilmente è rappresentata, in forma tragica, nel film.

Il protagonista, infatti, vive fin dall’infanzia e a sua insaputa un gigantesco reality, dove la vita stessa, e non già una piccola porzione di essa, diviene spettacolo e, in quanto tale, diventa automaticamente tutta una enorme, incredibile menzogna e l’identità stessa del protagonista, nel disvelarsi di tale menzogna, perde improvvisamente ogni senso.

dalla Apple, è quella di sostituire la seconda persona singolare “tu”, con cui normalmente, cioè in maniera informale, una persona o un organizzazione si rivolge ad un’altra persona o organizzazione, direttamente con la prima persona singolare “io”. Io infatti è il protagonista indiscusso della post- modernità e della cultura del consumo. Il consumatore è diventato “re” (Fabris 2010) e quindi, anche quando parla l’impresa deve essere come se parlasse il consumatore in prima persona.

Nel momento in cui diventa rappresentazione e messa in scena, nel momento stesso cioè in cui si perde ogni ambito di intimità, la vita si fa direttamente spettacolo e, in quanto tale, direttamente consumabile. Nel momento in cui è la vita di ciascuno ad essere messa in scena, cade anche ogni barriera tra vita e rappresentazione, tra vita e spettacolo, tra vita e sua commercializzazione.

Non appena cade il velo della rappresentazione e la vita si fa direttamente spettacolo, non c’è più nulla che ci protegga da quel sentimento di manipolazione e “intrusione” che ci faceva pur sempre percepire una distanza tra vita reale e ciò che ci volevano propinare i “persuasori occulti”.

Quello che è ancora presente nel film di Weir, infatti, è l’idea che esista pur sempre la possibilità di uscire dalla scena che ci hanno preparato e che il primo passo possa e debba essere la “presa di coscienza”38.

L’inadeguatezza esistenziale sorgeva qui dalla percezione di essere invischiati in un processo sovraindividuale percepito come artificiale, che ci riguarda ma che allo stesso tempo ci sovrasta, preparato da una regia che non possiamo vedere ma che sembra mobilitare tutto ciò che ci sta intorno in una grande, surreale, messa in scena.

Quel «ricordo del desiderio di felicità» che secondo i teorici critici rimaneva l’unica possibilità nascosta nell’intimo di una resistenza possibile contro il sistema totalitario del consumo e dell’industria culturale, viene però a cadere attraverso la compiuta realizzazione, nell’epoca postmoderna, di un’alleanza totale di vita e spettacolo, di vita e consumo. E mentre quest’alleanza si fa totale, a trionfare è sempre e solo la cultura del consumo. Quello che c’è di nuovo, casomai, è che cade la percezione del dominio. La relazione si capovolge e, come abbiamo detto, si muove su di un piano di assoluta orizzontalità.

In questo modo l’individuo postmoderno ha potuto, per così dire, lasciarsi andare nel gioco consumistico senza più sensi di colpa, senza più la sensazione di essere dominato ma di dominare. E tanto più la propria identità si è andata esprimendo nella sfera dell’esperienza in maniera spettacolare, tanto più il consumo ha guadagnato spazio nella vita.

In The Truman Show il protagonista era ignaro di vivere all’interno di uno spettacolo e l’orizzonte in cui esisteva era esattamente quello della manipolazione, a cui tutti sul set della sua vita partecipavano39.

Nella società postmoderna l’orizzonte diventa, invece, più propriamente quello de Il

Grande Fratello, cioè della partecipazione spontanea, della complicità, del

protagonismo in prima persona. Come riconosce Bauman, «Il Grande Fratello non è una fotografia, una copia o una replica dell’odierna realtà sociale. Ne è però il suo modello condensato, distillato, purificato; potremmo dire che è un laboratorio in cui certe tendenze di quella realtà sociale, altrove nascoste, diluite o represse, vengono sperimentate e messe alla prova in modo da sviscerare il loro pieno potenziale» (2006,

38 Allo stesso modo, la Scuola Critica muoveva sullo stesso piano, sul piano in cui muoveva Marx, quello della presa di coscienza come prodromo all’azione. Nei francorfortesi rimaneva pur sempre la possibilità del «grande rifiuto».

39 Tranne, ad un certo punto, la ragazza che doveva recitare la parte del suo primo amore la quale, avendo pietà di lui, fu prontamente estromessa.

p. 57).

Quello che Bauman non sottolinea abbastanza, ma cui accenna implicitamente, è la natura volontaristica delle “cavie”40. Nessuno si scandalizza della “vetrinizzazione della vita”, della vita resa spettacolo, in quanto è una tendenza già insita nella postmodernità, l’ideale di una spettacolarizzazione crescente dell’esperienza intima che trova prontamente una industria atta a realizzarla. Si tratta di un’inversione tra offerta e domanda, tra produzione e consumo. Se la cultura «non è più sovrastruttura, ma una delle strutture produttive» (Carmagnola 2004, p. 43), questo avviene attraverso la spettacolarizzazione dell’esperienza e, in definitiva, della vita.

Come afferma Debord, «lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (1967, p. 64). E, aggiungiamo noi, alla fine coincidere con la vita, da consumare sotto forma di esperienza: non si tratta più di esperienze di consumo, ma di consumo di esperienze.

La prospettiva propria di tutte le avanguardie artistiche della modernità, cioè quella di «fare della propria vita un’opera d’arte» diventa finalmente, dopo tanto tempo di maturazione, la prospettiva collettiva della cultura postmoderna, la quale trova nel “consumo” di sempre nuove esperienze la sua massima realizzazione.

Il ritratto della vita di ciascuno viene dipinto come su di una tela attraverso un rapido susseguirsi di esperienze e la tela sarà tanto più completa quante più esperienze si sarà riusciti a imprimervi e tante più sfumature cromatiche queste esperienze potranno apportarvi.

La vita come pastiche e come collage è, infatti, la metafora che più viene usata e che più corrisponde all’ideale della cultura postmoderna. Peccato solamente che, alla fine, il dipinto rischi di assomigliare ad uno di quei dipinti modernisti che non hanno ne capo ne coda e che solamente di rado riescono a restituire qualcosa di diverso dal totale ermetismo di un’individualità intima completamente ed emotivamente conchiusa in se stessa.

La spettacolarizzazione dell’esperienza di consumo significa, in definitiva, che è la vita stessa, fatta spettacolo, ad essere consumata e che il consumo materiale diventa un mero accidente dell’esperienza: il vero fine è esperire, non primariamente consumare41.

La spettacolarizzazione della vita, cioè la sua coincidenza con l’ideale della vita come opera d’arte, rischia però di divenire un esercizio completamente autoreferenziale, una tela del tutto personale della quale solo noi stessi finiamo per compiacerci.

40 Se è vero, infatti, che è previsto un premio in denaro per il vincitore scelto dal pubblico, è anche palese che l’assalto ai provini per accedere “alla casa” e le manifestazioni di isteria di massa attorno all’evento, lasciano presumere che il premio rappresenti solo un incentivo in più, o addirittura una sorta di specchietto per le allodole, un modo di giustificare la partecipazione allo show al di là del mero protagonismo esibizionista che, se troppo palese, è ancora stigmatizzato in larga parte della società.

41 L’ultimo lavoro, ancora inedito di Michel Maffesoli, il sociologo del nomadismo e delle neo-tribù postmoderne, si intitola Homo eroticus, a sottolineare proprio l’avvento di questo nuovo tipo antropologico legato all’altro quanto mai da tensioni erotiche, «momenti di comunione emotiva», come le definisce lo stesso Maffesoli nell’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica del 13 agosto 2012 (p. 33). In questo senso, le relazioni e le esperienze che questa «ordo amoris», va costruendo sono di stampo ampiamente intimo e personale e non fondano il soggetto nel mondo ma solo in relazione all’altro in una serie infinita di incontri ed esperienze private esibite in pubblico.

Nel tentativo di portare a termine l’opera d’arte della nostra vita, rinunciamo spesso a viverla semplicemente. Inoltre, cosa forse ancora più grave, è che in questa sorta di personalissimo spettacolo, gli “Altri” tendono come a scomparire sullo sfondo, come una sorta di comparse occasionali.

Autori dallo sguardo raffinato come Zigmunt Bauman, nell’osservare il comportamento di questo «sciame inquieto» di individui, si chiede infatti che fine possa fare «l’etica in un mondo di consumatori».

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