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Pratica turistica come ricerca dell ’ autenticità

TURISMO COME CONSUMO E COME ESPERIENZA

2. Il significato sociale del consumo turistico

2.2 Pratica turistica come ricerca dell ’ autenticità

Contro la presunta impossibilità di definire una etnografia della modernità va dichiaratamente lo sforzo analitico di Dean MacCannell (2005), il quale rinviene nell’attività turistica lo slancio individuale verso il contesto sociale, ovvero il tentativo individuale di ricomporre la modernità in unità di senso collettivo111.

Anche la tesi di MacCannell, infatti, parte proprio dal presupposto che lo sviluppo turistico moderno risponda ad un bisogno recondito di senso dell’individuo il quale si muove all’interno di una società altamente differenziata e funzionalmente organizzata nella quale, seguendo la nota tesi di Durkheim, verrebbe meno la capacità di ricondurne il senso ad unità, per cui alla tradizionale «solidarietà meccanica» rappresentata tradizionalmente dalla religione, si sostituisce una «solidarietà organica» vincolata soltanto alla mera organizzazione societaria basata sulla crescente divisione del lavoro

109 Asterio Savelli imputa ai «processi combinati che portano a crescenti livelli di complessità e di globalizzazione» il venir meno di un’univoca immagine «del sistema di relazioni in cui il soggetto si colloca» causa a sua volta del destabilizzarsi di quella «simbologia mitica instaurata tra Settecento e Ottocento» che contribuiva a conservare «una precisa polarizzazione del territorio, tra un Centro e una Periferia, corrispondente ad un’altrettanto precisa gerarchizzazione delle posizioni sociali» (2008, p. 12).

110 Ragone G., 1998, Turismo, “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, http://www.treccani.it/enciclopedia/turismo_(Enciclopedia_delle_Scienze_Sociali)/

111 Un tentativo che, secondo lo stesso MacCannell è destinato a un probabile fallimento. Infatti, anche se cerca di costruire delle totalità, «il turista moderno celebra in effetti la differenziazione» (2005, p. 17). In questo senso, MacCannell riconosce l’avvenuta impossibilità di tornare ad unità, ma ciò non determini una tensione in tal senso che si esplica proprio nel turismo.

sociale.

Come afferma esplicitamente MacCannell: «La mia analisi del viaggio turistico è basata sulla differenziazione socio strutturale, [con la quale] intendo designare la totalità delle differenze tra classi sociali, stili di vita, gruppi razziali ed etnici, livelli di età (i giovani, gli anziani), gruppi politici e professionali e la rappresentazione mitica del passato al momento presente» (2005, p. 15).

In altri termini, quello che suggerisce l’autore de Il Turista, è che ciò che anima in gran parte il turismo contamporaneo è il tentativo di superare la frammentazione – e quindi lo sradicamento e l’anomia - della società moderna, il tentativo di contenerla se non di riportarla ad unità: «ho scoperto – afferma infatti MacCannell – che il viaggio turistico è un rituale celebrato per la differenziazione della società. Il viaggio turistico è una specie di sforzo collettivo per una trascendenza della moderna totalità, un modo di tentare di superare la discontinuità della modernità, per incorporare i suoi frammenti entro un’esperienza unificata» (ibidem, p. 17).

Un esempio paradigmatico è fornito da MacCannell attraverso qualla particolare vocazione turistica che egli definisce «esibizione del lavoro» (work display), cioè quel tempo libero dedicato alla visita e alla celebrazione del lavoro, dei luoghi e delle realizzazioni del lavoro sociale attualmente così parcellizzato che solo nell’opera finita torna ad assumere un proprio senso unitario. Come spiega MacCannell, infatti, «Sia il lavoro umano che quello meccanico possono essere spostati ed esibiti come un prodotto finito: un’opera. […] [Mentre] Il lavoro trasforma la materia prima in oggetti d’uso; la modernità sta trasformando il lavoro in produzioni culturali» (ibidem, pp. 40 e 41). Come produzione culturale, come “opera” finita, il lavoro può essere quindi ricomposto ed esibito e, in tal modo, fornire il senso dell’unitarietà perduta superando l’alienazione propria del sistema razionalistico basato sulla crescente differenziazione funzionale. Proprio per questo, vuole suggerire quindi MacCannell, esso diventa un’attrazione turistica.

In questo senso, l’attività turistica rappresenterebbe una sorta di secolarizzazione di quelle “forme elementari della vita religiosa” già indagate da Durkheim (1912) tanto che la molla che muoverebbe il turista sarebbe, quindi, la ricerca dell’autenticità perduta, intesa come ciò che di reale o di essenziale, rimane una volta tolto di mezzo – verrebbe paradossalmente da dire la sovrastruttura112 – delle relazioni economiche, dei ruoli da essa definiti, della finzione commercialmente predisposta.

D’altronde, l’ambito urbano è sempre più “meticcio”, attraversato da mutevoli contesti, etnie, diversità e subculture e persino i luoghi che siamo soliti frequentare non rimangono più gli stessi a lungo. Il diktat del mutamento, del metamorfismo, abbraccia i luoghi del consumo e del divertimento, i quali devono mutare proprio per poter offrire nuove esperienze “senza muoversi da casa”, proprio in quanto sono essi stessi divenuti (iper)merce.

112 In questo senso, infatti – capovolgendo la classica dicotomia marxiana – sarebbero le strutture economiche ad ergersi, con la crescente invadenza della propria logica in ogni ambito vitale, al di sopra di una struttura “autentica” occultandola e necessitando la determinazione di un tempo consacrato alla ridefinizione e alla riscoperta di quella stessa autenticità perduta che è il tempo turistico e della vacanza.

La dimensione esperienziale è, infatti, al centro del consumo contemporaneo, quindi, è anche per questo che, in un certo senso, ci possiamo sentire in ogni momento, nella vita di tutti i giorni, sempre un po’ turisti. Tuttavia, bisogna osservare come a mutate condizioni dell’esperienza quotidiana muta, di conseguenza, anche il senso del fare turismo e dell’essere, quindi, turista, un significato che si staglia a partire dall’ordinario della vita quotidiana.

In un certo qual modo, quindi, di contro ad un tempo libero “profano”, passato immerso in contesti inautentici, il tempo libero della vacanza, dedicato al viaggio e al turismo, rappresenterebbe una dimensione sacrale che si staglia dal regno del calcolo strumentale, della ripetizione grigia e sempre uguale che non suscita più nuove emozioni; un tentativo di fuggire una realtà percepita come sempre più finta e “costruita” a tavolino, un processo che spesso si snoda inevitabilmente sotto i nostri stessi occhi e che ci impedisce di fissare alcunché come “autentico”.

Per questo l’autenticità diverrebbe il valore “sacro” ricercato nell’attività turistica dalla nuova leisure class contemporanea, un valore che avrebbe a che fare con la voglia e la necessità di quel «reincatamento del mondo» di cui parla George Ritzer (2000) quale risposta ad una realtà altamente razionalizzata e, proprio per questo, “disincantata”. Un reincantamento che, come sottolinea lo stesso Ritzer, passa spesso proprio attraverso le costruzioni dell’industria culturale, dell’entertainment e dei luoghi di consumo e, quindi, che non corrisponde in alcun modo a nulla che si possa definire “autentico”, almeno nel senso usuale con cui intendiamo tale termine.

L’autenticità ricercata nell’attività turistica non avrebbe quindi tanto a che fare con la sospensione volontaria della credulità, come può essere il caso del reincantamento “tutto lustrini e paillettes” dei centri commerciali, bensì con la ricerca di una dimensione il più possibile vera, non mediata da alcun “apparato”.

In questo senso MacCannell riprende infatti, quasi obbligatoriamente, Goffman (1959) indicando l’esistenza di una «back region» dei luoghi turistici nella quale i locali vivono e agiscono le loro relazioni quotidiane e, per così dire, autentiche, contrapposta alla «front region» che rappresenta la scena opportunamente preparata per il turista e all’interno della quale i locali recitano i loro ruoli in un’ottica prevalentemente di servizio.

Andare quindi al di là della relazione di servizio significherebbe avvicinarsi alla dimensione autentica delle altrui vite ed esperire quelle dinamiche relazionali relegate, nel quotidiano, alla dimensione privata. Significa anche, chiaramente, una certa violazione dell’altrui privacy, solo modo d’altronde per vivere in prima persona l’esperienza della realtà. Infatti, oggi giorno l’esperienza di ciascuno è ampliata a dismisura grazie all’informazione e alle immagini che arrivano da ogni parte del mondo, eppure, si tratta sempre di un’esperienza mediata, di un racconto della realtà113. Di fronte a questa situazione si può pensare quindi ad un crescente scollamento tra informazione, nozioni o immaginario e realtà, un gap che può richiedere la necessità di

113 Come ci spiega Gili (2001), nell’ambito della comunicazione mediata il sospetto di maipolazione è pressoché ineliminabile, mentre Baudrillard ci parla di un costante riferimento ai simulacri creati dal proliferare del commercio e dei consumi.

essere colmato. Il turismo allora avrebbe a che fare proprio con tale necessità, con il bisogno, di tradurre per così dire esperienze mentali in esperienze di “vita vissuta”. Alla stregua di quanto sostenuto da Urry (1995) allora, i sogni ad occhi aperti di cui parlava Campbell e che alimenterebbero, nel turismo più ancora che in altri ambiti, il consumo contemporaneo, lungi dall’essere il prodotto di un individuo autoillusorio, verrebbero costantemente alimentati dalla pubblicità commerciale e dal lavoro creativo della classe di servizio.

Nonostante quindi la necessità di ricercare per così dire la realtà vera, la ricerca dell’autenticità si risolverebbe molto spesso nella ricerca di ciò che il turista ha già visto come realtà simulacrale riprodotta per lui dall’industria culturale del viaggio, una riconferma di ciò che si aspettava di trovare. Come spiega sempre Urry, in gran parte delle attività turistiche è implicitamente presente e si manifesta una specie di «circolo ermeneutico»: «ciò che si cerca in una vacanza è un insieme di immagini fotografiche, come quelle delle brochure delle compagnie turistiche o dei programmi televisivi. Quando il turista parte, continua a seguire le tracce e a catturare da sé quelle immagini. E il circolo si chiude con i viaggiatori che possono provare di essere veramente stati in quel luogo, mostrando la loro visione delle immagini che avevano visto prima di partire» (ibidem, p. 197).

Il turista torna, in questo senso, a ridursi a poco più del mero sightseer per il quale, anzi, molto spesso la ricerca di quelle stesse visioni “autentiche” si rivela addirittura una delusione: il puzzo dei canali di Venezia che in qualche modo ne rovina l’atmosfera romantica che ci si poteva aspettare o la torre di Pisa che, come affermano molti visitatori, “sembrava più alto in fotografia”, testimoniano tutte il trionfo del simulacro, della copia vissuta come più vera dell’originale.

A volte, non è neppure necessario che certe “attrazioni” esistano veramente. Esse possono essere frutto della fantasia di un artista, di uno scrittore, un semplice riferimento culturale o legati alle narrazioni ampiamente create e diffuse dai media nella loro funzione di storytellers. Eppure, molto spesso i riferimenti a tali realtà possono finire ugualmente per diventare marker114 fondamentali di un luogo turistico, tanto da essere magari ricostruiti o rappresentati ex-post, in maniera artificiale, al solo fine di diventare attrazioni: si pensi, ad esempio, a cosa sarebbe la Transilvania senza l’immagine del Castello di Dracula, che, proprio per questo, in Romania è ripreso, rappresentato, ricostruito e offerto al turista in tutte le salse, scatenando, per di più, una classica rincorsa all’offerta del sito turistico maggiormente “autentico”115.

Ciò che appare immediatamente chiaro, mi sembra, - e che in effetti è stato uno dei temi

114 MacCannell elabora una sofisticata semiotica dei luoghi turistici fondata proprio sul concetto di marker, inteso come «frammento informativo» che può assumere le forme più svariate ma che avrebbe esattamente il compito di attribuire ad una sight (una veduta) lo status di “attrazione”. Parleremo più diffusamente di questo nel paragrafo dedicato all’immaginario turistico.

115 Un’offerta turistica pubblicizzata su un sito internet come “Dracula e Transilvania Tour” offre, ad esempio notti in un Hotel del 1983 «costruito nello stile di un palazzo medievale, che è stato creato per portare vivo un’autentica atmosfera di Dracula»; mentre un’altra offerta offriva, meno prudentemente, «visite presso l’autentico castello di Dracula» seppure il castello di Vlad III, detto “Tepes” (l’impalatore), personaggio storico cui Stocker si sarebbe ispirato non esista più, mentre quello spesso citato come il Castello di Dracula sarebbe il Castello di Bran, cui Stocker si sarebbe ispirato per scrivere il libro.

maggiormente dibattuti in merito alla teoria di MacCannell sull’autenticità – è la definizione stessa di “cosa autentica”. Senza addentrarci troppo in tale querelle, ci preme soprattutto notare alcuni riferimenti e declinazioni possibili date al termine “autentico”.

Monica Gilli (2009), in particolare, riprendendo criticamente le riflessioni di Ning Wang (1999), ha descritto tre significati di “autenticità”: «oggettiva», «costruttiva» ed «esistenziale».

Nel primo significato l’autenticità si riferisce soprattutto ad un oggetto, un artefatto o anche un luogo presunti autentici. Si tratta ad esempio del vero letto di Napoleone, della vera spada di Alessandro Magno, della vera casa di Leonardo da Vinci, ecc. Un significato di autenticità che sembrerebbe il più inattaccabile perché il più delle volte supportato dalla ricerca storica o altra fonte autorevole. Tuttavia, la Gilli sottolinea come, anche in questo caso, la definizione possa apparire controversa in quanto la natura spesso “museale” con cui vengono presentati questi reperti li astrae dal loro contesto intaccandone in qualche modo l’essenza autentica e, comunque, anche la loro consacrazione come autentici deriva, in fin dei conti, da una definizione tecnico- scientifica che è anch’essa in qualche modo un costrutto sociale, come d’altronde gli istituti cui è riconosciuta l’autorità per il giudizio in merito.

Anche questa prima forma di autenticità, quella che poteva sembrare la base più solida per una definizione, in realtà slitta, per così dire, verso un secondo significato di autenticità, quella che abbiamo definito «costruttiva» (o simbolica). In questa seconda accezione l’autenticità ha maggiormente a che fare con la “costruzione sociale della realtà”, con riferimenti in particolare ai “simulacri” definiti da Baudrillard (1974;1980), cioè rappresentazioni sociali dell’oggetto che finiscono per assumere uno statuto di realtà superiore all’oggetto stesso, una condizione di vera e propria “iper realtà”. L’autenticità costruttiva, a differenza di quella “oggettiva” può, quindi, avere intensità diversa e perciò si parla anche di «autenticità negoziabile» (Cohen 1988). Ovviamente, queste considerazioni che si riallacciano a quanto già discusso precedentemente attorno alle immagini che il turista già possiede dell’attrazione, se spinte all’estremo della trattazione post-modernista rischiano per finire col disarticolare interamente la dicotomia tra autenticità e imitazione (Gilli 2009).

L’ultima dimensione dell’autenticità approfondita dalla Gilli è quella «esistenziale» che riguarderebbe la percezione soggettive, al limite intime, del soggetto che percepisce l’oggetto o vive una dimensione esperienziale. Nella sua declinazione per dir così “forte” questo paradigma definisce l’autenticità come «uno stato speciale dell’essere in cui si è veri con se stessi, e che agisce come antidoto alla perdita del “Sé vero” che avviene nei ruoli pubblici e nelle sfere pubbliche all’interno della moderna società occidentale» (Wang 1999, p. 358).

Questa definizione di autenticità, quindi, ci avvicina maggiormente ad un paradigma individualistico che si gioca, come già accennavamo, tra «ruolo» e «distanza dal ruolo», intesa quest’ultima, con Goffman, come la sede in cui l’individuo cerca di esprimere al meglio quello che egli ritiene essere il proprio sé autentico. Ovviamente, a differenza che in Goffman, la presunzione dell’esistenza di un true self al di là dei ruoli sociali diventa al quanto complicata da trattare sociologicamente, a meno che non si abbandoni

tale pretesa per considerare piuttosto la relazione dialettica tra soggettività e sfera sociale. In questo senso è possibile riferirsi alla «Teoria relazionale» (Archer 2006; Donati 2002) la quale considera differenti livelli, da quello della relazionalità soggettiva (dialogo interiore) a quella con il proprio ruolo sociale, con il proprio gruppo sociale e, in fine, con gli altri gruppi della società. In questo caso la dimensione soggettiva dell’identità assume una configurazione appunto dialettica con gli altri e con la struttura sociale. D’altronde, come sottolinea anche la Gilli, in merito al paradigma dell’autenticità esistenziale, lo stesso Wang osserva che «si può dare significato alla ricerca del sé autentico solo nei termini dell’ideale di autenticità emerso nella società moderna» (Wang 1999, p. 360). In altre parole, il significato di autenticità non può che essere “costruito” a partire dai significati simbolici mediati dai moderni sistemi societari e, il più delle volte, proprio in opposizione ad essi. Da questo punto di vista Erick Cohen parla di «turismo esperienziale» come risposta alla crisi di valori delle società contemporanee (Cfr. Savoja 2005, p. 102). In questo senso, a mio avviso, si torna al senso di autenticità indicato già da MacCannell quale reazione alla differenziazione tipica della modernità, oppure, in un altro senso, sarebbe al limite possibile pensare che il tempo turistico venga usato per sperimentare quelle “potenzialità” del sé solitamente inibite nella vita quotidiana116. In questo senso, invece, Cohen parla anche di «turismo sperimentale» come necessità di sperimentare appunto modelli di vita alternativi, il cui culmine starebbe in quello che sempre Cohen definisce come «turismo esistenziale» per cui il turista aderisce in maniera totale all’universo di valori e alle regole della località visitata facendosi al ritorno per così dire “profeta in patria” di tali norme e valori (ivi). Oppure ancora, il tempo turistico servirebbe per il recupero dei legami familiari (che il turismo faciliterebbe) ma anche per il recupero e la fruizione di una dimensione comunitaria, seppur temporanea, che è quella che si stabilisce fra soggetti impegnati in una comune esperienza, prescindendo da distinzioni di ruolo/status e da gerarchie sociali117.

In quest’ultima accezione è possibile rinvenire alcune continuità con gli approcci che fanno leva sull’importanza dei legami sociali di stampo postmoderno (Maffesoli 1988; Cova 2003), di cui abbiamo già ampiamente parlato in altri momenti118. In particolare, secondo questa impostazione il soggetto post-moderno, altamente individualizzato, tenderebbe a recuperare la dimensione collettiva attraverso l’immersione temporanea in contesti esperienziali che prevedono un «coinvolgimento sensoriale totale», attraverso il quale «l’individuo partecipa all’esperienza individuale e sociale» (Mazzoli L., in Maffesoli 2000, p. 9) senza la rigidità dei vincoli comunitari tradizionali. Questo tipo di legami «liquidi», tanto per riprendere una famosa metafora usata da Zygmunt Bauman,

116 Questa ipotesi si avvicina a quella espressa da Alma Gottlieb secondo il quale «l’assunzione del ruolo turistico avviene per contrapposizione con i ruoli domestici e lavorativi» (Cfr. ad esempio Savoja 2005, p. 91).

117 Il riferimento è alla nozione di communitas elaborata da Turner (Turner e Turner 1978) in riferimento alla dimensione socio-simbolica temporanea di cui fanno parte e si riconoscono i pellegrini nel corso di un pelligrinaggio. Dimensione estendibile al tuismo più in generale proprio nel solco della sociologia tracciata da MacCannell.

molto spesso si risolvono in una comune partecipazione alla società consumistica e al suo frenetico mutamento che, per gli “integrati”, molto spesso si riduce ad una sorta di istinto ludico, omaggio quotidiano alla fun morality imperante, che trasforma ogni consumatore in quel «viaggiatore sempre alla ricerca dell’altrove o l’esploratore stupito di quei mondi antichi che egli ammette, sempre e di nuovo, di inventare» (Maffesoli 2000, p. 35).

In accordo con quest’immagine, Urry (1995) tratteggia l’identikit del turista postmoderno, il «post-turista», il quale, lungi da ricercare l’autenticità vive la dimensione turistica e il rapporto con gli indigeni, con gli altri turisti e con l’attrazione, alla stregua appunto di un gioco. In questo senso il post-turista rappresenterebbe l’apoteosi della costruzione sociale dell’attrattatività turistica decostruendo, come già si accennava prima, l’intera impostazione teorico-analitica imperniata sull’autenticità. Si potrebbe parlare, al limite, di una “autenticità della relazione ludica”, strettamente situata nel tempo e nello spazio, ma sarebbe, forse, voler “stiracchiare” un po’ troppo il paradigma dell’autenticità.

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