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Immaginario delle catastrofi e rischi global

TURISMO COME CONSUMO E COME ESPERIENZA

3. La costruzione sociale dell ’ immaginario turistico

3.3 Immaginario delle catastrofi e rischi global

Il passaggio messo in evidenza dalla Gemini dall’immaginario iconico rappresentazionista a quello esperienziale e performativo può essere in qualche modo ricondotto anche al pensiero di Arjun Appadurai almeno là dove l’antropologo di origini indiane evidenzia, nella tarda modernità caratterizzata dal moltiplicarsi dei flussi culturali globali e comunicativi, la ritrovata predominanza dell’immaginazione come dimensione prevalentemente collettiva (e in questo differenziantesi dalla mera fantasia). L’immaginario performativo, infatti, parla dell’esperienza dei corpi, di vite possibili non solo nella fantasia ma nell’esperienza concreta delle persone che si rendono palesi ad altre coscienze.

Appadurai (2001), infatti, sottolinea come i flussi culturali moltiplicatesi anche per via dello sviluppo del «capitalismo culturale» di cui parla Rifkin e della sua progressiva mondializzazione, si propaghino attraverso una sorta di strutture organizzative e funzionali che egli definisce «panorami» (Landscape), i quali, in qualche modo, mediano la diffusione dei flussi culturali stessi. Si tratta del movimento delle persone, delle tecnologie, dei media, della finanza, delle idee; tutte forze che, messe in

movimento in un panorama globale complessivo alimentano esattamente l’immaginazione degli individui contribuendo alla concretizzazione di possibili altrimenti.

L’immaginazione, così alimentata dalle suggestioni e dalle possibilità performative rese possibili dalle tecnologie della comunicazione come dalla crescente mobilità, si configura come vera e propria forza sociale che «mira a costruire piani di realtà alternativi alla realtà quotidiana o alla finitudine rappresentazionale» degli individui, stimolandone la creatività (Cfr. Semprini 2003, p. 144).

Abbiamo anche già avuto modo di vedere, nel secondo capitolo, come proprio la moltiplicazione dei messaggi, delle immagini, delle esperienze del mondo globale (dei panorami se vogliamo), lungi dal portare a termine una sorta di gigantesca McDonaldizzazione del mondo, metafora di una decisiva omogeneizzazione culturale, favorisca piuttosto una sorta di meticizzazione, di “unità nella diversità” che sarebbe l’orizzonte di quella cultura cosmopolita di cui parla anche Ulrick Beck e che si alimenta delle immagini provenienti da tutto il mondo.

Come fenomeno visuale il viaggio può contare sulla grande mole di immagini che produce e che sono prodotte in riferimento ad esso. Il viaggio, inteso quindi sia come incontro tra popoli e culture (ethnoscapes nei termini di Appadurai) che come modello idealizzato di immagini prodotte e trasmesse dai media (mediascapes), rappresenta una delle principali strutture che sorreggono e alimentano l’immaginazione. Come evidenzia ancora una volta la Gemini, il viaggio, rappresentando quella tensione antropologica all’erranza che appare addirittura fondativa dell’intera umanità, si presta ad essere il luogo privilegiato per l’osservazione dell’immaginario, di quel contesto del possibile che riguarda la competenza simbolica e il rapporto tra individui e società (2008, p. 133). E proprio come ambito privilegiato dell’immaginario è anche quello che forse più di altri si presta a manifestare la sua potenza anche nelle forme del tragico (ibidem, p. 134).

L’immaginario del viaggio ha infatti dovuto fin da subito definirsi anche come campo di espressione della possibilità del rischio, come “odissea”136, e in questo senso il rischio stesso ha sempre contribuito a costruirne l’immaginario come, d’altronde, i grandi eventi catastrofici legati ai determinismi naturali, o, molto più recentemente, legati all’intervento dell’uomo-cultura sul mondo e sulle cose, sono alla base delle rappresentazioni collettive in generale.

Dal punto di vista delle rappresentazioni collettive la visibilità che i rischi e gli eventi (i drammi sociali) hanno sui media, possono contribuire all’elaborazione cognitiva dei timori e delle paure e possono trovare proprio nella pratica turistica - «nel mettere piede e nel toccare con mano il simbolo stesso del dramma sociale, nell’essere testimoni, nel sentirsi un po’ parte in causa» (ibidem, p. 139) - una particolare modalità performativa

136 Il termine “odissea” usato usualmente per indicare una «Serie di fatti o di avvenimenti infausti e dolorosi, seguito di avventure, di traversie» (Dizionario della Lingua Italiana Sabatini-Coletti) ha la sua origine, come è noto, nel poema omerico dedicato alle avventure e traversie di Ulisse compiute nel suo viaggio per ritornare a casa dopo la vittoriosa guerra di Troia. Ulisse è l’«eroe» dell’Odissea, cioè, nel senso greco originario del termine il protagonista di un’impresa eccezionale, irta di quei rischi e pericoli d’altronde impliciti nell’azione stessa.

di partecipazione all’intera umanità piuttosto che ad una determinata “comunità di sentimento”.

Come nel caso dell’attentato americano alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, l’evento tragico ha infatti immediatamente definito una sorta di linea di demarcazione che, scorrendo come attraverso le membra di ciascun individuo e collegandolo idealmente con ciascuno altro, chiamava in causa e definiva immediatamente un “noi”, un pronome soggetto che includeva tutti coloro che si sentivano allo stesso modo toccati e uniti dalla tragicità dell’evento, subito contrapposti a coloro che si potevano sentire invece uniti da un sentimento uguale ma contrario. In questo caso la tragicità dell’evento ha immediatamente costituito una comunità ideale, una comunità di destino e di sentimento, immediatamente in opposizione ad una ideale comunità rappresentata dai “nemici dell’America”.

Altre volte, una tragedia che si abbatte su di una area geografica e che coinvolge una particolare popolazione, diventa metafora stessa della tragicità e precarietà della condizione umana. In questo caso la comunità di sentimento tende ad allargarsi idealmente all’intera umanità e la tragedia a divenire, quindi, “umanitaria”.

È il caso più spesso di tragedie naturali come i terremoti o gli tsunami, delle carestie o delle epidemie, come anche delle guerre e della condizione dei rifugiati, almeno quando le ragioni del conflitto lasciano il passo alle sue tragiche conseguenze sulle popolazioni. Ma sono anche altre le tragedie, o meglio i rischi, che contribuiscono a dare forma alla coscienza collettiva incidendo in modo significativo sull’immaginario condiviso. Si tratta di quei rischi globali connessi alle conseguenze impreviste della modernizzazione già denunciati nel secondo capitolo attraverso le categorie analitiche messe a punto dal sociologo tedesco Ulrich Beck.

Secondo Beck, sono proprio la diffusione della comunicazione e dell’informazione su scala globale, nonché le interconnessioni globali che interessano tanto i movimenti di persone che di merce, ecc. a definire i rischi come globali, tanto che nessuno può dirsi escluso o al sicuro dai problemi e dalle questioni che essi pongono. Ma in particolare, è la drammatizzazione mediatica dei rischi, cioè la loro diffusione assicurata dalle logiche mediatiche stesse (per cui, ad esempio, bad news are good news), che tende a portare gli scenari di rischio al livello dell’immaginario collettivo addirittura globale. Per Beck le società del rischio non sono infatti quelle società che più corrono rischi ambientali per via di un maggiore inquinamento o perché hanno normative poco attente alla salute pubblica, bensì proprio quelle società che fanno di tali rischi una pubblica drammatizzazione. Solo così, infatti, i rischi arrivano alle coscienze e vengono interiorizzati e collettivizzati allo stesso tempo inducendo evidentemente all’azione137. A differenza del discorso umanitario, dove le immagini e l’immaginario delle catastrofi suscita una una “empatia a distanza”, una sorta di “distaccata compassione”, se mi si passa l’ossimoro, nel caso dei rischi globali, questi vengono immediatamente

137 Da questo punto di vista, infatti, possono essere definite più propriamente società del rischio quelle occidentali, dove la stampa è libera e i problemi ambientali o riguardanti la pubblica sicurezza sono spesso in primo piano nell’agenda dei mezzi di informazione, mentre, ad esempio, più difficoltosa è tale definizione per la Cina, nonstante là le devastazioni ambientali siano attualmente ben peggiori. La questione è, infatti, primariamente una questione di “coscienza collettiva”.

interiorizzati come rischi individualizzati, cioè come rischi immediati per il soggetto (seppur mediati).

In altre parole, mentre l’azione umanitaria si sviluppa come azione collettiva a partire da un’emozione individuale quale la compassione (Musarò 2007 pp. 140-150), nel caso dell’immaginario del rischio è il rischio stesso a venire interiorizzato e a muovere a quelle «azioni collettive individualizzate» (Micheletti 2010) che rappresentano il carattere peculiare del cosiddetto consumerismo politico, del quale abbiamo già parlato nel secondo capitolo, e che presuppone fattive azioni da parte dei consumatori, ovvero, dei cittadini nel loro ambito più peculiarmente privato.

Come scrive infatti la Micheletti «vivendo le nostre esistenze quotidiane, apparentemente private, noi lasciamo impronte ecologiche, etiche e pubbliche. L’auto- riflessione e la consapevolezza di tale influenza implica il riconoscimento del fatto che le azioni quotidiane dei cittadini hanno il potere di ristrutturare la società» (2010, p. 54) e, diciamo noi, l’immaginario: «Ad avere maggior rilievo ora sono reti d’azione comunitaria costruite e sostenute mediante relazioni d’amicizia e tra pari, rafforzate da tecnologie dell’informazione interattive, quali social media e siti di social network» (Mazzoli 2012, p. 122).

Quindi, anche nel caso di quello che abbiamo definito “immaginario del rischio”, la componente performativa quanto mai evidente, in quanto tale immaginario spinge immediatamente all’azione e tale azione, che passa appunto per i corpi e la loro auto- disciplina riflessiva, contribuisce a riplasmare l’immaginario stesso del sociale e, come vedremo, quindi anche quello turistico.

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