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IL MONDO AL BIVIO

3. La società globale del rischio

La strategia collaudata con la quale le forze economiche transnazionali sviluppano la propria razionalità su scala globale passa quindi per una calcolata rinuncia all’omogeneizzazione: la differenziazione, la personalizzazione e l’adattamento diventano gli imperativi categorico dell’agire razionale. Il principio dell’efficienza viene in qualche modo sacrificato sull’altare dell’efficacia, con il risultato di allargare costantemente i confini del mercato mondiale.

Questo processo rischia comunque di essere non meno selvaggio di quello che ha interessato i Paesi di prima modernizzazione e le sue esternalità negative non meno disastrose. Anzi, proprio mentre questo sistema viene incentrato sull’allargamento dei consumi e questi accolti come promessa di un orizzonte di maggiore libertà, aumenta la “cosciente cecità” nei confronti dei rischi che nel frattempo montano a livello globale. Non si può impedire ai nuovi soggetti che si affacciano sulla via della modernizzazione di arginare i guasti prodotti da secoli di sviluppo occidentale. Eppure, questi rischi non smettono per questo di imporsi al mondo con la forza disarmante della propria realtà.

3.1 Il rischio come categoria individuale e collettiva

Il sociologo tedesco Ulrich Beck (2000; 2001) identifica nei nuovi rischi delle società moderne avanzate il grimaldello per un ripensamento collettivo dei guasti prodotti dalla modernità. Con il concetto di «rischio», egli vuole intendere, più precisamente, tutti quegli effetti collaterali imprevisti e imprevedibili della modernità industriale.

Questi rischi, dice Beck, diventano «rischi globali» con la progressiva globalizzazione della società industriale stessa e delle sue logiche. Abbiamo già visto alcuni di questi rischi sociali: la capacità di ricatto dei soggetti economici transnazionali nei confronti degli stati nazionali, la capacità di sottrarre lavoro, di imporre politiche al ribasso sugli standard di lavoro e di sicurezza, la progressiva dissoluzione dei meccanismi di welfare, ecc. Insomma, i rischi di un tendenziale impoverimento e una progressiva marginalizzazione degli individui che non riescono, in qualche modo, a globalizzarsi. Rispetto ai nuovi rischi sociali imposti dalla globalizzazione, si può affermare infatti, con Bauman, che l’aspetto più tragico a livello psicologico individuale è il fatto che problemi di natura sistemica vengono presentati e vissuti come sfide individuali e, di conseguenza, che ogni sconfitta venga vissuta come una sconfitta personale. Già a questo livello i rischi globali vengono in qualche modo individualizzati ma con il rischio che l’individuo si trovi disarmato di fronte ad essi.

A questi rischi, che già di per loro suscitano in realtà forme di reazione collettiva, Beck aggiunge i rischi ambientali e i rischi connessi alla sicurezza tecnologica e conseguente contesto tecnocratico. Anzi, proprio questi rischi sono quelli dai quali origina la riflessione di Ulrich Beck. Egli li intende come l’altra faccia della ricchezza sociale , cioè «effetti collaterali», vere e proprie conseguenze impreviste del modello di crescita lineare dell’industrialismo (Ghisleni e Privitera 2009), i quali, riverberandosi in senso negativo sugli individui, spingono le società a modernità avanzata verso un proprio

ripensamento riflessivo.

Con l’ideale di una fase «riflessiva» della modernità, Beck vuole indentendere una forma di ripensamento dell’agire che tocca direttamente anche l’ambito privato degli individui, i quali sono, per così dire, “costretti” ad interrogarsi sulla loro condizione nel mondo e ad agire in qualche modo per arginare le negatività del loro comportamento individuale e collettivo.

Infatti, mentre determinati rischi sono sempre stati presenti, in più o meno larga misura in ogni società ed anzi hanno sempre rappresentato un elemento di evidenza delle disparità insite nella stratificazione sociale, evidenziando la differenza tra chi aveva i mezzi per mettersi al riparo da tali rischi e chi no, i nuovi «rischi globali», come scrive Beck, sono trasversali ad ogni stratificazione sociale e toccano potenzialmente tutti con la stessa intensità. In questo senso essi sono trasversali anche alla nuova stratificazione sociale globale e interessano tanto i poveri localizzati che i ricchi globalizzati (Bauman 1998).

Si pensi, ad esempio, a fenomeni come le conseguenze del surriscaldamento globale dovuto alla crescente immissione in atmosfera di gas ad effetto serra, con le conseguenze sul clima dell’intero globo terrestre. Lo stesso dicasi per l’assottigliamento dello strato di ozono della stratosfera che protegge dai raggi cosmici dannosi provenienti dal Sole; o ancora lo sciogliemento dei ghiacci artici, con conseguente innalzamento del livello costiero dei mari che pone a rischio inondazione gran parte delle città costiere del mondo; per non parlare del rischio rappresentato dal proliferare delle centrali a reazione nucleare, il cui rovinoso potenziale è ben rappresentato dal tristemente famoso disastro di Chernobyl, recentemente bissato nel 2011 dal disastro della centrale supertecnologica di Fukushima, in Giappone. Si tratta di rischi dovuti all’attività antropica sul pianeta e alle sempre più complesse tecnologie necesssarie all’approvigionamento energetico, come nel caso del disastro della piattafroma petrolifera Deepwater Horizon della inglese British Petroleum, esplosa e andata a fondo al largo del Golfo del Messico e responsabile di uno sversamento in mare di greggio senza precedenti che ha compromesso pesantemente le coste orientali del Sud e Centro America. Un disastro dovuto essenzialmente alle sempre più difficili condizioni di estrazione, eseguite in acque sempre più profonde, necessarie allo sfruttamento di nuovi giacimenti petroliferi in condizioni di crescente emergenza energetica. Per non parlare dei ripetuti allarmi alimentari legati a sostanze pericolose presenti nei cibi o a epidemie virali che colpiscono i capi di bestiame e che rischiano di diventare rapidamente pandemie globali vista la velocità con cui le merci e le persone oggi si muovono su tutto il pianeta. Si tratta di rischi relativi ad una crescente difficoltà ad affrontare una complessità sistemica che ha il suo contraltare nella crescente specializzazione dei saperi.

Infatti, come sottolinea Beck, a fronte di una richiesta sociale crescente di rassicurazioni contro i rischi globali dell’inquinamento e dell’applicazione della tecnica a campi vitali, gli esperti non sono più in grado di soddisfarla completamente. Si crea una situazione «strutturalmente contraddittoria» tra le richieste di rassicurazione proveniente dai cittadini e gli interessi economici chiamati in causa in situazioni di attestato o presunto rischio (Ghisleni e Privitera 2009, p. 48).

In questo senso, la società globale del rischio introduce l’umanità in una nuova fase della modernità, in quanto tendono a venir meno almeno due dei grandi presupposti sui quali la modernità si è fin qui fondata: la fede incontestabile nel Progresso dominato dalla scienza e dalla tecnologia e il connesso declino dell’ideologia tecnocratica51. La prospettiva di Beck - come di Giddens, altro importante autore che affronta tali tematiche - è quella di una modernità che non supera se stessa ma che, anzi, porta a compimento le sue stesse premesse attraverso il processo di globalizzazione in atto che, in questo senso, è visto come il compimento del processo universale del capitale che tracima alla fine dagli oramai fragili argini dello Stato-Nazione che lo aveva, in qualche modo, “addomesticato”.

I guasti sociali e ambientali della globalizzazione, intesi ora come crescenti rischi planetari, diventano, quindi, il nuovo argine del capitalismo mondiale, in quanto si «riflettono» in maniera negativa sui progetti di vita di ciascuno costringendo gli individui a ripensare le proprie strategie d’azione e l’orizzonte della propria libertà. L’orizzonte entro cui si dirama la teoria della «modernità radicalizzata» (Giddens) o «riflessiva» (Beck), che dir si voglia, rimane un orizzonte ancora ampiamente moderno nel senso che esso può riferirsi ancora a quella grande ideologia (o utopia) moderna rinvenibile nel progetto Illuminista di uscita dell’umanità dallo stato di minorità e al raggiungimento della libertà (e, al limite, della felicità).

In questo senso, le formulazioni di Beck, come di Dahrendorf, tendono a coincidere. È possibile infatti affermare che è ancora presente l’ideale di uno sviluppo dell’umanità in termini di emancipazione crescente dai condizionamenti di natura fisica, culturale e ideologica e, quindi, il progetto di una liberazione più generale del soggetto dal dominio in ogni sua forma, un obiettivo finalizzato ad una piena e libera estrinsecazione della persona umana52.

Quella che casomai viene messa in discussione – ed è soprattutto qui che Beck fa un salto in avanti rispetto a Dahrendorf - è l’idea di “Progresso” come un movimento continuativo dell’umanità verso un suo progressivo e pressoché automatico miglioramento, un ideale che fin dal suo sorgere si è legato a filo diretto con la concezione razionalistica propria della modernità e, quindi, con il suo sviluppo tecnico scientifico ed industriale.

In verità, nell’arco della modernità, i termini “Progresso” e “Sviluppo” hanno finito quasi subito per coincidere ed anzi, il secondo termine ha finito presto per inglobare il primo53, per cui l’idea stessa di un progresso umano si è legata indissolubilmente alla

51 Oltre ovviamente al tramonto dell’entità politica propria della modernità lo Stato-nazionale e al progressivo declino della centralità del lavoro.

52 Questa formulazione pienamente libertaria è bene espressa, ad esempio, anche nella Costituzione italiana, una carta fondamentale che nel periodo postbellico in cui è stata redatta è convogliata tanto l’influenza del cattolicesimo libertario post-totalitario, quanto l’influenza della cultura socialista e comunista. Il risultato è un buon compormesso nel quale l’assicurazione universalistica dell’eguaglianza e della libertà politica è finalizzata al «pieno sviluppo della persona umana» ed è al contempo impegno della Repubblica rimuovere gli «ostacoli di ordine politico ed economico» che di fatto ostacolano questo fine superiore.

53 Pierpaolo Pasolini proprio riflettendo su tali termini, distingue il «progresso» come «nozione ideale (sociale e politica)», dallo «sviluppo» che è piuttosto un «fatto pragmatico ed economico» ma, allo stesso tempo, si rende conto che «questa dissociazione [...] richiede una «sincronia» tra «sviluppo» e

processualità costante e apparentemente senza fine dello sviluppo industriale ed economico, tanto che quest’ultimo è divenuto, alla fine, sinonimo stesso di sempre maggiore libertà, intesa come aumento continuo delle chances di vita per un numero crescente di persone54.

Quello che viene messo in crisi dai crescenti rischi dell’industrialismo, motore primo dello sviluppo economico, è esattamente questa fede cieca nel liberismo economicista come strumento di sempre maggiori libertà nello sviluppo (da sempre la fonte stessa della sua legittimazione sociale).

È quindi principalmente questo aspetto che diventa, nella modernità radicalizzata, l’oggetto stesso sul quale la nuova «società globale del rischio» è chiamata ad interrogarsi “riflessivamente” per trovare rinnovate soluzioni.

A venire rispolverata è, quindi, la più classica Ragione degli Illuministi o, se vogliamo, la sua anima più umanista (non necessariamente quindi Positivista), spogliata cioè dell’elemento oramai del tutto irrazionalistico rappresentato dall’automatismo del Progresso come sviluppo costante e automatico che ha dominato la modernità fino a questo momento.

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